Sezioni
Sezioni
29 marzo 2024
Reati tributari – Imposte sul reddito delle società – Libere Università – Attività di insegnamento – Giudizio di prevalenza di cui all’art. 149 d.P.R. n. 917 del 1986 – Criteri.
28 marzo 2024
Pene sostitutive della pena detentiva – Valutazione dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. anche ai fini dell’individuazione della pena sostitutiva da applicare – Necessità – Ragioni.
27 marzo 2024
Il Tribunale del riesame può motivare per relationem, poiché soltanto il GIP è tenuto ad un'autonoma valutazione
Con l'impugnazione di legittimità, il ricorrente censurava l'ordinanza del Tribunale del riesame, rilevando l'omissione di un'autonoma e specifica argomentazione sui gravi indizi di colpevolezza, avendo il Tribunale motivato per relationem. Inoltre, secondo il ricorrente, l'ordinanza impugnata, oltre al rinvio alle argomentazioni espresse nel titolo custodiale genetico, si limitava ad una sterile riproposizione "a stralcio" di passaggi delle dichiarazioni dei collaboratori, non corroborata da una autonoma valutazione sulla loro rilevanza in ordine al contributo causale offerto dal ricorrente al perseguimento dei fini illeciti del clan criminale.
A fronte di tale censura, la Corte di legittimità ha considerato che << l'ordinanza cautelare adottata dal
tribunale del riesame NON richiede, a pena di nullità, l'autonoma valutazione dei
gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, in quanto tale requisito è
previsto dall'art. 292, comma 2, cod. proc. pen. con riguardo alla SOLA decisione
adottata dal giudice che emette la misura "inaudita altera parte">>. (sentenza n. 5330/24 al link)
26 marzo 2024
Trattazione scritta, nonostante la tempestiva richiesta di trattazione orale. Vizio deducibile direttamente con ricorso in cassazione
A fronte di un giudizio di appello celebrato con rito camerale non partecipato, nonostante la tempestiva richiesta di trattazione orale, la V sezione della Corte di legittimità ha ritenuto che <<nel vigore della
disciplina emergenziale di contenimento della pandemia da Covid-19, ove il difensore
dell'imputato abbia inoltrato rituale e tempestiva richiesta di trattazione orale, lo svolgimento
del processo con rito camerale non partecipato determina una nullità generale a regime
intermedio per violazione del contraddittorio, deducibile con ricorso per cassazione (Sez. 5, n.
44646 del 14/10/2021, Rv. 282172; conf. Sez. 3, n. 38164 del 15/06/2022, Rv. 283706);
trattasi, infatti, di invalidità processuale verificatasi nel corso del giudizio, che, ai sensi dell'art.
180 cod. proc. pen., può essere utilmente dedotta entro la deliberazione della sentenza del grado
successivo e, quindi, nel caso di specie, con il ricorso per cassazione>> (sentenza al link)
25 marzo 2024
❌❌NOVITA' CORTE COSTITUZIONALE❌❌ APPROPRIAZIONE INDEBITA: ILLEGITTIMA LA PENA MINIMA DI DUE ANNI DI RECLUSIONE - UN'ALTRA DICHIARAZIONE DI INCOSTITUZIONALITA' DELLA LEGGE C.D. SPAZZACORROTTI VOLUTA DAL MINISTRO ALFONSO BONAFEDE
Il brusco innalzamento della pena minima per l’appropriazione indebita, portata da quindici giorni a due anni di reclusione dalla legge n. 3 del 2019 è sprovvisto di qualsiasi plausibile giustificazione ed è, già per questa ragione, costituzionalmente illegittimo.
Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 46 al link, depositata oggi, che ha accolto una questione sollevata dal Tribunale di Firenze, di fronte al quale pendeva un processo per appropriazione indebita del valore di 200 euro, commessa da un agente immobilitare che aveva restituito soltanto in parte al proprio cliente la somma ricevuta a titolo di cauzione per un contratto di locazione, poi non conclusosi. La Corte ha rammentato che il legislatore gode di ampia discrezionalità “nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato”. Tuttavia, ha aggiunto la Corte, “discrezionalità non equivale ad arbitrio. Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”. Il controllo sul rispetto di questi limiti – prosegue la sentenza – spetta alla Corte costituzionale, che “è tenuta a esercitarlo con tanto maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari”. Alla luce di questi principi, la Corte ha osservato che l’aumento della pena minima per l’appropriazione indebita deciso nel 2019 è stato voluto da una legge la cui finalità essenziale era quella di combattere in modo più efficace la corruzione. Come osservato nei lavori preparatori della legge, l’appropriazione indebita di somme societarie può essere in concreto funzionale rispetto a successive pratiche corruttive; il che può spiegare la scelta del legislatore di innalzare la pena massima prevista per il reato dalla soglia di tre anni a quella attuale di cinque anni. Resta però del tutto oscura la ragione che ha indotto il legislatore a innalzare a due anni la pena minima, che dal 1931 al 2019 era stata pari a quindici giorni di reclusione. Ciò “a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti”. E i fatti meno gravi di appropriazione indebita, ai quali deve applicarsi la pena minima, “nella gran maggioranza dei casi nulla hanno a che vedere con condotte prodromiche alla corruzione, e in particolare con la costituzione di ‘fondi neri’ dai quali poter attingere per tale scopo”. Una pena simile, d’altra parte, appare manifestamente sproporzionata rispetto a quella minima (di sei mesi di reclusione) oggi prevista per un furto e una truffa che, in ipotesi, producano esattamente lo stesso danno patrimoniale di 200 euro. Né potrebbe obiettarsi, ha sottolineato ancora la Corte, che la pena può comunque essere mitigata dalle attenuanti generiche, cui il giudice non deve essere costretto a ricorrere solo per evitare l’inflizione di pene sproporzionate. Così come l’imputato non deve essere spinto a scegliere il patteggiamento o il giudizio abbreviato, rinunciando così a una parte importante delle sue garanzie difensive, soltanto per ottenere uno sconto di pena rispetto a una pena che risulterebbe altrimenti manifestamente eccessiva. La Corte ha, infine, sottolineato, che il rimedio appropriato alla violazione della Costituzione riscontrata è qui, semplicemente, la cancellazione della pena minima, che resterà così automaticamente fissata in quella prevista in generale dal codice penale per la reclusione, pari appunto a quindici giorni. Resterà poi libero il legislatore di valutare se stabilire un nuovo minimo di pena, nel rispetto del principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena.
Oggetto: Reati e pene - Appropriazione indebita - Trattamento sanzionatorio - Previsione della reclusione da due a cinque anni (oltre la multa) anziché della reclusione da sei mesi a cinque anni (oltre la multa) - Irragionevolezza rispetto al trattamento sanzionatorio previsto per il reato di furto di cui all'art. 624 codice penale e per il reato di truffa di cui all'art. 640 codice penale per i quali la pena minima edittale è fissata in sei mesi di reclusione.
Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), nella parte in cui prevede la pena della reclusione «da due a cinque anni» anziché «fino a cinque anni».
22 marzo 2024
Corte Costituzionale sentenza n. 45/2024 - ESTINZIONE DEL REATO: L’IMPUTATO PUÒ PROCEDERE ALLA RIPARAZIONE DEL DANNO ENTRO IL TERMINE MASSIMO DELLA DICHIARAZIONE DI APERTURA DEL DIBATTIMENTO
La Corte (sentenza n. 45) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’estinzione del reato, le condotte riparatorie debbano essere realizzate «prima dell’udienza di comparizione», anziché «prima della dichiarazione di apertura del dibattimento». Il giudice di pace di Forlì, nel sollevare la questione, aveva censurato lo sbarramento temporale che imponeva, prima dell’udienza di comparizione, l’adempimento delle condotte risarcitorie e riparatorie del danno conseguente al reato, da lui commesso, deducendo che il predetto limite temporale fosse in sé irragionevole e tale da determinare una disparità di trattamento rispetto agli imputati dei reati di competenza del Tribunale, per i quali la riparazione integrale del danno è ammessa fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 162-ter cod. pen.). La Corte ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione del principio di ragionevolezza, osservando, in particolare, l’incoerenza del termine finale previsto dalla disposizione censurata rispetto al peculiare ruolo di “mediatore” del giudice di pace, il quale giudica reati di ridotta gravità, espressivi di conflitti interpersonali a carattere privato e alla finalità di semplificazione, snellezza e rapidità che connota il procedimento che innanzi a lui si svolge. È stato sottolineato che, in particolare, la funzione conciliatoria del giudice di pace (sancita come principio generale dall’art. 2 del d. lgs n. 274 del 2000), il cui luogo di fisiologica esplicazione è proprio l’udienza di comparizione, risultava impedita dal termine perentorio che, previsto prima di tale udienza, frustrava la stessa funzione del giudice non consentendogli di avviare l’imputato e la persona offesa ad un accordo sulla entità e sulle modalità degli adempimenti riparatori e risarcitori. La Corte ha anche evidenziato che la rigida preclusione temporale determinava ricadute negative sul carico giudiziario, riducendo i casi di definizione anticipata del processo attraverso la dichiarazione di estinzione del reato, per l’esito positivo delle condotte riparatorie. Invece, la fissazione del termine ad quem nella dichiarazione di apertura del dibattimento è coerente con la finalità deflattiva del carico giudiziario e, al tempo stesso, consente un evidente risparmio di attività istruttorie e di spese processuali, non dandosi corso - nel caso in cui risulti integrata la fattispecie estintiva del reato conseguente a condotte riparatorie - alla fase dibattimentale.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’estinzione del reato, le condotte riparatorie debbano essere realizzate «prima dell’udienza di comparizione», anziché «prima della dichiarazione di apertura del dibattimento» di cui all’art. 29, comma 7, del medesimo decreto legislativo.
21 marzo 2024
❌❌❌❌ Il 4 aprile in vigore i correttivi alla Cartabia. Gli auguri di buona Pasqua del Governo. ❌❌❌❌
Come succede spesso all'approssimarsi di qualche festività, il Governo interviene sul processo.
Questa volta il regalo consiste nella riforma della riforma. Il d.l.vo, pubblicato nella G.U., entrerà in vigore il 4 aprile prossimo. (Testo normattiva al link) (Testo in G.U. cartacea al link)
L’indagato ha diritto a ricevere informazioni sullo stato del procedimento- di Luigi Tramontano*
Informazioni sullo stato del procedimento. A chi spetta riceverle?
Accade questo. In coincidenza con il passaggio all’obbligo di deposito degli atti legali per via telematica, in alcune Procure del paese – a meritoria eccezione però, per quanto finora mi consta, almeno della Procura di Trapani – può capitare di vedersi rigettata la richiesta di conoscere lo “stato del procedimento” avanzata quali difensori della persona sottoposta ad indagini, con la motivazione che un’espressa previsione di un diritto in tal senso sarebbe dettata dal codice solo a beneficio della persona offesa (art. 335, comma 3-ter, c.p.p.).
Ove si consolidasse, e si estendesse, sarebbe questa una novità non derivante questa volta da una (cattiva) predisposizione del programma, ma attribuibile direttamente a magistrati inquirenti in carne ed ossa. Sicché la circostanza merita di essere affrontata in punto di diritto.
È innegabile, invero, che nell’indicare chi possa essere destinatario della detta informazione, l’art. 335 c.p.p. – al comma 3-ter, introdotto dalla l. n. 103 del 2017 – si riferisce unicamente alla persona offesa (peraltro, neppure a tutte le possibili persone offese, ma solo a quelle che abbiano presentato denuncia o querela, e solo dopo sei mesi da detta presentazione).
Tuttavia, non è mai un argomento convincente quello che – soprattutto ove vengano in considerazione diritti o facoltà della persona sottoposta ad indagini – si esaurisca nella considerazione che una previsione “espressa”, in proposito, non sia dettata dal codice (e ancora meno, che non la si rinvenga cercandola però in una sola norma). La validità di un simile modo di trattare le questioni processuali è invero limitata, come ci è stato insegnato, agli stretti settori per i quali il codice detti un principio di tassatività (così, ad esempio, per i mezzi di impugnazione). E non è certamente questo il nostro caso.
Più in generale, invece, è altrettanto noto che l’analisi giuridica non deve esaurirsi nella considerazione isolata di singole norme, perché il diritto consiste soprattutto nella relazione che tra tutte queste norme si viene a determinare, essendo un sistema, appunto. È quasi inevitabile così, se non si tiene conto di questo aspetto essenziale, cadere in (involontari) paradossi.
Ora, nel codice non si trova una norma apposita (o di sintesi, per così dire) che preveda per l’indagato il diritto a ricevere informazioni sullo stato del procedimento per la semplice ragione che sarebbe stato una ripetizione porla, dato che ciascuno degli specifici contenuti in cui tale informazione può consistere (segnatamente: che le indagini siano ancora in corso, che sia stata chiesta l’archiviazione, che sia stato emesso l’avviso ex art. 415-bis c.p.p., oppure che sia esercitata l’azione penale in una qualsiasi delle sue forme) deve essere pacificamente portato a conoscenza della persona indagata, così come espressamente previsto, appunto, dalle norme che disciplinano ognuna di tali eventualità.
Una norma apposita si è ritenuto invece necessario porla in favore della persona offesa, nel 2017, proprio perché buona parte delle suddette comunicazioni non è (o non era) previsto dal codice che fossero date anche agli offesi[1]. È solo questa la ragione per cui è stato quindi aggiunto il comma 3-ter all’art. 335 c.p.p., non certo per sancire che l’accesso all’informazione riguardante lo stato del procedimento spetti solo a costoro.
Ed allora, nonostante il “programma” del PPT non contempli espressamente questa possibile richiesta da parte dell’indagato[2], cercherò brevemente di mostrare in queste note che il diritto di quest’ultimo a ricevere informazioni sullo stato del procedimento che lo riguarda gli è senz’altro, per quanto implicitamente, riconosciuto dall’ordinamento, dato che tali informazioni costituiscono il necessario presupposto per l’esercizio, da parte sua, di specifici diritti e facoltà che la legge processuale espressamente gli riconosce, ed altrimenti non esercitabili (o esercitabili con maggiore ostacolo). E di mostrare anche, a riprova di ciò, che il diniego eventualmente opposto dal magistrato inquirente a un tale tipo di richiesta del soggetto ad indagini debba ritenersi – sotto il profilo processuale – senz’altro illegittimo.
Si converrà almeno su questo, su un piano di fondo: precludere l’accesso alle informazioni sullo stato del procedimento giusto all’indagato – ossia giusto a colui che ne è il diretto interessato – è certamente un brutto segnale da dare ad ogni cittadino, perché stride con la trasparenza che, in un ordinamento avanzato, dovrebbe invece tendenzialmente connotare l’esercizio di qualsiasi funzione pubblica, compresa quella giurisdizionale. Appare inoltre un messaggio tutt’altro che imparziale (art. 97 Cost.), dal momento che alla persona offesa si consente invece tale conoscenza.
Induca a maggior ragione a riflettere anche la circostanza che il diniego di cui stiamo discutendo risulterebbe contrario ad una prassi – vogliamo chiamarla così, per ora, senza sbilanciarci? – da sempre seguita senza eccezioni da tutti gli uffici di Procura, almeno fino a quando il difensore poteva recarsi di presenza al c.d. Front Office. Chiedevamo lo stato del procedimento in cui risultavamo nominati, e il funzionario, consultando l’apposito registro, ci comunicava a vista se esso avesse avuto uno sviluppo (richiesta del pubblico ministero di archiviazione, emissione dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. o atto di esercizio dell’azione penale), oppure no. Ciò, va pure detto, anche ben oltre l’introduzione della legge n. 103 del 2017, che ha aggiunto il comma 3-ter all’art. 335 c.p.p. addotto oggi quale ostacolo all’ottenimento di detta informazione da parte della persona sottoposta ad indagini.
Forse che prima della c.d. “rivoluzione” digitale del processo penale gli uffici di Procura fornivano comunicazioni all’utenza ben oltre i limiti in cui avrebbero potuto fornirle? No, di certo.
Partiamo ovviamente dal considerare che l’indagato ha certamente diritto ad avere comunicate le iscrizioni a suo carico esistenti nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. (con le eccezioni – queste sì – espressamente previste dallo stesso art. 335 c.p.p., laddove la segretezza delle indagini debba prevalere rispetto al diritto della persona ad esserne informata). È un diritto, naturalmente, subordinato alla previa verifica da parte del magistrato inquirente che non ostino motivi per escluderlo. Se non ve ne siano, tale diritto si concretizza, dunque.
Ora, sarebbe però un diritto del tutto vuoto o fine a sé stesso, con ogni evidenza, ove il suo contenuto non implicasse anche ciò che ad ogni indagato, una volta saputo di esserlo, premerà conoscere di conseguenza, ossia appunto come stia procedendo l’affaire che lo riguarda. E ciò innanzitutto per monitorarne i tempi.
Ed infatti le norme prescrivono, in via di regola, la notifica alla persona indagata della richiesta del pubblico ministero di proroga del termine delle indagini preliminari (art. 406, comma 3, c.p.p.).
Eh già, perché il pubblico ministero è tenuto a completare le indagini entro un dato tempo, e se ha bisogno di più tempo deve assumersi la responsabilità di chiederlo al giudice. Ora, tanto il rispetto dei tempi di indagine è considerato importante dal codice, che è previsto uno specifico rimedio per l’eventualità che il pubblico ministero, nonostante tutto, sia rimasto inerte (non avendo chiesto, entro i termini prescritti, alcuna proroga oppure avendo esaurito le possibilità di chiederle). È conferito infatti al procuratore generale presso la Corte di Appello il potere di avocare a sè le indagini (art. 412 c.p.p.), ove appunto i termini delle stesse siano spirati senza che l’organo di accusa abbia assunto alcuna determinazione. Ma proprio alla persona sottoposta ad indagini è espressamente riconosciuto il diritto – dall’art. 413 c.p.p. – di sollecitare il procuratore generale all’esercizio di detta avocazione, ove se ne verifichino le condizioni[3]. E dunque: come potrebbe mai l’indagato esercitare tale facoltà processuale se non possa essere informato – come alcuni Sostituti Procuratori ritengono – a che punto sia giunto il procedimento che lo riguarda?
È invece un principio logico generale, di ogni processo, quello per cui alle parti dello stesso deve riconoscersi senz’altro il diritto, anche in difetto di un’espressa previsione, a compulsare proprio quell’aspetto del procedimento che sia il presupposto di una specifica facoltà processuale loro riconosciuta. La quale viceversa risulterebbe inutilmente prevista, perché di fatto inesercitabile[4].
L’impossibilità per l’indagato di informarsi sullo stato del procedimento produce una mutilazione del tutto identica – e non più soltanto alle sue facoltà processuali, ma – persino a diritti veri e propri che la legge gli riconosce. Ciò nel caso, opposto, in cui il procedimento si sia chiuso con un decreto di archiviazione.
Il codice prevede infatti, anche questa volta espressamente, il diritto dell’interessato ad ottenere copia del relativo provvedimento (art. 116, comma 2, c.p.p.). Oppure, le nuovissime disposizioni introdotte con la c.d. riforma Cartabia, in allineamento ai dettami europei, sanciscono l’espresso diritto di ogni persona il cui procedimento sia stato archiviato di chiedere al giudice che sia “preclusa l’indicizzazione o disposta la deindicizzazione, sulla rete internet”, dei suoi dati personali risultanti dal provvedimento stesso (c.d. diritto all’oblio: art. 64-ter disp. att. al c.p.p.). Non sono che due soli esempi di diritti pacificamente riconosciuti alla persona, in conseguenza dell’avvenuta archiviazione del procedimento a suo carico. Ma ve n’è tanti altri, com’è noto.
Ora, è altrettanto noto che al di là della (invero assai improbabile) ipotesi in cui l’indagato poi archiviato abbia subito una custodia cautelare (e sempre che non si tratti dell’ipotesi di cui all’art. 411, comma 1-bis, c.p.p.), la richiesta di archiviazione ordinaria non deve essere comunicata all’interessato, né tanto meno è stabilito che gli sia notificato il provvedimento di archiviazione.
E dunque, di nuovo: se a tale soggetto, che pur sappia dell’esistenza di un procedimento a suo carico ex art. 335, comma 3, c.p.p., si nega poi la possibilità di apprendere che lo stesso sia stato archiviato con il precludergli la possibilità di informarsi circa lo stato del procedimento, come potrebbe mai egli esercitare quei diritti che il codice, proprio per detta eventualità, espressamente gli conferisce?
Consapevoli di ciò, alcune Procure hanno infatti ideato al riguardo una soluzione del genere (la traggo da quanto pubblicizzato, ad esempio, dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna sul proprio sito istituzionale: procedimento della procura di Ravenna al link). Avuta conoscenza del numero di Registro Generale del procedimento iscritto a suo carico, trascorso un certo tempo l’interessato (o il suo difensore), se non abbia ancora ricevuto l’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p., dovrebbe chiedere una seconda volta la comunicazione ex art. 335 c.p.p. – ed eventualmente anche una terza ed una quarta volta, aggiungo io – fino a che questa risulti nulla[5]. A questo punto, invocando le disposizioni indirette più sopra ricordate, potrebbe inoltrare domanda alla Procura volta all’attestazione dell’emissione del decreto di archiviazione (per poi chiederne copia all’apposito Ufficio e/o chiedere al giudice i provvedimenti di cui all’art. 64-ter disp. att. al c.p.p.).
Una soluzione, come si vede, non solo insicura (v. nota 5), ma anche assai farraginosa, e che finisce in realtà per ostacolare l’ottenimento del concreto risultato per cui il diritto corrispondente è riconosciuto (la deindicizzazione dei propri dati dalla rete internet, ad esempio, serve a poco o a nulla se quei dati vi sono comunque rimasti per un tempo abbastanza lungo). E comunque, una soluzione, anch’essa, non espressamente prevista da nessuna disposizione del codice o regolamentare, ma costruita (sia pur a fatica) con l’appoggio e la considerazione di altre norme. Quale dunque il motivo per non ragionare nella stessa maniera, ma in modo assai più lineare – se mi è consentito – ammettendo senz’altro, come si faceva prima dell’era digitale, la legittimità della richiesta dell’indagato di conoscere direttamente lo stato del procedimento?
Il diritto dell’indagato ad essere informato sullo stato del procedimento che lo riguarda si ricava dunque per necessaria implicazione logica dal dato che, altrimenti, egli non potrebbe esercitare tutta una serie di facoltà, e persino diritti, che la legge processuale pacificamente gli assegna.
La riprova della esattezza di tale conclusione, ritengo, la si ha proprio considerando il fenomeno dalla prospettiva opposta, ossia quella di chi dette informazioni detiene.
I provvedimenti dei Sostituti Procuratori qui oggetto di esame, infatti, rifiutando una informazione richiesta, finiscono in definitiva per opporre l’esistenza, in proposito, di un segreto.
Possiamo senz’altro spostarci, allora, su questo specifico versante, appunto per verificare se tale segreto possa essere legittimamente opposto, o meno.
Si rileva innanzitutto che il pubblico ministero, per specifiche esigenze investigative, può certamente esercitare il potere di disporre il segreto sulle iscrizioni (per un periodo non superiore a tre mesi, comunque: v. art. 335, comma 3-bis c.p.p.), ma nessuna norma prevede che abbia anche il potere di opporre il segreto sullo stato di un procedimento della cui iscrizione a suo carico l’interessato sia stato già informato del tutto legittimamente.
Compulsiamo allora le norme generali, sul tema, per vedere se non si tratti magari di aspetto segreto per sua natura (c.d. segreto oggettivo), ossia tale a prescindere da un provvedimento del magistrato che lo sottragga alla conoscibilità dell’interessato.
Ma altrettanto certamente così non è, poiché l’informazione per cui il procedimento sia ancora pendente in fase di indagine o abbia avuto un qualsiasi sviluppo, non appartiene di certo al novero delle notizie coperte dal segreto intra processuale, quale espressamente (o meglio, tassativamente) fissato dal codice. A norma dell’art. 329 c.p.p. infatti, tale segreto riguarda (solo) “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria”, nonché “le richieste del pubblico ministero al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste” (ad esempio, richieste e autorizzazioni di intercettazione, di emissione di una misura cautelare, e così via). Il segreto non riguarda mai, dunque, lo stato del procedimento (tranne che ovviamente non si tratti di uno dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), ed esclusa anche l’ipotesi, già detta, in cui il procedimento sia stato singolarmente secretato per esigenze investigative preminenti).
Ed invero, gli atti del pubblico ministero quali la richiesta di archiviazione o di proroga del termine delle indagini, l’avviso ex art. 415-bis c.p.p., tutti quelli di possibile esercizio dell’azione penale, e in definitiva tutti gli atti il cui mero contenuto verrebbe comunicato all’indagato che chiedesse lo “stato del procedimento”, non sono di certo né “atti di indagine”, né “richieste del pubblico ministero al compimento di atti di indagine”. Non sono quindi, ed a monte, atti coperti da segreto.
Era del resto la conclusione più ovvia che ci si poteva attendere. Sarebbe stato infatti insanabilmente contraddittorio ritenere che potesse mai esistere un segreto processuale quanto allo stato del procedimento, se la conoscibilità di tale stato non risulta affatto preclusa – come gli stessi autori dei provvedimenti qui criticati convengono – alla persona offesa (o quanto meno a quella che abbia presentato denuncia o querela, e sia pur dopo sei mesi da detta presentazione). Un segreto è tale se lo è per ogni possibile orecchio, non per quello di una sola categoria di persone.
Piuttosto, dato che il codice ha appunto la sua logica, è vero che giusto ogni atto stesso – e non solo il suo “contenuto” – che illumini circa lo stato del procedimento in fase di indagini deve essere pacificamente portato a conoscenza della persona nei cui confronti le indagini siano svolte: così è, come visto, per la richiesta di una proroga del termine delle indagini (che informa in sostanza che le indagini sono ancora in corso); ma anche per l’atto che conclude le indagini preliminari stesse (art. 415-bis), e naturalmente per ogni atto di esercizio dell’azione penale (art. 407-bis c.p.p.).
Si potrebbe però obiettare, non senza una qualche ragionevolezza, che se tali informazioni sono sempre conoscibili, in quanto non segrete, perché mai allora il codice ha previsto espressamente solo per denuncianti e querelanti il diritto di richiederle?
La risposta, credo, sia questa: il fatto che si tratti di atti non coperti da segreto infra processuale consente (nient’altro che) la libera circolazione delle relative informazioni tra le “parti” del procedimento. Ma la persona offesa non è tale, appunto, proprio fin tanto che il procedimento sia ancora in fase di indagini. Prima dell’aggiunta del comma 3-ter all’art. 335 c.p.p., infatti, la persona offesa, attraverso un difensore, doveva chiedere direttamente al pubblico ministero titolare del fascicolo l’autorizzazione a ricevere informazioni del genere. Oggi tale autorizzazione non è più necessaria (o meglio, risulta obbligata, previa verifica che si tratti in effetti di denuncianti e querelanti, e che siano trascorsi almeno sei mesi dalla presentazione della loro denuncia o querela). Per la persona sottoposta ad indagini, invece, mai è previsto che debba essere autorizzato dal magistrato ad accedere ad un’informazione di questo tipo, perché delle due l’una: se il pubblico ministero ha secretato l’indagine, all’indagato non spetta alcuna informazione, e quindi neppure la possibilità di chiedere di esserne autorizzato a riceverla. Se il procedimento non è stato secretato, invece, la conoscenza dello stato del procedimento è assolutamente accessibile, perché libera, e non c’è neppure bisogno di un’autorizzazione espressa a riceverla, potendo fornirla direttamente il funzionario di segreteria della Procura.
Può concludersi, dunque, non solo che all’indagato debba continuarsi a riconoscere il diritto ad informarsi sullo stato del procedimento, dato che tali informazioni gli sono indispensabili per l’esercizio delle facoltà processuali che la legge variamente, ed espressamente, gli riconosce; ma anche che il pubblico ministero non abbia alcun potere di negare questo tipo di informazioni, dato che esse non sono avvolte, né possono essere avvolte, da segretezza (processuale). E ciò, malgrado il regime comunicativo esclusivamente telematico da poco introdotto.
[1] La richiesta di archiviazione deve essere notificata alla persona offesa solo se ella lo abbia espressamente richiesto (salvo che non si tratti di delitti commessi con violenza alla persona o del reato di cui all’art. 624-bis c.p.), l’avviso di conclusione delle indagini, fino alla riforma Cartabia del 2022 in tema di giustizia riparativa, non era previsto che gli fosse notificato, e così anche, ad esempio, tuttora non è prevista alcuna notifica alla persona offesa della richiesta di decreto penale di condanna (mentre il decreto penale va comunicato, ma solo al querelante).
[2] Se invero, sul portale, alla pagina “procedimenti autorizzati”, apriamo la schermata relativa alla “richiesta di certificato ex art. 335 c.p.p.”, si accenderà la possibilità di scegliere “con informazioni dello stato del procedimento” solo se dichiariamo di essere, nel rigo “ruolo intestatario”, difensori di una persona offesa. Il programmatore del sistema, nel predisporre i comandi relativi agli atti depositabili telematicamente, non poteva di certo concepirne più di quelli che trovava espressamente enumerati nel codice (o in altre leggi), sicché l’apparente limitazione che l’area di lavoro presenta deve ritenersi trovi solo in ciò la sua spiegazione. Il rammarico, semmai, è che l’esperto di informatica non sia stato accompagnato e guidato, nello svolgimento del suo compito di programmazione, da un conoscitore imparziale della procedura penale.
[3] Siffatta richiesta da parte del difensore, data la sua estrema delicatezza, dovrebbe inoltrarsi solo se solidamente fondata, come si insegna. In particolare non ci si dovrebbe mai accontentare di contare l’inutile decorso del termine per l’emissione dell’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p., che il nostro assistito ci dichiari di non aver ancora ricevuto. Molto spesso mi è capitato invero di constatare che il detto atto risulti firmato dal Sostituto Procuratore in una certa data e che la sua notifica agli aventi diritto (compreso il difensore) avvenga a distanza anche di un anno e più. Inoltre, si farebbe proprio una pessima figura, sia con il Procuratore Generale che con il Sostituto Procuratore titolare dell’indagine, se il procedimento che chiedessimo al primo di avocare a sé fosse stato in realtà già archiviato, a nostra insaputa.
[4] Tra le tante pronunce di legittimità in tal senso, e riguardo ad un aspetto in tutto simile a quello qui considerato, può vedersi ad esempio Cass. pen., Sez. I, 31 ottobre 1996, n. 5678: “Nel procedimento di camera di consiglio disciplinato dall’art. 127 c.p.p., pur non prevedendosi espressamente l’obbligo di deposito dei relativi atti, prima dell’udienza di discussione (come invece previsto, ad esempio, dagli art. 309 comma 8, 416 comma 2 e 466 c.p.p.), detto obbligo può agevolmente dedursi dal complesso della disciplina in questione, sol che si consideri come una diversa interpretazione renderebbe pressoché inutile sul piano fattuale la comunicazione anticipata della data d’udienza, peraltro prevista a pena di nullità, una volta che a tale comunicazione non fosse correlato il corrispondente diritto della parte di prendere cognizione degli atti del procedimento; (…)”.
[5] Va subito rilevato che la certificazione ex art. 335 c.p.p. risulterebbe nulla non solo nel caso in cui il procedimento, di cui si sapeva l’esistenza, sia stato archiviato, ma anche in quello in cui, ad esempio, il procedimento medesimo sia stato trasmesso ad altra Procura per ragioni di competenza territoriale. Sicché il “rimedio” in parola, di natura deduttiva, appare tutt’altro che sicuro.