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08 novembre 2020

Avvocatura è cultura - La Giustizia è un angelo azzurro, di Valerio Vancheri

Amicizia è comunione delle anime. (Voltaire)
[Valerio Vancheri, avvocato siracusano, non è solo un caro amico della Camera Penale di Trapani. Valerio è un uomo poliedrico e di cultura. Avvocato e Pallanuotista, ma anche Presidente del Circolo Canottieri Ortigia, che è un vanto di tutta la Sicilia; è autore di diversi saggi di diritto penale e di procedura penale oltre che scrittore.
Per la sezione Opinioni e Documenti di Foro e Giurisprudenza, Valerio Vancheri ci ha donato le sue riflessioni con "La Giustizia è un angelo azzurro", sottotitolo "L'avvocato e la pallanuoto: riflessioni sott'acqua".
Pubblichiamo lo scritto dell'avvocato Valerio Vancheri per il ciclo Avvocatura è culturaGrazie Valerio e buona lettura a tutti voi].

La Giustizia è un angelo azzurro, di Valerio Vancheri 


Ogni mattina, quando varco la soglia del Palazzo di Giustizia, mi fermo a considerare la fortuna di chi esercita le nostre professioni. Perché il terreno del nostro confronto è quello dei valori. Noi stessi: giudici, avvocati, pubblici ministeri rappresentiamo dei valori, siamo dei valori.
Il diritto è disciplina nata in funzione dei valori.
La sentenza viene pronunciata in nome del Popolo Italiano.
Questo non vuol dire affatto che le funzioni di rappresentanza del Popolo siano nelle mani esclusive del giudice, né che si esercitino solo con la pronuncia della sentenza.
L’intera funzione giudiziaria, non solo giurisdizionale, si esercita in nome del Popolo Italiano. In nome del Popolo il Pubblico Ministero indaga e sostiene l’accusa; in nome del Popolo l’avvocato esercita la sua funzione difensiva irrinunciabile; in nome del Popolo il giudice si esprime.
Questo vuol dire che, ogni volta che varchiamo la soglia di un’aula di Tribunale, la Giustizia ci viene data in prestito dal Popolo e che è nostro dovere, quando ne usciamo, restituirla migliore di come l’abbiamo ricevuta.
*
Col tempo e l’esperienza si impara che il confronto e la condivisione sono essenziali quanto lo starsene da soli a riflettere. Anzi: a meditare.
Molte delle incertezze, delle paure, delle insicurezze e degli errori che commettiamo derivano dalla incapacità di isolarsi in una stanza e restarsene in pace da soli.
La meditazione è una capacità che ci consente di renderci più utile e gradevole la vita. Non c’è una tecnica stabilita e quindi non c’è un’autorità alla quale obbedire per imparare. Si impara a conoscersi osservando sé stessi, il modo in cui si cammina, in cui si mangia o si parla, il contenuto di ciò che diciamo: le chiacchiere, l’odio, la gelosia, l’essere consapevoli di tutto ciò che abbiamo dentro.
La mia “stanza di meditazione” è l’acqua. Starci dentro, intendo.
D’estate, scendo giù alla scogliera a poche centinaia di metri sotto casa. Bastano un costume e gli occhialini.
Breve tratto di strada, scendo la ripida scalinata, poggio l’asciugamani e sono sugli scogli. Il primo assaggio dell’acqua col piede: quella piacevole sensazione di fresco che ti sale lungo la gamba ed arriva alla schiena e su fino al collo. Ruoto prima le spalle, poi le braccia, aggiusto dieci volte gli occhialini perché combacino perfettamente: se entra un minimo d’acqua, la nuotata è rovinata.
Mi tuffo tutto in una volta: entrare piano piano è un’agonia. Ecco, di botto sono sott’acqua, trattengo il fiato, pinneggio ondulando il corpo, sento solo il rumore dell’acqua, un silenzio bellissimo. Costeggio il muro di roccia che racchiude la scogliera accanto a me; una miriade di piccoli pesci si lascia cullare dal moto delle onde. Il fascio di luce del sole penetra in profondità nell’acqua e si scompone a raggiera.
Tutti i problemi si fermano e inizia un’altra vita. Mi sento bene in acqua, mi sento io e sento tutto me stesso. Penso che forse il mio ambiente naturale sia liquido. 
Muovo un po’ il corpo, la schiena scricchiola, il collo… tac... si è sbloccato... ok guardo su, vedo la schiuma dell’onda che si frange contro gli scogli sul pelo dell’acqua. Mi do una spinta in avanti e ancora sott’acqua arrivo al punto in cui la scogliera si apre. Emergo respiro e via, si inizia. 
Nuotare in piscina ti dà ritmo; nuotare a mare ti dà tempo: non ci sono virate, vasche da contare, cronometro e partenze da rispettare.
Non manca la fatica e ci vuole concentrazione. In tanti anni, ho imparato a sentire il mio corpo e a sapere quando e come spingere o tirare il freno.
Faticare e pensare. Faticare è pensare. Pensare e meditare. Pensare è meditare. Nuotare è faticare e pensare e meditare.
A cosa penso? A come essere utile, a come risolvere i casi che sto seguendo, a godermi il momento, a contare i miei pezzi dentro e fuori.
Conosco la costa, ho i miei punti di riferimento: lo scoglio affiorante, l’albergo, la villa dell’amico. E conosco il tempo che ci impiego a fare il mio percorso.
Una Caretta Caretta staziona qui dall’inizio dell’estate.
Vedo il profilo del centro storico della mia città. I più lo conoscono per averci passeggiato sopra; qualcuno l’ha visto dal mare, da un’imbarcazione; ma in pochi sappiamo cosa sia vederlo da dentro l’acqua.
Il caldo del sole mi accarezza le spalle. Respiro profondamente la salsedine. Mentre faccio il percorso di ritorno, un banco di piccole ricciole mi sfiora.
Lasciandomi cullare dalle onde, mi fermo a mezz’acqua ad osservarle finché spariscono.
Torno da un luogo in cui si può fare colazione a un metro dal mare, guardando sorgere il sole. Mi giro di nuovo a godere del profilo dell’Isola di Ortigia. Una Tartaruga ed un banco di ricciole hanno nuotato insieme a me, appena sotto casa mia.
Non so se oggi ho risolto dubbi o problemi. Ma certamente, avrò trovato energie e motivazioni per farlo. E non ho che un solo pensiero: che culo che ho avuto a nascere qui!
*
E poi c’è la notte.
È di notte, ad occhi aperti, non riuscendo a prender sonno, che sfilano immagini che di giorno non si proporrebbero. Pensare a chi è passato senza avergli potuto dire altro o a chi non c’è più o c’è ma non si sa dove, ad un atto mancato, ad un rimorso o ad un rimpianto. Soli coi nostri pensieri e con qualche paura, mentre fuori la luna è la sola compagna attenta che aspetta. A volte vorremmo solo dormire, ma altre volte ci cattura il fluire di quei fotogrammi un po’ vissuti, un po’ inventati. Notti insonni parlano della vita e spesso ci restituiscono il suo senso. Non si può non pensare, a volte anche quando si dovrebbe dormire. Le immagini ad occhi aperti, la notte, sono come un collutorio per schiarirsi la voce. Ci schiariscono la mente. Sino al primo sole.
C’è un punto morto nella notte, dove fa più freddo e il buio è più nero; un punto in cui il tempo ha dimenticato la sera e l’alba non è ancora che una promessa. 
È un punto che gli avvocati conoscono: un luogo fondamentale, di paura e vertigine, di illuminazione e di intuizioni.
Non mi riferisco all’ansia che genera un’insonnia insopportabile e malsana, no; ma a quel dolce momento in cui il riposo ci consente di ascoltarci quasi inconsciamente. La mente libera viaggia e vive di vita propria, conduce per mano le riflessioni e le sagome sono più lievi.
Durante il giorno, i pensieri hanno forma e concretezza, ma rimangono ruvidi, legati alle quotidiane esigenze, alle contingenti scadenze.
C’è un punto, nella notte, in cui non siamo svegli, ma non stiamo nemmeno dormendo. Un luogo naturale di meditazione trascendentale, per nulla indotta né stimolata. Quel luogo e quel momento in cui i pensieri sono morbidi, malleabili e si adattano perfettamente, combaciano con i dubbi e suggeriscono le soluzioni.
Non si può raggiungere l’alba senza passare dalle voci della notte. E non si possono avere le migliori luci per l’intelletto senza passare dal buio.
Quante volte ho risolto i vuoti, fugato le nebbie del mio pensiero, colto l’essenza del dilemma, muovendomi in quel limbo del quasi razionale e del non proprio onirico.
Quante cause ho discusso di notte. La notte è magnifica per ascoltare e narrare le storie.
La notte è la dimostrazione che il giorno non è sufficiente. La notte sembra sapere di me.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo la notte.
*
E poi c’è quel processo, dove sai che non prenderai un onorario decente, ma lo fai perché non sopporti l’ingiustizia. E vedi il tuo cliente imputato che piange, sentendoti discutere. E passi la notte a chiederti dove hai sbagliato, finché l’indomani non leggi sul dispositivo la parola "Assolto".
Ed è lì che capisci perché hai scelto di essere un Avvocato. Comunque. A prescindere.