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31 agosto 2021

Ma il giudizio di impugnazione senza pubblicità è costituzionalmente legittimo ? - di Daniele Livreri


In questo blog avevamo già rilevato che la riforma c.d. Cartabia suscitava delle perplessità in tema di pubblicità dei giudizi di impugnazione (link). 

L'intervento del professor Giunchedi (link) stimola un nuovo e più ampio intervento sul tema. 

Il professore ha ricordato che, sulla scorta del testo ora oggetto di esame al Senato, la celebrazione del giudizio di appello avverrà di regola <<con rito camerale non partecipato>>, così come la trattazione dei ricorsi davanti alla Corte di cassazione si svolgerà di regola <<con contraddittorio scritto>>

Al di là dell'imperfetta tecnica normativa, su cui si rimanda al post, il punto che pare essenziale è che nel processo riformato i giudizi di impugnazione si celebreranno, salvo deroghe, in aule da cui il popolo sovrano, nel cui nome è amministrata la giustizia, è escluso, perché il rito scritto o camerale è ex se incompatibile con la pubblicità. Quest'ultima verrà rimessa a scelte processuali delle parti o ad esigenze ravvisate dal giudicante. 

Ma un tale modello processuale può ancora ritenersi conforme ai principi sovranazionali e costituzionali

Chi scrive non ha gli strumenti per fornire una risposta né autorevole né tampoco definitiva, eppure si possono offrire alcuni spunti di riflessione.

All'uopo pare utile innanzi tutto ripercorrere le affermazioni contenute in taluni documenti internazionali.

L'art. 10 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, adottata nel 1948,  prevede che <<ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e PUBBLICA UDIENZA davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri nonché della fondatezza di OGNI ACCUSA PENALE gli venga rivolta>>. 

Nel 1950, la convenzione EDU, ratificata con legge n. 848 del 1955riprese il principio, prevendo all'art. 6 che <<ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, PUBBLICAMENTE ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di OGNI ACCUSA PENALE formulata nei suoi confronti>>, aggiungendo che <<la SENTENZA deve essere resa PUBBLICAMENTE>>.   

Tuttavia la medesima fonte sovranazionale specificò che <<l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia>>.

Anche il “Patto internazionale sui diritti civili e politici”, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, prevede all'art. 14 che <<ogni individuo ha diritto ad un’equa e PUBBLICA UDIENZA dinanzi a un tribunale competente, indipendente e imparziale, stabilito dalla legge, allorché si tratta di determinare la fondatezza di un’accusa penale che gli venga rivolta, ovvero di accertare i suoi diritti ed obblighi mediante un giudizio civile>>, precisando, analogamente a quanto previsto dalla CEDU, che <<il processo può svolgersi totalmente o parzialmente a porte chiuse, sia per motivi di moralità, di ordine pubblico o di sicurezza nazionale in una società democratica, sia quando lo esiga l’interesse della vita privata delle parti in causa, sia, nella misura ritenuta strettamente necessaria dal tribunale, quando per circostanze particolari la pubblicità nocerebbe agli interessi della giustizia; tuttavia, qualsiasi sentenza pronunciata in un giudizio penale o civile dovrà essere resa pubblica, salvo che l’interesse di minori esiga il contrario, ovvero che il processo verta su controversie matrimoniali o sulla tutela dei figli>>.

In tempi più recenti i "popoli d'Europa" (cfr. preambolo) si sono dotati di una "Carta fondamentale dei diritti dell'Unione europea", il cui articolo 47 prevede che <<ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, PUBBLICAMENTE ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge>>, senza peraltro prevedere limitazioni alla pubblicità del processo. 

In sintesi a far data dal 1948 il principio della pubblicità del processo è stato costantemente riconosciuto da plurimi documenti di carattere sovranazionale, quale diritto fondamentale della persona, limitabile soltanto in casi eccezionali.

A tal punto è evidente che la logica che ispira i vari progetti di riforma del nostro processo (Bonafede, Lattanzi- Cartabia) è opposta a quella dei documenti citati.

Tuttavia, leggendo le fonti sovranazionali in un'ottica esclusivamente individuale, si potrebbe sostenere che il principio della pubblicità del processo sia salvaguardato dalla facoltà accordata all'imputato di chiedere la celebrazione del giudizio in pubblica udienza, con ciò schivando rischi di incostituzionalità ex art. 117 cost.  

Nondimeno il tema rimarrebbe complesso sul piano costituzionale, in particolare avuto riguardo all'art. 101 , primo comma, della Costituzione, secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo. Infatti, per quanto la Corte costituzionale abbia respinto le censure di incostituzionalità del rito abbreviato per contrasto con l'art. 101 (Corte cost. 373/1992), giacché <<la giusta considerazione, la valutazione ed il bilanciamento dei vari interessi in gioco rientrano nella discrezionalità del legislatore>>, v'è da chiedersi se una rivalutazione degli interessi in gioco, che trasformi la pubblicità del processo di impugnazione da regola ad eccezione sia ancora conforme al dettato costituzionale.

Al riguardo è d'uopo rilevare che proprio nella citata sentenza, la Corte costituzionale ha affermato che <<LA PUBBLICITÀ DEL GIUDIZIO, SPECIE DI QUELLO PENALE, COSTITUISCE UN PRINCIPIO ESSENZIALE DELL'ORDINAMENTO DEMOCRATICO, FONDATO SULLA SOVRANITÀ POPOLARE, SULLA QUALE SI BASA L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA, SPECIE QUELLA PENALE, CHE, SECONDO L'ART. 101, PRIMO COMMA, DELLA COSTITUZIONE, È AMMINISTRATA IN NOME DEL POPOLO>>.   

In altri termini, non può che ribadirsi il quesito inziale: è costituzionalmente legittimo un giudizio di impugnazione in cui il popolo sovrano, nel cui nome è esercitata la giustizia, accede alle aule soltanto in casi specifici 

 


28 agosto 2021

Caramelle (poche) e carbone (tanto) al Governo in ordine al contraddittorio in sede di impugnazione

Concludiamo le nostre analisi agostane sulla Riforma Cartabia (il piano completo al link). Dopo gli interventi dei professori Giorgio Spangher (link), Bartolomeo Romano (link), Paolo Ferrua (link), il confronto tra Cataldo Intrieri (link) e Marco Siragusa (link), e gli interventi di Daniele Livreri (link) Michele Passione (link) e Daniele Carra (link), siamo onorati di pubblicare il commento dell'avv. prof. Filippo Giunchedi





1. La breve esperienza del ricorso al contraddittorio cartolare nei giudizi di appello e di legittimità in luogo della partecipazione delle parti quale conseguenza della necessità di evitare occasioni di contagio e diffusione del virus, viene riproposto con il D.D.L. A.C. 2435 e gli emendamenti apportati dal Governo lo scorso 14 luglio.

Il quadro composito che emerge dal testo finale può sintetizzarsi in questi termini:
a) la celebrazione del giudizio di appello dovrà avvenire mediante «rito camerale non partecipato», a meno che l’imputato ed il suo difensore non richiedano la trattazione orale (art. 7 lett. g);
b) nei casi non contemplati dall’art. 611 c.p.p. la trattazione dei ricorsi per cassazione dovrà avvenire «con contraddittorio scritto senza l’intervento dei difensori», a meno che le parti non facciano richiesta di celebrazione in pubblica udienza o in camera di consiglio partecipata (art. 7 lett. h-quater);
c) si potrà ovviare alla omessa richiesta di trattazione orale formulata dalle parti in due ipotesi: c’) qualora sia la Cassazione stessa a ritenerla necessaria (art. 7 lett. h-quater, secondo periodo); c’’) quando la Cassazione intenda dare al fatto una diversa qualificazione giuridica (art. 7 lett. h-quater, ultimo periodo).

A tacer della pessima tecnica utilizzata che lascia aperti non pochi interrogativi, come, ad esempio, se vi sia identità tra il rito camerale non partecipato previsto per l’appello e il contraddittorio cartolare applicabile al giudizio di legittimità; oppure se il contraddittorio scritto previsto per il giudizio di cassazione sia estensibile anche al Procuratore Generale e non solo alle parti private, considerato che il riferimento è all’«intervento dei difensori».
Si tratta di aspetti che emergono ictu oculi e che destano non poche perplessità sulla “perizia” con la quale sono stati predisposti i criteri direttivi deformanti un testo – quello originario – di pregevole fattura sul piano sistematico.

Di seguito evidenzierò quelli che, a mio avviso, costituiscono i punti critici della direttiva relativa allo specifico profilo del contraddittorio in sede di impugnazione, non limitandomi, però, alla sola pars destruens, ma, in un’ottica costruttiva, cercherò di offrire qualche idea (pars costruens) tesa a migliorare un contraddittorio che non necessariamente deve sempre e solo avvenire mediante la partecipazione delle parti.
Procederò trattando in un primo momento del giudizio di appello per volgere, poi, a quello di legittimità, riservandomi nell’ultimo paragrafo qualche spunto.

2. Nel giudizio di appello – al pari, seppur con le eccezioni sottolineate al punto c) del precedente paragrafo, del procedimento di cassazione – il modello utilizzabile di default è quello del «rito camerale non partecipato», da intendersi – cum grano salis – quale contraddittorio cartolare così come si verifica nel modello delineato dall’art. 611 c.p.p., con decisione da parte del giudice di appello fondata solo ed esclusivamente sul contraddittorio instaurato dalle parti mediante gli scritti (atto di appello, motivi nuovi, memorie, note di replica, etc.) con eventuale celebrazione di udienza partecipata a seguito di richiesta dell’imputato o del suo difensore.
Come anticipato, non ritengo possa negativizzarsi in assoluto un modello che, prima ancora che venisse introdotto dal legislatore per far fronte alla necessità di evitare occasioni di incontro volte a prevenire il rischio del contagio, veniva applicato con frequenza nella prassi quotidiana per l’abitudine di non pochi difensori di riportarsi ai motivi di impugnazione. Semmai, va sottolineata l’imprescindibilità del confronto in udienza onde consentire un contraddittorio effettivo che sia di ausilio a parti e giudice. E sotto questo profilo, per il giudizio di cassazione la previsione di un contraddittorio orale instaurato direttamente per volontà della Cassazione (art. 7 lett. h-quater, secondo periodo), pare rispondere proprio a questa (indiscutibile) necessità.
Rimettere l’opzione per la trattazione orale al solo imputato (e al suo difensore), francamente desta qualche perplessità, posto che la necessità di dover ricorrere al contraddittorio orale può sorgere anche in capo al Procuratore Generale o al giudice stesso, interessato a cogliere aspetti poco chiari o non adeguatamente sviluppati negli scritti difensivi, sollecitando durante la relazione i necessitati chiarimenti e approfondimenti. Non mi risulta comprensibile, quindi, la ragione per cui questa possibilità sia prevista per il solo giudizio di legittimità.

3. Di certo maggiormente consolidata risulta l’applicazione del modello del «contraddittorio scritto» per la trattazione dei ricorsi per cassazione, anche se non mi appare chiaro se l’inciso «senza l’intervento dei difensori» debba intendersi riferito a tutte le parti (private e pubblica) o, invece, come parrebbe suggerire l’agevole comprensione del lessico utilizzato, non sia applicabile al Procuratore Generale.
Nella prima ipotesi, saremmo al cospetto di un’inescusabile trascuratezza del dato normativo testuale; mentre nella seconda si determinerebbe una perequazione tra parte pubblica e parti private che, ragionevolmente, risulterebbe destinata a spingere queste ultime a richiedere la trattazione orale, per l’impossibilità di realizzare quel contraddittorio cartolare applicabile nel modello delineato dall’art. 611 c.p.p., rispettoso delle condizioni di parità richieste dalla stessa Grundnorm (arg. ex art. 111, comma 2, Cost.). Diversamente si svilupperebbe un analogo parallelo con il modello di trattazione a partecipazione eventuale dettato dall’art. 127 c.p.p., applicabile in una serie di casi, primo tra tutti quello relativo ai ricorsi in materia cautelare, ove per prassi, indipendentemente dalla presenza del difensore, il Procuratore Generale partecipa all’udienza, ivi rassegnando le conclusioni. 
Sicuramente apprezzabile risulta la possibilità posta in capo alla Cassazione di instaurare, indipendentemente dalla volontà delle parti, il contraddittorio orale, vuoi per la necessità di approfondire – magari su sollecitazione del Presidente del Collegio assegnatario del ricorso – alcuni temi trattati nel ricorso o non oggetto di replica da parte delle altre parti o per disquisire in ordine all’ipotizzata diversa qualificazione giuridica del fatto; aspetto quest’ultimo rispettoso dell’obiter dictum della decisione della Corte europea nell’affaire Drassich.
Occorrerà, poi, disciplinare con perizia magistrato legittimato a disporre la trattazione orale, modi e tempi dell’iniziativa adottata ex officio.

4. Mettendo à-côté le (doverose) critiche al testo del legislatore, vi sono alcuni correttivi che consentirebbero di migliorare la qualità di un modello – quello a contraddittorio cartolare – sicuramente utile per ricorsi non connotati da aspetti di particolare problematicità.
Innanzitutto, occorre chiarire – ed emendare – quei profili – sopra sottolineati – che destano perplessità in ordine alla distinzione tra le tipologie di contraddittorio applicabile al giudizio di appello e a quello di legittimità.
Allo stesso modo, vi è un altro aspetto che consentirebbe di rendere effettivo il diritto di difesa anche mediante il ricorso al contraddittorio cartolare. Si tratta di idea che ho avuto modo di sviluppare insieme ai Colleghi del Comitato scientifico della Camera penale “Franco Bricola” di Bologna e consiste nella necessità di rendere ostensibili alle parti non solo i relativi scritti onde consentire la replica nel segno del contraddittorio, ma anche la relazione del giudice, di modo che le parti possano comprendere la “fedeltà” della stessa al giudizio di primo grado, alla relativa sentenza e ai motivi di impugnazione.
Il suggerimento che si propone, pertanto, è quello che il giudice (di appello e di legittimità) predisponga la relazione prima delle repliche cartolari e la relativa comunicazione alle parti, così da rendere il contraddittorio meno vacuo.

Un ulteriore spunto di riflessione è legato alla scarsa considerazione offerta dal legislatore al ruolo dell’oralità. Questa consente di poter fruire della capacità persuasiva della dialettica. Il ricorso al contradditorio cartolare rappresenta, infatti, una soluzione di compromesso che trascura come le argomentazioni delle parti costituiscano attività processuale decisiva a tutti gli effetti, principalmente in quei giudizi ove il giudice, per la struttura del procedimento, non gode di una percezione diretta delle prove, come nelle impugnazioni, e non solo quando si argomenti intorno a fatti e relative prove, ma anche in quelle ipotesi in cui la discussione abbia ad oggetto questioni giuridiche apparentemente distanti dal fenomeno gnoseologico.
Conseguentemente, per la sua rilevanza, alla discussione dovrà ricorrersi in tutte quelle occasioni in cui si riterrà che la stessa possa costituire un quid pluris sul piano della persuasività. È sufficiente pensare ai sommi insegnamenti contenuti nell’Ars oratoria di Cicerone e alla Institutio Oratoria di Quintiliano per comprendere quanto sia insopprimibile il connubio retorica e dialettica, ovvero quell’efficace abbinamento tra linguaggio parlato e comunicatività del corpo che, seppur non aprioristicamente rinunciabile in termini assoluti, costituisce l’essenza del processo penale non certo per un capriccio dettato dalla vanità dell’oratore, ma proprio in quanto efficace per il convincimento del giudice.

Filippo Giunchedi

Associato di Diritto processuale penale 

nell’Università Niccolò Cusano di Roma

24 agosto 2021

Le misure organizzative del tribunale di Palermo fino al 31 dicembre 2021



Avevamo già dato informazione dello stato attuale della normativa pandemica, con particolare riferimento al regime derogatorio della deroga per il periodo dall'1 agosto al 30 settembre 2021, introdotto dal D.L. 105/2021 che, come si ricorderà, ha prorogato sino al 31 dicembre 2021 la normativa pandemica (cfr. Memento ai naviganti: per gli appelli e i ricorsi calendati ad agosto e settembre l'udienza è a trattazione orale).

Riteniamo ora utile pubblicare le misure organizzative adottate dal presidente del tribunale di Palermo per il periodo in questione.

Segnaliamo che, con interpretazione condivisibile, il presidente dott. Antonio Balsamo ritiene che gli appelli cautelari, nel periodo di deroga della deroga (1 agosto/30 settembre 2021), siano soggetti alla disciplina ordinaria e codicistica (id est: trattazione orale) per assenza di copertura normativa di segno contrario.

Scarica le linee guida al link

20 agosto 2021

La condanna dell'Italia nel caso Maestri e altri e le ricadute sul processo italiano - di Marina Silvia Mori (*)




L’8 luglio scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo pronunciava sentenza nei ricorsi Maestri e altri contro Italia, condannando lo Stato convenuto per la violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione europea [1].

La vicenda riguardava le note “quote latte” e il rispetto del Regolamento CE 856/84: i sette ricorrenti erano imputati di truffa aggravata e associazione a delinquere in relazione alla creazione e alla gestione di varie società cooperative il cui scopo, secondo l’accusa, era quello di superare le quote imposte dal Regolamento senza versare i relativi contributi. 

Il processo di primo grado si concludeva con l’assoluzione della Maestri da entrambi i capi di imputazione, mentre gli altri sei ricorrenti erano assolti dall’imputazione associativa, ma condannati per il delitto di truffa.

All’esito del giudizio di secondo grado, la Corte di Appello di Torino riformava la sentenza di primo grado condannando tutti e sette gli imputati per entrambi i reati, senza procedere alla rinnovazione del dibattimento. La sentenza era confermata dalla Cassazione.

Sarebbe tuttavia un grave errore inserire la Maestri e altri c. Italia nel filone giurisprudenziale reso famoso dalla pluricitata sentenza Dan c. Moldavia [2], relativa all’obbligo di rinnovazione del dibattimento in caso di overturning senza considerarne le peculiarità (per approfondimenti su questo blog: link e link).

Solo in relazione alla ricorrente Maestri, assolta in primo grado, la Corte europea ritiene infatti sussistente la violazione dell’art. 6 par. 1 per la mancata rinnovazione dibattimentale in relazione a una nuova audizione di testimoni e consulenti.

Il principio, non nuovo nella giurisprudenza strasburghese, è che se l’overturning dipende esclusivamente da una diversa interpretazione di una questione giuridica, e i fatti sono invece incontestati, non sussiste la violazione dell’equo processo ove la Corte di Appello non proceda alla rinnovazione del dibattimento [3]. Nel caso in esame, la condanna per il reato associativo inflitta nel secondo grado di giudizio si basava sulla applicazione della giurisprudenza della Cassazione che individua nell’intento di commettere un numero indefinito di reati della stessa specie (non solo un numero indefinito di reati di specie diversa, come ritenuto dal giudice di primo grado) l’elemento soggettivo dell’associazione. La diversa interpretazione preferita dai giudici di secondo grado non rendeva, quindi, necessario il nuovo esame dei testimoni e dei consulenti su fatti già stabiliti e non contestati dalle parti.


Il vero elemento di interesse, in relazione alla sentenza Maestri, riguarda il ruolo dell'esame degli imputati e il rapporto tra l’assenza volontaria e la scelta di non rendere l’esame.

La Corte europea, infatti (par. 50) si chiede se le questioni poste all’attenzione della giurisdizione di secondo grado potessero essere esaminate senza l’apprezzamento diretto, da parte del Collegio giudicante, delle dichiarazioni degli imputati. Questo perché, in particolare, la sentenza di appello conteneva riferimenti a situazioni soggettive specifiche, sostenendo tra l’altro che gli imputati “non potessero non sapere” che l’attività delle società cooperative fosse illegale. Secondo la giurisprudenza della Corte, questo comporta una presa di posizione su fatti decisivi per stabilire la responsabilità degli imputati, che implica necessariamente la verifica delle dichiarazioni della persona sottoposta a giudizio [4]

I ricorrenti erano assistiti da difensori di fiducia, erano stati correttamente informati della celebrazione del giudizio di appello e avevano deciso di non comparire all’udienza (a parte la Maestri, che era presente): nessuna questione poteva quindi porsi in relazione al diritto di informazione sul processo. La difesa del Governo sosteneva quindi che i ricorrenti avessero consapevolmente rinunciato al diritto a partecipare al giudizio, e che, comunque, la possibilità di rendere dichiarazioni spontanee e di avere l’ultima parola prima della camera di consiglio – se i ricorrenti avessero utilizzato queste procedure – sarebbero state sufficienti per compensare la mancanza di esame in grado di appello.


La Corte europea non si accontenta delle opzioni indicate dal Governo, ed emette una sentenza che rischia, ancora una volta, di modificare sensibilmente il nostro giudizio di secondo grado, essendo evidente l’individuazione di una problematica strutturale i cui effetti vanno ben oltre la singola sentenza [5].


Per la prima volta in una sentenza che riguarda l'Italia viene esaminata la seguente questione: se alla citazione a giudizio di un imputato nel grado di appello corrisponda anche una convocazione per rendere  l’esame da parte dello stesso imputato e se la mancata comparizione sia interpretabile come esplicita volontà di non sottoporsi all'esame.


La particolarità della sentenza Maestri e altri è che, riprendendo giurisprudenza consolidata della Corte europea, conferma ancora una volta il diritto dell'imputato a non comparire e a rinunciare esplicitamente ad essere presente al giudizio a proprio carico.


Tuttavia, la rinuncia a comparire non significa di per sé rinuncia a rendere l’esame: riprendendo una recente sentenza [6] la Corte ha ricordato gli obblighi positivi che incombono sulla giurisdizione di appello, e che la rinuncia alla partecipazione all’udienza da parte del ricorrente non comporta necessariamente rinuncia a prendere la parola, anche se il ricorrente non ne ha fatto esplicita richiesta e se il difensore non si è opposto alla pronuncia della sentenza in assenza di esame. Inoltre, la Corte ha rigettato le argomentazioni del Governo sottolineando come le dichiarazioni spontanee non possano sostituire l’esame reso davanti al Collegio; con riferimenti anche a pronunce della Corte di Cassazione, la Corte europea esclude infine che l’assenza al giudizio di appello possa essere interpretata come rinuncia a rendere l’esame (e gli imputati non erano stati ulteriormente citati).


Due sono le considerazioni che seguono alla sentenza Maestri e altri.

La prima, immediata, è che viene ancora una volta evidenziata la serie di obbligazioni positive che incombono sulle giurisdizioni di secondo grado, anche per evitare che l’eventuale rinnovazione del dibattimento diventi un simulacro di processo. L'assenza è solo assenza, e non diventa carta bianca nemmeno per consentire al giudicante di inferire dalla mancata partecipazione la volontà di non rendere l’esame. Anche senza sollecitazioni difensive, la Corte d’Appello ha l’onere di garantire l’equità del giudizio, eventualmente disponendo la citazione degli imputati non comparsi per rendere l’esame, se la motivazione comprende valutazioni soggettive sugli imputati stessi.

La seconda, più sottile, offre ulteriori margini di riflessione, che vanno oltre la celebrazione del giudizio di appello. Ogni volta che in un provvedimento si fa riferimento alla volontà dell’imputato, senza che quest’ultimo sia stato direttamente sentito dal giudice, seguendo il principio espresso dalla sentenza Maestri e altri dovremmo porci il problema se non fosse necessario un esame dell’imputato stesso per consentire di inserire nella sentenza detta valutazione; se l’imputato sia stato messo in condizione di rendere l’esame; se il giudice abbia correttamente motivato in assenza di esame. Forse il “non poteva non sapere” dedotto esclusivamente dalle carte è un problema che non riguarda solo il giudizio di appello e, in generale, l’assenza non corrisponde alla volontà di non sottoporsi all’esame, secondo i parametri convenzionali.

Ne derivano molti strumenti difensivi da utilizzare, nel rispetto dell’esaurimento dei ricorsi interni.


La sentenza al link 👉🏻 Maestri and Others v. Italy (coe.int)


Note


[1] Per un primo commento dell’Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere Penali Italiane si veda il link

[2] Per una rapida ricostruzione della giurisprudenza EDU in tema di overturning, sia consentito il rinvio a M.S. MORI, A volte ritornano: Dan contro Moldavia e il cortocircuito della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, tra principi consolidati e nuove tentazioni cartolari, Giurisprudenza Penale Web, in particolare nota 3 e ss.

[3]  Bazo González c. Spagna, n. 30643/04, § 36, 16.12.2008, Keskinen e Veljekset Keskinen Oy c. Finlandia, n. 34721/09, § 39, 5.6.2012, Leș c. Romania (dec.), n. 28841/09, §§ 1822, 13.9.2016, e Dumitrascu c. Romania, n. 29235/14, 15.9.2020).

[4] Lacadena Calero c. Spagna, 22.11.2011, n. 23002/07, par. 47: “Aux yeux de la Cour, le Tribunal suprême s’est écarté du jugement d’instance après s’être prononcé sur des éléments de fait et de droit qui lui ont permis de déterminer la culpabilité de l’accusé. A cet égard, force est de constater que, lorsque l’inférence d’un tribunal a trait à des éléments subjectifs (tel qu’en l’espèce l’existence de dol éventuel), il n’est pas possible de procéder à l’appréciation juridique du comportement de l’accusé sans avoir au préalable essayé de prouver la réalité de ce comportement, ce qui implique nécessairement la vérification de l’intention de l’accusé par rapport aux faits qui lui sont imputés.

[5] Per un dettagliato resoconto sulle sentenze “quasi pilota” e le sentenze che individuano comunque violazioni strutturali, SACCUCCI, La responsabilità internazionale dello Stato per violazioni strutturali dei diritti umani, Editoriale Scientifica 2018.  

[6] Júlíus Þór Sigurþórsson c. Islanda, n. 38797/17, § 33, 16.7.2019.



(*) Marina Silvia Mori: Avvocato del Foro di Milano e componente dell’Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere Penali. Relatrice in numerosi convegni in materia di protezione dei diritti dell’uomo e funzionamento della Corte europea, ha patrocinato e discusso ricorsi sia in Sezione che in Grande Camera. È autrice di vari commenti a sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo.

18 agosto 2021

Memento ai naviganti: per gli appelli e i ricorsi calendati ad agosto e settembre l'udienza è a trattazione orale



Su questo blog avevamo dato conto della recente proroga della normativa emergenziale e delle correlate deroghe (nostra pubblicazione al link)Adesso la sezione feriale della Suprema Corte è tornata sul tema. Tuttavia prima di illustrare la sentenza che si annota (sentenza al link), non pare ozioso "riavvolgere il nastro":

- ante Covid l'oralità caratterizzava il contraddittorio nei giudizi di impugnazione, salvo la (parziale) deroga ex art. 611 c.p.p.; 

- il d.l. 137/2020, all'art. 23, in materia di ricorso per cassazione, rubricato "Disposizioni per l'esercizio dell'attività giurisdizionale nella vigenza dell'emergenza epidemiologica", ha previsto al comma 8 che <<per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione a norma degli articoli 127 e 614 del codice di procedura penale la Corte di cassazione procede in Camera di consiglio senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle altre parti, salvo che una delle parti private o il procuratore generale faccia richiesta di discussione orale>>;

- al suddetto art. 23 è stato poi aggiunto l'art. 23 bis in materia di appello, secondo cui <<a decorrere dal 9 novembre 2020 e fino alla scadenza del termine di cui all'articolo 1 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35,  fuori dai casi di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, per la decisione sugli appelli proposti contro le sentenze di primo grado la corte di appello procede in camera di consiglio senza l'intervento del pubblico ministero e dei difensori, salvo che una delle parti private o il pubblico ministero faccia richiesta di discussione orale o che l'imputato manifesti la volonta' di comparire>>;  

- la disciplina emergenziale in ordine ai giudizi di impugnazione, destinata a divenire ordinaria con la riforma c.d. Cartabia, è stata oggetto di successive proroghe, da ultimo con decreto-legge n. 105 del 2021 ("Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19"), pubblicato nella G.U. n. 175 del 23 luglio 2021, che ha differito il termine dal 31 luglio al 31 dicembre; 

- tuttavia l'art. 7, comma 2, del d.l., verosimilmente perché la proroga si poneva a ridosso della scadenza del termine, prevede che «le disposizioni di cui all'articolo 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, e all'articolo 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge n. 137 del 2020 NON si applicano ai procedimenti per i quali l'udienza di trattazione è fissata tra il 1° agosto 2021 e il 30 settembre 2021»(la normativa pandemica al link)

Ciò posto, a fronte di un'udienza fissata con provvedimento del 30 giugno 2021 per il successivo 3 agosto, la sezione feriale della Suprema Corte ha precisato che  <<durante il periodo di sospensione feriale dei termini e per l'intero mese di settembre, i giudizi di cassazione SI SVOLGERANNO NELLE FORME ORDINARIE, quindi con la presenza delle parti all'udienza ex art. 127 e alla pubblica udienza ex art. 614 cod. proc. pen. senza necessità che le parti richiedano la discussione orale entro il termine perentorio di venticinque giorni liberi prima dell'udienza>>.

La Corte ha peraltro precisato che <<il riferimento letterale ai procedimenti le cui udienze di trattazione «siano fissate» in detto periodo induce il Collegio a ritenere che, indipendentemente dalla data del decreto di fissazione d'udienza, la deroga riguardi sia i procedimenti in cui l'udienza sia stata già disposta al momento di entrata in vigore del decreto-legge, sia quelli per i quali l'udienza sia individuata successivamente, purché collocata nei due mesi indicati>>. 

Analogo asserto all'evidenza vale per i giudizi di appello pandemici, la cui disciplina ex articolo 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge n. 137 del 2020 costituisce oggetto di esplicita deroga, secondo l'art. 7 comma 2, del d.l. di proroga. 

Sullo sfondo resta una sensazione di caos normativo.