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13 luglio 2021

La Riforma del Processo penale - 11.1 La riforma dei termini - Le risposte del giudice, Diana Bottillo (*)

Per la rubrica "La Riforma del Processo Penale", pubblichiamo l'intervento del giudice, dr.ssa Diana Bottillo, relativo alla sezione "Termini e processo" della riforma.
La nuova rubrica sottopone alcune domande a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e ad un docente universitario.
Il piano completo dell'opera è consultabile sulla pagina dedicata di questo blog (link).






1-Il legislatore intende delegare ai magistrati, nell’esercizio delle rispettive funzioni, l’adozione di misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi penali nei termini indicati dall’art. 12, condivide tale intendimento e se si quali sarebbero, a suo giudizio, le concrete misure organizzative che il singolo magistrato potrebbe adottare?
Non vi è dubbio che le maggiori criticità del sistema processuale penalistico italiano s’incentrino sui tempi dilatati di definizione dei procedimenti e che obiettivo marcato del disegno di legge sia quello di assicurare una progressiva semplificazione e celerità del procedimento penale, sinonimo di efficienza, nell’ottica di rendere funzionale ed effettiva la risposta di giustizia dello Stato. 
Il disegno di legge si propone di demandare ai magistrati il compito di adottare misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi nel rispetto di termini prestabiliti e contingentati che, nello schema legislativo, potranno essere rivisitati e rimodulati dal Consiglio superiore della magistratura, sentito il Ministro della giustizia, in ragione della natura e della prevedibile complessità dei procedimenti nonché sulla base delle risorse disponibili e degli ulteriori dati risultanti dai programmi di gestione redatti dai capi dei rispettivi uffici giudiziari. 
Appare significativo che, in sede di relazione finale del 24 maggio 2021 della Commissione di studio Lattanzi all’uopo istituita, tra le proposte emendative al disegno di legge A.C. 2435, oltre alla prospettiva di un ampliamento della delega tale da includere anche modifiche delle norme di attuazione del codice di procedura penale nonché la revisione del regime sanzionatorio dei reati e l’introduzione di una disciplina organica dell’ufficio del processo penale e della giustizia riparativa, vi è specificamente la soppressione del menzionato art.12 “in quanto il tema della durata del processo – e dei relativi termini – è affrontato, nella proposta della Commissione, nell’ambito della disciplina dei rimedi compensatori e risarcitori conseguenti al mancato rispetto dei termini di ragionevole durata del processo penale (nuovo art. 14-ter), nonché nella proposta sub B in tema di prescrizione del reato (art. 14)”.
In sede di proposta emendativa, è stato, per vero, elaborato un nuovo articolo 670-bis c.p.p. - Riduzione della pena per irragionevole durata del processo – in base al quale il condannato ha diritto di richiedere al giudice dell’esecuzione la rideterminazione della sanzione penale inflitta, ridotta alla stregua di un meccanismo proporzionale ivi tracciato, a compensazione del pregiudizio subito per la durata prolungata del procedimento, con un rinvio alle disposizioni della legge Pinto.
Una seconda proposta di riforma elaborata dalla Commissione Lattanzi, correlata alla soppressione dell’art.12, ben più radicale nella sua portata, concerne la prescrizione del reato il cui corso è destinato a cessare definitivamente con l’esercizio dell’azione penale, prevedendosi, nondimeno, l’introduzione dell’art.344-bis c.p.p. a regolamentare la improcedibilità dell’azione penale a fronte del decorso di termini massimi dall’esercizio dell’azione penale stessa come precisati nel testo proposto, peraltro superiori rispetto a quelli della legge Pinto, nell’ottica prioritaria di ridurre i tempi di definizione dei giudizi allineandoli agli standard europei, quale rimedio estremo per la tutela del diritto alla ragionevole durata del processo.  
Vale appena rammentare che ulteriori correttivi sono stati introdotti nella versione definitiva approvata all’unanimità  dal Consiglio dei ministri in data 8.07.2021.
Tra gli emendamenti al disegno di legge di delega al governo della riforma giustizia, sul tema dibattuto della prescrizione, ne è stato previsto il blocco una volta emessa la sentenza di primo grado, sia di condanna che di assoluzione. Contestualmente, è stata  introdotta una causa di improcedibilità, decorso il termine massimo di due anni per il processo d’appello e di un anno per il giudizio in Cassazione, salvo proroghe per processi complessi e con esclusione dei reati puniti con l’ergastolo.
Nell’attesa di verificare in che termini sarà, poi, articolata la riforma, non posso non esprimere qualche perplessità sul testo dell’art.12 del disegno di legge per come era stato strutturato, giacchè il problema non è tanto l’adozione in sé di misure di organizzazione per la definizione rapida dei processi che già costituiscono una priorità nei progetti gestionali degli uffici giudiziari e, comunque, l’obiettivo di ciascun magistrato nel concreto esercizio della funzione giurisdizionale, quanto, invece, il carico poderoso dei ruoli, specie in talune realtà giudiziarie in chiara sofferenza numerica in rapporto, poi, alle risorse disponibili di personale amministrativo e di magistrati, sovente inadeguate. 
Altro aspetto che pure va segnalato è la struttura stessa del processo penale, il giusto processo evocato dall’art.111 della Costituzione, fondato sul modello accusatorio e, dunque, sul principio ineludibile del contraddittorio nella formazione della prova le cui scansioni, tuttavia, paiono mal adattarsi a carichi elevati di processi e all’esigenza prioritaria di speditezza e di celebrazione dei giudizi in tempi rapidi, in nome della produttività. Ciò in specie nel dibattimento di primo grado, momento centrale di formazione della prova, ove si rivela talora difficile, in concreto, il contenimento in tempi ristretti di talune tipologie di giudizi obiettivamente complessi in punto di assunzione della prova nonostante gli sforzi profusi dai giudici di organizzazione razionale dell’udienza anche con la previsione di calendari concordati di trattazione.
L’esperienza giudiziaria insegna, peraltro, come sovente la durata del processo sia condizionata anche da fattori esterni non sempre prevedibili ad onta di qualsivoglia pianificazione ragionata e, in primo luogo, dalle problematiche relative alle notificazioni dell’atto introduttivo del giudizio all’imputato. Nondimeno, il plausibile trasferimento del giudice ad altra sede, possibili impedimenti delle parti, rinvii per l’assenza o per il rintraccio di testimoni irrinunciabili, integrazioni necessarie della prova, improvvise indisponibilità delle aule giudiziarie oppure questioni di natura tecnica legate alla partecipazione a distanza di imputati, sono tutte evenienze, solo per fare qualche esempio, che determinano una inevitabile dilatazione dei tempi di definizione del processo a discapito della produttività.
Non credo possa sinceramente ovviarsi alla lentezza dei processi prevedendo tempi contingentati di definizione e riversando sui magistrati, quale (unica) soluzione prescelta, la predisposizione di misure organizzative volte ad accelerare la risposta di giustizia peraltro già attuate nella rispettiva gestione del ruolo e che, in un’ottica di programmazione preventiva, stando al testo di legge, sarebbero finanche diversificate in base alle esigenze di ciascun ufficio giudiziario.
Certamente è indefettibile la previsione sistematica di calendari pianificati nel contraddittorio tra le parti di trattazione dei processi, specie di quelli di maggiore complessità in termini di assunzione della prova così da cadenzarne in modo ragionato la definizione. Nondimeno, pare opportuno valorizzare, nel dibattimento penale di primo grado, le udienze – filtro per i giudizi di minore complessità non solo per la verifica dell’accesso ai riti deflattivi o a sistemi alternativi di definizione dei processi ma anche per la concreta programmazione dell’esame dei testimoni la cui audizione è di reale interesse delle parti, attivando al riguardo il contraddittorio anche nell’ottica di eventuali possibili consensi acquisitivi di atti processuali, così da predisporre il rinvio per gli incombenti istruttori in modo mirato in vista della rapida definizione del processo.
Ritengo, tuttavia, che misure organizzative di razionale gestione del ruolo, già – ripetesi - in concreto attuate dai magistrati, non siano, in ogni caso, da sole sufficienti ad assicurare il risultato della celere definizione dei processi né risolutive delle disfunzioni della giustizia penale a fronte di ruoli numericamente gravati e di carenze endemiche di organico. 
L’obiettivo di speditezza e di celerità di definizione dei processi non può che essere conseguito, con ragionata probabilità, oltre che naturalmente attraverso il potenziamento delle risorse, con la predisposizione di riforme strategiche del sistema processuale quale improntato alla previsione della obbligatorietà dell’azione penale, indirizzate verso la semplificazione dei sistemi di notificazione all’imputato efficienti e comunque idonei a garantirne la conoscenza del processo, la valorizzazione e la estensione diffusa di meccanismi deflattivi, anche in fase di indagini preliminari, l’accesso ampliato ai riti premiali e, in generale, ai sistemi di definizione alternativa del processo, il ricorso a condotte riparatorie, l’estensione dell’ambito di applicabilità della pronuncia ex art.131 bis c.p., profili indubbiamente valorizzati nella loro centralità dalla Commissione Lattanzi.
Il progetto di legge sembra implicitamente attribuire la responsabilità dei ritardi esclusivamente ai magistrati e alla disorganizzazione del lavoro giudiziario ad essi imputabile. Se ciò può avere in parte un suo innegabile fondamento, non si tiene conto, tuttavia, della incidenza anche di altri fattori che esulano dalle competenze del singolo magistrato titolare del ruolo. L’amministrazione della giustizia non dipende esclusivamente dalla gestione dei processi da parte dei magistrati i quali devono confrontarsi con le disposizioni dirigenziali e con le risorse disponibili in ciascun ufficio giudiziario, spesso carenti, a cominciare dalla consistenza del personale di cancelleria che assiste il giudice anche quello più determinato a procedere a spron battuto all’insegna della produttività.

 

 

2- A mente dell’art. 12 il dirigente dell’Ufficio è tenuto “a segnalare all’organo titolare dell’azione disciplinare la mancata adozione delle misure organizzative, quando sia imputabile a negligenza inescusabile”, quale il Suo giudizio al riguardo?

La previsione della segnalazione del magistrato all’organo titolare dell’azione disciplinare, a cura del dirigente dell’ufficio, per la negligenza inescusabile nella mancata adozione delle misure organizzative, sembra evocare una sorta di atavica diffidenza nei confronti del magistrato, rimarcandone la responsabilità per la scarsa diligenza e la inoperosità laddove essa è già esistente e ricavabile dalla vigente disciplina normativa degli illeciti disciplinari. 

Del tutto rischioso, a mio avviso, oltre che non risolutivo del problema preliminare della lentezza del processo penale è il richiamo a un parametro dai confini incerti che presta il fianco a interpretazioni non uniformi e non oggettive. Ad ogni modo, non pare possa costituire la panacea per rimediare alla sofferenza disfunzionale del sistema giudiziario addossare (solo) al magistrato la responsabilità per la mancata adozione delle misure organizzative e per la mancata osservanza dei termini di celebrazione del processo senza prevedere interventi di restyling di istituti processuali in chiave di semplificazione e di speditezza oltre al necessario rafforzamento dell’organico in rapporto ai carichi ponderali di ciascun ufficio giudiziario.  


3- I termini indicati dall’art. 12 per la definizione dai vari gradi di giudizio le sembrano congrui? 

A mio parere, la disciplina dei termini di durata massima del processo nei diversi gradi di giudizio, per come articolata, si presta a inevitabili critiche siccome si fonda su criteri temporali astratti e rigidamente predeterminati, senza tener conto delle molteplici variabili che possono influire sui tempi di celebrazione del singolo giudizio, ciascuno con una propria storia processuale, dal che è plausibile ipotizzare definizioni in momenti temporali diversi anche a fronte di giudizi ontologicamente identici. 

Ritengo, come già detto, che, per quanto la durata del dibattimento di primo grado sia disciplinata nel codice di rito con una previsione che appare anacronistica in rapporto alle pendenze attuali (art.477 c.p.p. ove è codificato il fisiologico esaurimento del dibattimento, quale regola, in una sola udienza), molteplici sono i fattori che, in concreto, nella applicazione pratica, incidono sull’andamento del processo e sulla tempistica della sua definizione. 

Desta, poi, perplessità la previsione di termini significativamente ridotti in specie per il dibattimento di primo grado che non tengono conto delle scansioni procedimentali fisiologiche per la formazione della prova dichiarativa nel contraddittorio tra le parti che talora può rivelarsi oltremodo articolata e temporalmente impegnativa. 

Nondimeno, non può non riflettersi come, in relazione ai procedimenti per reati attribuiti al tribunale in composizione monocratica, il termine di un anno si appalesi inadeguato a fronte di giudizi che possono profilarsi particolarmente complessi nell’articolato probatorio e, dunque, estremamente impegnativi non solo sotto il profilo contenutistico e qualitativo ma anche per l’aspetto temporale, in ragione della natura e tipologia di reatiegualmente rientranti nella cognizione del tribunale in composizione monocratica (si pensi, a titolo esemplificativo, ai delitti in materia di colpa professionale oppure ai reati in materia urbanistica in tema di lottizzazione). Ciò nonostante, risulta oltremodo difficoltoso individuare, se non in via straordinaria, nella concreta gestione del ruolo, una udienza dedicata al singolo processo che, pur selezionato quale prioritario, è calendarizzato inevitabilmente insieme ad altri numerosi processi egualmente pendenti. 

Il termine, peraltro, è ben inferiore rispetto a quello di tre anni indicato dalla legge Pinto n.89/2001 in tema di equa riparazione per il danno subito per la irragionevole durata del processo, termine previsto nel disegno di legge con riferimento unicamente ai procedimenti per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione e l’economia.  

Considerazione di chiusura è che, in linea generale, la previsione di termini preclusivi prefissati di definizione del processo appare funzionale e coerente ove correlata alla adozione di meccanismi processuali concretamente deflattivi anche nella fase delle indagini preliminari e al sensibile calo ponderale del numero dei processi. 

L’idea aziendalistica che si intravede nell’organizzazione della giustizia portata avanti dal disegno di legge è conseguenza dei cospicui indubbi ritardi (cui invero la giustizia italiana ha posto un freno negli ultimi anni; si vedano i rapporti CEPEJ che segnalano un notevole aumento di produttività della giustizia italiana rispetto ai colleghi europei ed evidenziano un divario largamente colmato, in proporzione dei numeri di ciascun paese europeo). Una visione, tuttavia, inesorabilmente foriera di risultati che appaiono discutibili. 

La fretta e il rispetto dei numeri in servizi essenziali qual è la giustizia, si pongono, talvolta, in frontale contrasto con la funzione stessa del servizio.

Siamo sicuri che accelerare i processi e porre limiti temporali alla loro definizione siano la soluzione ottimale? Un modello di processo efficiente rispondente (prevalentemente) al criterio prioritario di velocità e speditezza del servizio giustizia non è sempre sinonimo di qualità.

Cerchiamo un processo giusto o un processo sommario? 

 

4- Nello specifico, con riguardo ai giudizi di impugnazione quale dovrebbe essere il dies a quo dal quale computare il termine per definire il giudizio? (es. dal momento della proposizione gravame, dal giorno in cui esso perviene nella cancelleria del giudice ad quem, dal decreto di fissazione udienza, dall’udienza …).

Mi sembra maggiormente coerente correlare la decorrenza del termine di durata del giudizio di impugnazione al giorno in cui gli atti del procedimento pervengono nella cancelleria del giudice dell’impugnazione dovendosi prevedere la tempestiva trasmissione di essi a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. 

 

5- Si vuole riconoscere al Consiglio superiore della magistratura la facoltà di stabilire, con cadenza biennale, i termini previsti dall’art. 12 in maniera diversa per ciascun ufficio, non le pare si rischi una frammentazione localistica? 

Il rischio di una paventata frammentazione localistica dei tempi di durata del processo penale è più che concreto.

All’organo di autogoverno sono istituzionalmente demandati i compiti di valutazione delle pendenze e dei dati risultanti dai programmi di gestione di ciascun ufficio giudiziario con l’obiettivo primario di una adeguata distribuzione negli uffici giudiziari delle risorse disponibili e necessarie, ma affidare al CSM la previsione di termini di definizione dei processi territorialmente differenziati  alla stregua della valutazione delle pendenze e dei dati evincibili dai programmi di gestione redatti dai capi dei singoli uffici giudiziari determinerebbe una sostanziale disomogeneità aleatoria dei tempi di durata del processo destinati a mutare in rapporto al singolo contesto territoriale, il che appare stridente con un sistema giudiziario che deve essere improntato a criteri di uguaglianza, uniformità e certezza. 

6- L’art. 13 prevede, per i giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna, che se non vengono rispettati i termini di cui all’art. 12, le parti e i loro difensori possano presentare istanza di definizione del processo entro sei mesi. La previsione è assistita dalla previsione di una sanzione disciplinare per il caso di mancata adozione di misure organizzative idonee ad assicurare la definizione entro il detto semestre. Non le pare che il combinato disposto degli artt. 12 e 13 manifesti in realtà l’incapacità ad affrontare il problema della durata del processo, scaricandolo sugli operatori del diritto? 

Occorre precisare che, in sede di relazione finale, la Commissione Lattanzi ha proposto la soppressione dell’art. 13 siccome pleonastica in quanto la relativa tematica, nella proposta della Commissione, è affrontata nell’ambito degli interventi in tema di impugnazioni (art. 7), sistema che, per come risulta rielaborato e riscritto il testo dell’art.7, appare radicalmente ridisegnato alla luce delle coordinate costituzionali econvenzionali.

La previsione del diritto della parte a presentare istanza di definizione del processo entro sei mesi qualora non siano rispettati i termini di cui all’art.12 per i giudizi di impugnazione, corredato da uno specifico rilievo disciplinare, non può che indurre riflessioni ancora una volta in chiave critica. 

Nell’attesa di verificare i termini concreti di attuazione della riforma, a fronte delle defaillances del sistema della giustizia penale, le disposizioni del disegno di legge introduttive di termini preclusivi processuali di definizione del processo corredate dalla previsione di sanzioni disciplinari per il magistrato non diligente, non appaiono comunque risolutive delle disfunzioni endemiche di un sistema che richiede, oltre al potenziamento delle risorse, modifiche strutturali tese alla semplificazione del procedimento onde poter assorbire l’impatto dimensionale dei carichi dei ruoli che, in taluni uffici giudiziari, risultano particolarmente gravosi considerata, del resto, la obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale.  

 

Diana Bottillo: magistrato, dapprima in servizio presso il Tribunale di Nola e, successivamente, dal 2008, presso il Tribunale di Napoli nel settore penale. Svolge costantemente funzioni di giudice del dibattimento occupandosi, tra l’altro, anche della   formazione didattica dei magistrati ordinari in tirocinio e della magistratura onoraria.