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26 gennaio 2021

Per la Cassazione la consulenza tecnica del p.m. ha una valenza probatoria superiore a quella della difesa: una pronuncia dai contenuti eccentrici che misconosce contraddittorio e parità delle parti - della prof.ssa Caterina Scaccianoce (*)



Secondo i giudici di legittimità (Cass., pen., Sez. 3^, n. 16458, del 18.02.2020, dep. 29.05.2020, Pres. Ramacci, Rel. Galterio, Barbone) è inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso presentato per violazione di legge e vizio di motivazione, con cui si contestava alla corte d’appello di non avere tenuto in debito conto, ai fini della verifica delle effettive difformità delle opere realizzate rispetto al manufatto originario, le considerazioni tecniche provenienti dal consulente della difesa alle quali è stata preferita, in modo apodittico, la “perizia” del consulente del pubblico ministero.

La pronuncia merita più di una riflessione contenendo affermazioni assai eccentriche che catapultano l’interprete nella dimensione inquisitoria del vecchio sistema. Un vero e proprio abbaglio, sganciato dalla realtà, ma soprattutto foriero di insidiose suggestioni che finiscono con il trasfigurare i principi della parità delle parti, del contraddittorio e dell’imparzialità del giudice.

Venendo al ragionamento della Corte, emergono sin da subito le stramberie impiegate per sostenere l’insostenibile, ossia la superiorità probatoria della consulenza tecnica del pubblico ministero rispetto a quella della difesa.

Di questo, infatti, si tratta.

Partiamo dal lessico utilizzato: scorrendo il testo della motivazione ci si imbatte più volte nella espressione <<perizia disposta dal p.m.>>. Lapsus che, volendo essere magnanimi, potrebbe attribuirsi a una ingenuità lessicale che esprime soltanto poca attenzione e pogo rigore nella scelta delle parole, se non fosse che proprio su tale “strafalcione” i giudici di legittimità hanno fondato le ragioni delle proprie conclusioni, ovverosia che <<di nessuna censura è passibile la sentenza impugnata per essersi allineata alle conclusioni tratte dal consulente PM, […] che, comunque, pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa>>. 

Muovendo dal ben noto art. 358 c.p.p., sul quale non è possibile in questa sede soffermarsi con la opportuna severità, la Corte ne propone una lettura tratta da un precedente arresto (Cass. pen., Sez. II, 24 settembre 2014, n. 42937), ove si afferma che, se è vero che il consulente è ausiliario del pubblico ministero in quanto nominato da questi, è parimenti vero che il p.m. <<ha per proprio obiettivo quello della ricerca della verità>>, raggiungibile concretamente attraverso <<una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico-scientifiche espressive di competenza e imparzialità>>. Ne consegue che il consulente, da lui nominato, deve necessariamente operare in sintonia con tali indicazioni, come del resto si desume dalla sua qualifica di pubblico ufficiale, <<il cui elaborato, pur non potendo essere equiparato alla perizia disposta dal giudice del dibattimento, è pur sempre il frutto di un’attività di natura giurisdizionale che perciò non corrisponde appieno a quella del consulente della parte privata>>. La Corte, pertanto, conclude che, proprio in ragione della funzione ricoperta dal pubblico ministero, il quale, sebbene nell’ambito della dialettica processuale, <<non è portatore di interessi di parte>>, gli esiti degli accertamenti e delle valutazioni del consulente nominato ai sensi dell’art. 359 c.p.p. rivestono <<una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti private>>, e, per di più, laddove si tratti di apprezzamenti <<non intrinsecamente illogici o contraddittori, in sé non inattendibili>> e, comunque non specificamente confutati dal consulente della difesa, come nel caso di specie, ai sensi del combinato disposto degli artt. 224 e 508 c.p.p., il giudice non è tenuto a disporre alcun accertamento peritale, che si rivelerebbe <<del tutto inutile per l’accertamento dei fatti e per la speditezza del processo>>.

Ebbene, invocare la ricerca della verità e considerarla il fine primario del pubblico ministero fa parte di un retaggio culturale incompatibile con l’attuale modello di processo penale, che prevede un antagonismo dialettico tra due soggetti davanti al giudice situato in posizione equidistante dagli stessi. Vero è che una asimmetria di poteri e facoltà non può non riconoscersi nella fase delle indagini, tuttavia in dibattimento, dove gli esiti delle indagini serviranno per formare le prove, non c’è alcuna norma che attribuisce ai risultati probatori pesi diversi a seconda che provengano dall’accusa o dalla difesa, non c’è una gerarchia probatoria fissata dalla legge perché il nostro sistema ha ripudiato le prove legali. Del resto, parità delle parti (art. 111, comma 2, Cost.) significa parità dialettica, uguaglianza dei “diritti”, e in particolare del diritto alla prova, all’interno del processo.

Il messaggio della Corte, invece, sottende una anacronistica commistione di funzioni tra giudice e p.m., presente, come noto, nel vecchio sistema, ma neutralizzata dal legislatore del 1988.

Intendiamoci: il p.m. persegue un interesse pubblico e propone una ipotesi di ricostruzione dei fatti a conclusione delle indagini che, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., devono essere complete includendo anche gli accertamenti a favore dell’indagato per evitare l’instaurazione di processi superflui (Corte cost. n. 96 del 1977). Il giudice dovrà accertare la fondatezza della ricostruzione dei fatti, così come formulata dal p.m., al di là di ogni ragionevole dubbio.

Qui, invece, l’aprioristica maggiore affidabilità attribuita da questa Corte alle valutazioni dell’esperto nominato dal p.m. è fatta derivare da una concezione, ormai superata, del p.m. come organo prossimo al giudice, che ha come scopo la ricerca la verità. In vero, quale organo pubblico, il p.m. ha il dovere di svolgere le attività inquirenti nel segno dell’obiettività. Ciò vuol dire che egli non può tacere eventuali risultati a favore dell’indagato e che deve operare a trecentosessanta gradi, essendo suo interesse non trascurare alcuna traccia, a fortiori se sollecitato dalla “controparte”. Una regola ovvia che collima con quella “imparzialità istituzionale” propria dell’organo inquirente, costretta tuttavia a convivere con una “parzialità funzionale”, derivante dall’essere il processo di oggi un processo di parti, in cui accusa e difesa devono, in modo uguale, potere influire sul convincimento del giudice. In totale dissonanza rispetto a tale cultura processuale, il consulente del p.m. viene, invece, descritto dalla Corte come organo ausiliario dell’accusa che agisce con imparzialità e il cui elaborato ha natura giurisdizionale: ecco il secondo errore concettuale commesso dai giudici di legittimità che restituisce <<l’idea nefasta e aberrante di una sovrapposizione del pubblico ministero al giudice>> (Kostoris).

Vale la pena indugiare qualche istante nel passato. Il legislatore del 1930 scelse di affidare la risoluzione di questioni di natura tecnica al solo perito nominato dal giudice, prevedendo al contempo che l’imputato fosse assistito tecnicamente da soggetti esperti, assimilati, quanto a posizione processuale, ai difensori. Veniva così estromessa dal processo la discussa categoria dei “periti di parte” (presenti nel sistema del 1913) e s’introdusse, per la prima volta, la figura del consulente tecnico. Nondimeno, la facoltà di nominare propri consulenti tecnici venne riconosciuta alle sole parti private, dando spazio, in tal modo, a un contraddittorio tecnico, seppure posticipato e meramente cartolare: era, infatti, precluso un controllo contestuale alle operazioni peritali potendosi procedere alla nomina dei propri esperti solo dopo il deposito in cancelleria della perizia. Tali soggetti erano assimilati, sotto il profilo del carattere giuridico e della funzione processuale, ai difensori, e non ai periti, con la conseguenza che le loro osservazioni avevano carattere difensivo. Come accennato, al pubblico ministero non era riconosciuta la facoltà di avvalersi dell’ausilio di propri esperti e la scelta era giustificata dalla sua posizione istituzionale, che, escludendolo dal novero delle parti, lo dislocava su una linea parallela a quella del giudice. Non gli restava altro che fare affidamento al perito di nomina giudiziale, sia nell’istruttoria sommaria sia in quella formale. Il che, però, incoraggiava l’operazione di screditamento dei consulenti tecnici delle parti private: si registrava, invero, una diffusa diffidenza nei confronti della figura del consulente tecnico, privilegiandosi piuttosto il perito di nomina giudiziale ritenuto unico depositario di attendibili responsi scientifici.

Cosa cambia con l’adozione del modello del 1988? L’attenzione al diritto delle prove penali non poteva non incidere anche sulla disciplina della prova tecnica, il cui riordino postulava un allineamento alla nuova dimensione accusatoria inaugurata con il neo codice di procedura penale: in un quadro generale di recupero della legalità probatoria, il ruolo delle parti nel procedimento di formazione della prova tecnica viene fortemente potenziato, con la novità di affiancare alla tradizionale figura del consulente endoperitale, al quale è più o meno largamente concesso di intervenire nei vari momenti costruttivi della prova per periti, quella, assolutamente inedita, del consulente che può operare indipendentemente sia da una perizia sia da un’attività di accertamento o di indagine tecnica del pubblico ministero (la consulenza extraperitale).

Il sapere tecnico entra, quindi, nel processo veicolato dagli esperti, sia di parte che di ufficio, i quali sono <<organi utili alle parti prima che al giudice>>, apportando <<sugli argomenti esorbitanti dal consueto scibile, le premesse necessarie al contraddittorio>> (Cordero). Infatti, in dibattimento, il confronto tra tesi (accusa) e antitesi (difesa), anche sul piano tecnico-scientifico, si esprime nel contraddittorio, come miglior metodo per accertare i fatti. Sicché, l’attività dialettica impegna le parti contrapposte, costituendo al contempo la tecnica di ricostruzione del fatto e la condizione di garanzia di un giusto processo, di un giusto accertamento e di una giusta decisione. La conoscenza processuale è veicolata attraverso gli strumenti conoscitivi offerti dalle parti al giudice in un quadro di precise regole probatorie e indiscutibili garanzie difensive, connaturali a quella tensione dialettica tra le parti che informa di “giustezza” il metodo di formazione delle prove. Ma la specificità della prova tecnica, come è intuibile, pone il problema del controllo delle conoscenze tecnico-scientifiche immesse nel processo attraverso la deposizione di periti e consulenti. Queste, infatti, costituendo ipso iure le premesse per il contraddittorio tecnico, divengono patrimonio conoscitivo comune alle parti e al giudice, i quali, tuttavia, saranno in grado di controllarle solo se adeguatamente e in misura eguale attrezzati culturalmente, dovendo partecipare in modo attivo e non passivo alla dialettica dibattimentale. Che il “sapere comune” debba essere un ingrediente fondamentale del rapporto tra le parti, e tra queste e il giudice, è richiesto proprio dalla funzione che il contraddittorio svolge nella concezione dialettica della prova. Il controllo del giudice, invero, avviene in contraddittorio al quale partecipano periti e consulenti di parte, replicando così la dialettica propria della medesima ricerca scientifica. Tale situazione mette l’organo giudicante in condizione di valutare l’operato dell’esperto, verificare, quindi, se egli ha applicato in maniera coerente alle risultanze processuali un criterio ritenuto affidabile in quanto rispondente a certi standard minimi di razionalità epistemica. In definitiva, il giudice accoglie la soluzione accreditata che resiste ai tentativi di falsificazione condotti col contributo di tutti gli specialisti intervenuti in giudizio.

Il quadro appena tracciato ci dà la misura di quanto fuorviante sia il modo di ragionare della Corte. Si rischia, infatti, di snaturare tanto il contraddittorio tecnico quanto il controllo del giudice: la superiore valenza probatoria attribuita alle allegazioni del consulente del p.m. comprime di fatto le prerogative difensive alla confutazione e alla formulazione di ipotesi alternative, incidendo sull’effettività del controllo del giudice, chiaramente compromesso dal deficit cognitivo derivante da un “contraddittorio sbilanciato”. A ciò si aggiunga come tali limitazioni finiscano per scalfire l’imparzialità del giudice, il quale per rimanere terzo e imparziale, deve riportare in motivazione gli esiti del confronto dialettico degli esperti, argomentando le proprie conclusioni sulla base, non certo di una fiducia aprioristica da riporre alle valutazioni del consulente del p.m., bensì della persuasività delle argomentazioni e della loro capacità di resistere alle confutazioni avversarie (Kostoris).



(*) Caterina Scaccianoce: Abilitata alle funzioni di professore di II^ fascia nel SSD 12 G2- IUS 16 – Diritto processuale penale (tornate 2012 e 2016).
Ricercatrice a tempo determinato di tipo B di Diritto processuale penale presso l’Università di Palermo, Dipartimento di Giurisprudenza (2019).
Dottore di ricerca in Procedura penale (2001).
Assegnista di Diritto processuale penale (2005-2009).
Abilitata all’esercizio della professione di avvocato (1998).
Docente di Diritto dell’esecuzione penale e diritto penitenziario, Sistema penale e tutela della vulnerabilità nel corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza dell’Università di Palermo (canale di Trapani).
Docente di Diritto processuale penale presso la Scuola di Specializzazione delle Professioni Legali dell’Università di Palermo
Ha partecipato a diversi convegni e seminari di carattere scientifico.
Fra gli argomenti trattati su temi di procedura penale nazionale ed europea possono menzionarsi: ruolo e funzioni del pubblico ministero, l’inazione, riforma in peius della sentenza di proscioglimento, rinnovazione della prova in appello, condizioni di detenzione e cooperazione giudiziaria, tenuità del fatto, indagini digitali, contraddittorio tecnico, retroattività della lex mitior.