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23 maggio 2021

La Riforma del Processo penale - 11.2 la riforma dei termini - Le risposte del pm, Umberto De Giglio (*)

Per la rubrica "La Riforma del Processo Penale", pubblichiamo l'intervento del pubblico ministero, Umberto De Giglio relativo alla sezione "Termini e processo" della riforma.
La nuova rubrica sottopone alcune domande a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e ad un docente universitario.
Il piano completo dell'opera è consultabile sulla pagina dedicata di questo blog (link).

Il progetto di legge per la “DELEGA AL GOVERNO PER LA MODIFICA DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE, DEL CODICE PENALE E DELLA COLLEGATA LEGISLAZIONE SPECIALE E PER LA REVISIONE DEL REGIME SANZIONATORIO DELLE CONTRAVVENZIONI”, è all’esame, in sede referente, della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, che ha anche svolto numerose audizioni inerenti il testo della riforma.




1- Il legislatore intende delegare ai magistrati, nell’esercizio delle rispettive funzioni, l’adozione di misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi penali nei termini indicati dall’art. 12, condivide tale intendimento e se si quali sarebbero, a suo giudizio, le concrete misure organizzative che il singolo magistrato potrebbe adottare?
L’intero disegno di legge persegue il fine, dichiarato, di comprimere i tempi di durata del giudizio penale (inteso in senso ampio, comprensivo anche della fase delle indagini preliminari).
Tale obiettivo, stabilito in ragione di quella che viene considerata la maggiore criticità del sistema processuale penale e cioè la lentezza dell’azione giudiziaria, viene espressamente indicato nella relazione di presentazione, in cui si prospetta una riforma che renda il processo penale più veloce ed efficiente, con una formulazione in cui i due termini, in pratica, costituiscono una endiadi.
Anche nella relazione tecnica si evidenzia ripetutamente l’obiettivo di potenziare il procedimento e renderlo più adeguato e veloce ovvero di semplificare le procedure improntandole a criteri di maggiore celerità ed efficienza.
In sostanza, la contrazione dei tempi di durata del procedimento/processo (perseguita essenzialmente con la semplificazione delle procedure piuttosto che con il potenziamento delle risorse) costituisce la più adeguata risposta all’esigenza di certezza dell’azione penale e di sicurezza espressa dalla società.
In tale contesto, la disciplina da adottare nel rispetto dei principi e dei criteri indicati dagli artt. 12 e 13 del disegno di legge (termini di durata del processo e trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna) rappresenta una parte significativa dell’impianto normativo, anche per la sua idoneità ad evidenziare chiaramente uno dei criteri operativi dell’intero progetto di riforma, cioè quello di rendere più funzionale (all’obiettivo perseguito) l’impiego delle risorse già disponibili (al netto delle misure straordinarie previste dagli artt. 15 e 16 del disegno di legge). 
Nello specifico, le risorse disponibili sono i magistrati nell’esercizio delle rispettive funzioni cui è demandato il compito di adottare misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi nel rispetto di termini predeterminati (sostanzialmente modulati, nello schema normativo dell’art. 12, in ragione della natura e prevedibile complessità dei reati a cui si riferiscono).
La soluzione non appare condivisibile in quanto non incide sulle cause effettive del problema e non risulta adeguata a realizzare un effettivo miglioramento del sistema.
Le misure organizzative, che ogni magistrato nell’esercizio delle rispettive funzioni è comunque tenuto ad adottare (anche senza una formale ufficializzazione), devono servire, in generale, ad ottimizzare l’impiego delle risorse al fine di migliorare il servizio.
In questo senso, l’esistenza di misure dirette specificamente ad assicurare una tempestiva (anche se non prefissata) definizione dei processi risulta riscontrabile nella (quasi) totalità dei progetti organizzativi degli uffici o, comunque (ed a prescindere dalla una loro formalizzazione) nelle concrete scelte organizzative attuate dai giudici.
Questo rivela, con chiarezza, come il problema della eccessiva durata dei processi non sia riconducibile alla mancata adozione di specifiche misure organizzative riguardanti i termini, quanto, piuttosto, a questioni di carattere generale attinenti alla oggettiva incapacità del sistema giudiziario, così come strutturato, a fornire risposte adeguate (in termini di quantità e qualità del servizio) alle domande (di Giustizia) generate dal contesto socio-economico-istituzionale del nostro Paese.
Per altro verso, non può non rilevarsi come qualsiasi progettazione di misure organizzative dirette ad assicurare la definizione dei processi entro determinati termini non potrebbe, in ogni caso, escludere la incidenza di tutte quelle cause che in concreto condizionano, in via prevalente, la durata del processo (trasferimento del giudice, problemi di notifica degli avvisi o delle citazioni, assenza dei testimoni, impedimenti delle parti, etc.).
Al pari di altre modifiche già attuate ovvero progettate (in funzione di una prospettata razionalizzazione delle risorse, di una maggiore semplificazione delle procedure nonché di un possibile contenimento dell’afflusso di cause in sede processuale), la previsione di termini rigidi di durata del processo (sostenuta dall’obbligo di adottare specifiche misure organizzative per il rispetto di tali termini) non sembra possa rappresentare una soluzione di effettivo impatto sistematico (senza contare l’aggravio burocratico connesso all’obbligo, gravante sul singolo magistrato, di predisporre ed aggiornare i documenti organizzativi). 
Volendo, comunque, individuare alcune delle misure organizzative concretamente adottabili, le stesse risulterebbero inevitabilmente ricomprese nello spazio di intervento del magistrato in rapporto alle proprie funzioni.
Per quanto attiene al dirigente dell’ufficio, le misure potrebbero avere ad oggetto la predisposizione di criteri di razionale assegnazione dei processi nonché la idonea programmazione della frequenza delle udienze (sempre in rapporto alle strutture ed alle risorse disponibili).
Al giudice (monocratico o collegiale) residuerebbe la possibilità di adottare misure organizzative di ridotta portata, quali la individuazione di criteri di adeguata predisposizione dei ruoli di udienza ovvero la indicazione delle regole per la fissazione di calendari programmatici per svolgimento dei processi più articolati (risultando interessante, al riguardo, la previsione, contenuta alla lettera a dell’art. 5 del disegno di legge, dell’obbligo di preventiva comunicazione alle parti del calendario delle udienze nei processi in cui non sia possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, con le finalità, evidenziate nella relazione di presentazione, di coinvolgere le parti nella gestione del ruolo e soddisfare le esigenze di trattazione sequenziale e, comunque, ragionata dei processi). 

2- A mente dell’art. 12 il dirigente dell’Ufficio è tenuto “a segnalare all’organo titolare dell’azione disciplinare la mancata adozione delle misure organizzative, quando sia imputabile a negligenza inescusabile”, quale il Suo giudizio al riguardo?
La disposizione riflette la ricorrente (anche se non sempre dichiarata) convinzione secondo cui la eccessiva durata dei processi sia in parte (secondo alcuni in gran parte) imputabile ad una scarsa produttività ovvero ad una sorta di colpevole indolenza dei magistrati (concomitante alla tattica dilatoria diffusamente attuata dai difensori degli imputati).
Significativa, al riguardo, è la dichiarazione formulata, nella relazione di presentazione del disegno di legge, con cui si precisa che .. l’art. 12 delega il Governo a disciplinare la durata dei processi, nei vari gradi del giudizio, responsabilizzando i magistrati affinché, nell’esercizio delle rispettive funzioni (…) adottino strumenti organizzativi .. 
L’intento di responsabilizzare il magistrato, imponendogli di adottare misure organizzative finalizzate al rispetto dei termini di durata del processo, risulta perseguito anche con la prevista segnalazione disciplinare (in caso di negligenza inescusabile che ha determinato la mancata adozione delle misure).
Al riguardo appare opportuno rilevare che la disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati (D.L.vo 23 febbraio 2006 n. 109), oltre a contemplare tra i doveri del magistrato anche quelli di diligenza e laboriosità (art. 1), prevede espressamente, quali illeciti tipizzati, la reiterata o grave inosservanza delle norme regolamentari o delle disposizioni sul servizio giudiziario (art. 2 lett. n) e l’omissione, da parte del dirigente l’ufficio o del presidente di una sezione o di un collegio, della comunicazione agli organi competenti di fatti a lui noti che possono costituire illeciti disciplinari compiuti da magistrati dell’ufficio, della sezione o del collegio (art. 2 lett. dd). 
In sostanza, sia il possibile rilievo disciplinare della (negligente) mancata adozione delle misure organizzative che l’obbligo di controllo e segnalazione disciplinare da parte del dirigente dell’ufficio risultano desumibili dalla disciplina già in vigore.
La previsione di un ulteriore e specifico obbligo di segnalazione, contemplata nel disegno di legge, per un verso evidenzia la rilevanza che, nel progetto di riforma, viene attribuita alla predisposizione di termini prefissati di durata del processo.
Per altro verso, con la prospettazione di conseguenze di natura disciplinare per la mancata adozione delle misure dirette a garantire il rispetto di quei termini, si tende implicitamente ad addebitare alla inescusabile negligenza del magistrato non solo la mancata adozione delle misure, ma anche il mancato rispetto dei termini di durata.
In ordine al primo aspetto devono essere richiamate le argomentazioni già sopra esposte in merito alla non decisiva rilevanza della disciplina prevista dall’art. 12 del disegno di legge.
Per quanto riguarda il secondo aspetto si deve osservare come la questione della durata del processo penale (e, più in generale, delle disfunzioni del servizio Giustizia) sia quasi sempre valutata ed affrontata senza una accurata verifica dei profili sistemici, ma ricorrendo a correttivi più o meno marginali (e comunque non decisivi), anche in ragione di ricorrenti convinzioni sulla scarsa laboriosità dei magistrati ovvero sulla irresponsabile condotta dilatoria degli avvocati. 


3- I termini indicati dall’art. 12 per la definizione dai vari gradi di giudizio le sembrano congrui? 
La predisposizione normativa di termini di durata massima del processo (nelle sue varie fasi), inevitabilmente connotata da valutazioni astratte e generali, presenta il concreto rischio di produrre una disciplina inadeguata, nella sua applicazione pratica, in rapporto alle molteplici variabili che determinano il tempo di svolgimento delle diverse sequenze processuali.
Sembra addirittura banale rilevare come procedimenti pure appartenenti ad una medesima categoria astratta (in ragione dello schema previsto dall’art. 12 del disegno di legge) possono presentare tempi di definizione notevolmente diversi.
Per altro verso, anche la astratta individuazione dei termini, così come operata nel disegno di legge, solleva alcune perplessità. 
In particolare, la dimensione temporale assegnata al processo di primo grado nei procedimenti per i reati attribuiti al tribunale in composizione monocratica e per quelli attribuiti al tribunale in composizione collegiale (per cui, ai sensi dell’art. 12 del disegno di legge, i termini sono stabiliti rispettivamente nella misura di un anno e di due anni), appare eccessivamente limitata, risultando, in tal senso, incongrua per difetto; e ciò sia in rapporto alla durata (due anni) del tempo assegnato al corrispondente giudizio di appello, il quale, diversamente dal giudizio di primo grado, non contempla, nel suo percorso ordinario, lo svolgimento di attività istruttoria; sia in relazione alle conseguenze, sui tempi di svolgimento del processo, imposte dalle connotazioni strutturali proprie del giudizio di primo grado (segmento procedimentale cui è demandato il compito di formare il materiale probatorio nonché di operare la prima completa ricognizione storico-giuridica della vicenda esaminata).
Per quanto specificamente attiene allo spazio temporale previsto per i processi di primo grado relativi ai reati di competenza del tribunale in composizione monocratica, si deve aggiungere che la incongruità del termine di un anno appare ancora più evidente ove si consideri la particolare complessità di accertamento di alcuni dei delitti ricompresi in questo ambito di attribuzioni, quali quelli di lesioni od omicidio colposi.
Al riguardo, appare opportuno ricordare che la disciplina normativa dell’equa riparazione per il danno subito per la irragionevole durata del processo (legge 24 marzo 2001 n. 89), richiamata nel disegno di legge solo a proposito dei procedimenti per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione e l’economia (art. 12), prevede, in relazione alla durata del processo di primo grado, il termine ragionevole di tre anni. 
Infine, nella astratta valutazione di congruità dei termini di durata del processo, come previsti nel disegno di legge, appare opportuno considerare le modifiche nel frattempo intervenute in conseguenza della emergenza COVID 19, con particolare riferimento alla disciplina delle conclusioni scritte nel giudizio di impugnazione, presumibilmente destinata ad essere confermata quale regime ordinario, anche al venir meno della indicata emergenza.

4- Nello specifico, con riguardo ai giudizi di impugnazione quale dovrebbe essere il dies a quo dal quale computare il termine per definire il giudizio? (es. dal momento della proposizione gravame, dal giorno in cui esso perviene nella cancelleria del giudice ad quem, dal decreto di fissazione udienza, dall’udienza …).
Il criterio cui ancorare la individuazione del momento dal quale computare il termine di durata del giudizio di impugnazione non può che essere quello della effettiva pendenza del processo dinanzi al giudice della impugnazione.
Tale soluzione, nel privilegiare il dato certo della pendenza del processo (rispetto alla variabilità del momento in cui può essere emesso il decreto di fissazione dell’udienza o può essere fissata la udienza), appare quella che più coerente alla finalità della disciplina prevista dall’art. 12 del disegno di legge. 
Pertanto, in ragione di quanto stabilito dal codice di rito, il momento inziale di decorrenza del termine di durata del giudizio di impugnazione deve essere individuato in quello in cui gli atti del procedimento pervengono nella cancelleria del giudice della impugnazione (a seguito della tempestiva trasmissione da parte della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato), con la conseguente iscrizione del relativo numero nel registro dell’ufficio ricevente.

5- Si vuole riconoscere al Consiglio superiore della magistratura la facoltà di stabilire, con cadenza biennale, i termini previsti dall’art. 12 in maniera diversa per ciascun ufficio, non le pare si rischi una frammentazione localistica? 
Anche la previsione del possibile intervento del CSM nella individuazione di termini (di durata del processo) diversi in relazione al ciascun ufficio rivela quella logica operativa, cui si è già fatto riferimento, in base alla quale la predisposizione di obiettivi di riforma non è accompagnata da un correlato progetto di investimento di risorse.
La valutazione della specifica situazione in cui versa ciascun ufficio giudiziario (alla stregua degli indici espressamente richiamati dall’art. 12 del disegno di legge, e cioè pendenze, sopravvenienze, natura e complessità dei procedimenti, risorse disponibili ed altri dati risultanti dai programmi di gestione) risulta già sostanzialmente ricompresa nei compiti demandati al CSM.
Nella specifica visuale della durata del processo, tale valutazione dovrebbe essere funzionale ad assicurare la corretta distribuzione e, soprattutto, l’adeguato completamento delle risorse necessarie per consentire, a ciascun ufficio giudiziario, la tempestiva definizione dei processi; e non, invece, a legittimare diversità territoriali nei tempi di definizione, in ragione della presa d’atto della diversa consistenza (ed efficacia) delle risorse disponibili.
Ciò premesso e tralasciando ogni questione di possibile criticità posta dalla disposizione in esame (possibilità dell’organo di auto-governo di emanare norme di diretto rilievo processuale; mancata previsione di acquisizione di informazioni da altre categorie di operatori del diritto), appare di tutta evidenza come la facoltà attribuita al CSM di stabilire termini di durata del processo per ciascun ufficio comporti il rischio, tutt’altro che remoto, di realizzare una Giustizia a velocità diversa e variabile in ragione del diverso contesto territoriale di riferimento.
Anche senza procedere ad una analisi approfondita, appare evidente come l’eventualità di una frammentazione localistica dei tempi di durata del processo penale comporti conseguenze ed implicazioni non accettabili.
A ciò si deve aggiungere che la stessa verifica istituzionale della situazione in cui versa ciascun ufficio giudiziario, in gran parte affidata ad informazioni di (quasi) esclusivo contenuto statistico, non sempre consente di pervenire ad una valutazione corretta del reale carico di lavoro; con la conseguente incongruenza dei termini di durata dei processi eventualmente individuati in ragione di quella valutazione. 


6- L’art. 13 prevede, per i giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna, che se non vengono rispettati i termini di cui all’art. 12, le parti e i loro difensori possano presentare istanza di definizione del processo entro sei mesi. La previsione è assistita dalla previsione di una sanzione disciplinare per il caso di mancata adozione di misure organizzative idonee ad assicurare la definizione entro il detto semestre. Non le pare che il combinato disposto degli artt. 12 e 13 manifesti in realtà l’incapacità ad affrontare il problema della durata del processo, scaricandolo sugli operatori del diritto? 
A fronte delle diffuse criticità del sistema della Giustizia penale (talvolta enfatizzate, ma oggettivamente riscontrabili), negli ultimi anni si sono susseguiti diversi interventi legislativi finalizzati, nell’ambito procedurale, a realizzare la riduzione dei procedimenti penali (il c.d. intento deflattivo, perseguito sia nella fase delle indagini che in quella del giudizio), ovvero la semplificazione di alcune sequenze procedimentali e la razionalizzazione delle risorse.
Tali interventi, pur presentando alcune soluzioni condivisibili, hanno inciso in termini piuttosto modesti (se non addirittura irrilevanti) sulle criticità del sistema (normalmente individuate nella ingestibile dimensione quantitativa dei procedimenti, nella eccessiva durata del processo, nella inadeguatezza delle risorse disponibili e così via).
Oltre che nella impossibilità di significativi investimenti in nuove risorse (situazione ormai comunemente evidenziata con la espressione riforme a costo zero), la sostanziale inefficacia delle ultime riforme trova ragione nella incapacità (o nella non volontà) di riconoscere che i problemi della Giustizia penale trovano origine, principale e decisiva, nella strutturale inadeguatezza propria del sistema, cioè nella impossibilità del sistema Giustizia, specificamente nel suo assetto procedimentale, di fornire un servizio funzionale. 
Al riguardo, senza avere la pretesa di compiere, in questa sede, una analisi estesa ed approfondita, appare sufficiente rilevare come il sistema della Giustizia penale sia caratterizzato, nel nostro Paese, da una elevata produzione di notizie di reato (e conseguente numero di processi) in ragione sia della diffusa fragilità del tessuto socio-economico che della connotazione penale attribuita ad innumerevoli condotte dal contenuto illecito (anche per l’assenza di una adeguata struttura di controlli amministrativi).
A fronte di tale domanda di Giustizia penale, il sistema di risposta è strutturato sul presupposto costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale (e quindi della impossibilità, almeno teorica, di selezionare le notizie di reato da immettere nel circuito giudiziario) e su uno schema processuale ordinario, quello accusatorio (incentrato sulla formazione della prova dinanzi al giudice, nel contraddittorio delle parti), per sua natura (articolata e complessa) inadatto ad assorbire un carico elevato di processi.
In altre parole, ove non siano modificati gli altri termini del rapporto (fattori di produzione di notizie di reato, obbligatorietà dell’azione penale), il processo penale accusatorio introdotto nel 1989 presenta una disfunzione sistemica, tanto da rendere non efficaci e, comunque, non decisive quelle riforme che realizzano (nella migliore delle ipotesi) dei correttivi all’interno di quel sistema, senza modificarne l’assetto strutturale.
Come è evidente, la indicata impossibilità del sistema di assorbire e gestire l’elevato quantitativo di procedimenti si riverbera, inevitabilmente, sulla capacità di compiere adeguati accertamenti e di pervenire a decisioni corrette; producendo, pertanto, conseguenze negative anche in relazione a quei parametri che (unitamente alla durata del processo) misurano la qualità della Giustizia.
Il disegno di legge in esame, pur presentando un articolato piano di intervento, non sembra discostarsi, nei presupposti logici e nei presumibili risultati, dai precedenti interventi normativi; e ciò anche con riferimento specifico alla disciplina programmata dagli art. 12 e 13.
Per quanto attiene alla questione della durata del processo, che costituisce una specie di riassunto di tutte le criticità del sistema giudiziario penale, la incapacità di cogliere (o di affrontare) la più profonda origine sistematica del problema porta, inevitabilmente, a prospettare una riforma più formale che sostanziale; una soluzione la cui eventuale (probabile) inefficacia viene puntualmente addebitata (con tanto di sanzione disciplinare) al magistrato che, seppure responsabilizzato, non adotta le misure organizzative per definire il processo nei termini; nonché agli altri operatori del diritto (le parti ed i difensori), su cui grava l’onere di attivarsi (con la presentazione della istanza di cui alla previsione dell’art. 13 comma 1 lettera a del disegno di legge) al fine di ottenere un risultato, quello della definizione del processo, che pure dovrebbe costituire un minimo garantito.


(*) Umberto De Giglio, magistrato, attualmente sostituto procuratore generale presso la corte di appello di Palermo; in passato ha svolto le funzioni di sostituto procuratore presso il tribunale di Palermo e di giudice del tribunale di Palermo (presso la sezione distaccata di Bagheria e presso la sezione GIP/GUP).