Sezioni

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24 giugno 2022

L'acquirente di droga non ha diritto al silenzio e non gli vanno rivolti gli avvisi di cui all'art. 64 comma 3 c.p.p. - La Corte Costituzionale torna su una vecchia questione giuridica





La questione sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale aveva interessato, in passato, le Sezioni Unite, sul rilevato contrasto tra le Sezioni semplici. Alcune Sezioni, infatti, ritenevano che l'acquirente di stupefacente, in quanto potenzialmente indagabile, avesse diritto agli avvisi previsti dagli artt. 63 e 64 c.p.p. ed avesse diritto al silenzio sicché, ove assunto a sommarie informazioni in assenza degli avvisi, l'atto era inutilizzabile e non poteva costituire prova del suo favoreggiamento personale allo spacciatore. Di diverso avviso un altro orientamento giurisprudenziale, poi accolto dalle SS.UU. con la sentenza 21832/2007. 

Nella decisione delle Sezioni Unite aveva giocato un ruolo determinante il novum legislativo che aveva frattanto trasformato in illecito amministrativo l'acquisto di una modica quantità di stupefacente per uso personale.

La questione è ora stata sollevata con incidente costituzionale dal Tribunale di Firenze in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 [recte: art. 117, primo comma,] della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, censurandolo «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi indicati debbano essere rivolti alla persona cui sia contestato l’illecito amministrativo di cui all’art. 75 co. 1 DPR 309/1990, o che sia già raggiunta da elementi indizianti di tale illecito, allorché la stessa sia sentita in relazione ad un reato collegato ai sensi dell’art. 371, co. 2, lettera b) c.p.p.».

Il rimettente deve decidere in ordine alla convalida dell’arresto e all’applicazione di misure cautelari nei confronti di A. S., imputato del delitto di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per le condotte di cessione a titolo oneroso di 1,57 grammi di hashish a D.M. P. e di detenzione per finalità di spaccio di 11,13 grammi della medesima sostanza stupefacente.

Riferisce il giudice a quo che l’imputato è stato arrestato in flagranza di reato, con l’accusa di avere ceduto dell’hashish a D.M. P., e che quest’ultimo, nel rendere sommarie informazioni alla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 351 cod. proc. pen., ha confermato di avere acquistato la sostanza stupefacente da A. S.

Quanto alla rilevanza delle questioni sollevate, il rimettente espone che, benché già gravemente indiziato dell’illecito amministrativo di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, D.M. P. è stato sentito dalla polizia giudiziaria senza ricevere gli avvisi che l’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. prescrive siano rivolti alla persona sottoposta a indagini.

Il giudice a quo osserva che la garanzia prevista dall’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. comporta, in caso di omissione degli avvisi di cui alle lettere a) e b), l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona interrogata; nonché, in caso di omissione dell’avviso di cui alla lettera c), l’inutilizzabilità erga alios delle dichiarazioni rese su fatti che concernono la responsabilità di altri (art. 64, comma 3-bis, cod. proc. pen.).

L’art. 63 cod. proc. pen., sottolinea il giudice rimettente, prevede poi «in caso di dichiarazioni autoincriminanti rese nel corso dell’audizione da un soggetto non imputato e non sottoposto alle indagini […] l’inutilizzabilità contro il predetto soggetto delle dichiarazioni rilasciate prima dell'interruzione dell’esame» (è citato il comma 1) e «l’inutilizzabilità anche nei confronti dei terzi delle dichiarazioni rese, qualora la persona dovesse essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini» (è citato il comma 2).

Tali garanzie, tuttavia, non sarebbero applicabili all’audizione della persona cui sia stato contestato un illecito passibile di sanzione amministrativa di natura punitiva – quale dovrebbe ritenersi quello previsto dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti – o nei confronti della quale siano emersi indizi di commissione di un tale illecito, allorché questa «sia sentit[a] in relazione ad un fatto collegato ai sensi dell’art. 371, co. 2, lettera b) c.p.p.». 

Nel caso di specie, dunque, a dispetto dell’«evidente […] collegamento probatorio» tra l’illecito amministrativo di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, commesso da D.M. P., il quale avrebbe acquistato della sostanza stupefacente per farne uso personale, e il reato di cui all’art. 73, comma 5, del medesimo testo normativo, contestato ad A. S. per avere ceduto a D.M. P. tale sostanza, le dichiarazioni dell’acquirente, raccolte senza che questi abbia ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., sarebbero pienamente utilizzabili nel giudizio a carico di A. S.

Solo ove l’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che gli avvisi in questione siano rivolti anche alla persona cui sia stato contestato l’illecito amministrativo previsto dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, o nei cui confronti siano emersi indizi della commissione di tale illecito, potrebbe affermarsi «ai sensi degli articoli 63 e 64 co. 3-bis l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nei confronti dell’attuale imputato»; dichiarazioni che costituirebbero uno dei principali elementi a carico di A. S. nel giudizio in ordine alla convalida dell’arresto e all’applicazione di misure cautelari.

Di qui la rilevanza delle questioni.

Quanto alla loro non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene anzitutto che le sanzioni previste dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti siano di natura punitiva secondo i cosiddetti criteri Engel.

La finalità delle sanzioni sarebbe anzitutto repressiva e non meramente preventiva, atteso che il ritiro della patente di guida e del certificato di idoneità tecnica del ciclomotore prescindono sia dall’intervenuta assunzione della sostanza stupefacente acquistata – e, dunque, dalla sussistenza di un pericolo immediato per l’incolumità pubblica – sia dall’accertamento di infrazioni alle norme sulla circolazione stradale. Del resto, la natura punitiva delle sanzioni di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti sarebbe stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza di legittimità (è citata Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 14 ottobre 2010, n. 21236).

Le sanzioni previste dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti sarebbero inoltre «plurime, variegate e irrogabili anche cumulativamente», oltre che di elevata afflittività. Il loro carattere punitivo si coglierebbe peraltro anche in relazione alla sola sanzione della sospensione della patente, alla luce della sentenza n. 68 del 2021 di questa Corte, che ha qualificato come punitiva la sanzione amministrativa della revoca della patente di guida, in conformità a numerose pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, ivi puntualmente citate.

L’illecito di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti sarebbe poi sempre correlato al delitto di cessione di stupefacenti, severamente punito sul piano penale, sicché i due illeciti – amministrativo e penale – sarebbero accumunati dall’intenzione del legislatore di reprimere il traffico di stupefacenti, venendo dunque ad assumere anche il primo «una forte connotazione dissuasiva».

Alla luce della natura punitiva della sanzione di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, la mancata estensione del disposto dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. alla persona accusata o sospettata di avere commesso il relativo illecito amministrativo violerebbe le garanzie costituzionali poc’anzi enumerate.

Vulnerato sarebbe anzitutto il diritto di difesa ex art. 24 Cost., di cui il diritto al silenzio costituisce corollario essenziale (è citata l’ordinanza n. 117 del 2019 di questa Corte). Tale diritto dovrebbe essere riconosciuto anche nei procedimenti amministrativi preordinati all’irrogazione di sanzioni amministrative di natura punitiva, coerentemente con la progressiva estensione a queste ultime di larga parte dello «statuto costituzionale» delle sanzioni penali (è citata la sentenza n. 68 del 2021).

D’altra parte, il mancato riconoscimento del diritto al silenzio in queste ipotesi «parrebbe irragionevole e quindi contrastante con l’art. 3 Cost.».

Si profilerebbe altresì anche una lesione dei principi del giusto processo, di cui all’art. 111 Cost., atteso che «il diritto al silenzio è riconosciuto non solo per salvaguardare la libertà e dignità del soggetto cui le domande siano rivolte, ma anche per assicurare la genuinità delle dichiarazioni rese, che potrebbe essere messa in pericolo dall’esercizio di pressioni da parte dell’autorità nei confronti del soggetto esaminato». Negare il diritto al silenzio «sulla base della mera distinzione formale tra illecito penale e illecito amministrativo contestato al soggetto non imputato da esaminare» non risponderebbe «ad un criterio di ragionevolezza […] ai fini della genuinità degli elementi di prova forniti dal soggetto costretto a rendere dichiarazioni», con conseguente violazione, ancora una volta, dell’art. 3 Cost.

La disposizione censurata contrasterebbe con l’art. 111 Cost. anche sotto il profilo della lesione del principio della «parità delle armi» nell’eventuale successivo giudizio di impugnazione della sanzione amministrativa punitiva.

Sarebbe inoltre vulnerato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, atteso che – come ricordato da questa Corte nell’ordinanza n. 117 del 2019 – il diritto al silenzio si colloca «al cuore della nozione di “equo processo” proclamata dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU» e si applica anche a chi sia incolpato di un illecito passibile di sanzioni amministrative di natura punitiva, declinandosi nel diritto «a non essere obbligato a fornire all’autorità risposte dalle quali potrebbe emergere la propria responsabilità, sotto minaccia di una sanzione in caso di inottemperanza».

Tali considerazioni varrebbero senz’altro in relazione all’illecito di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, atteso che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’acquirente di sostanza stupefacente per uso personale che si rifiuti di fornire alla polizia giudiziaria informazioni sulle persone da cui ha ricevuto la sostanza stessa può essere chiamato a rispondere del delitto di favoreggiamento personale, rispetto a cui l’operatività dell’esimente di cui all’art. 384 del codice penale è ammessa con «requisiti, limiti e condizioni tanto stringenti da escluderne di fatto l’operatività» (sono citate Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenze 11 marzo 2015, n. 12934; 8 marzo 2013, n. 23324; 13 luglio 2007, n. 30535).

Sarebbe infine violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14, paragrafo 3, lettera i), PIDCP, secondo cui «ogni individuo accusato di un reato ha diritto, in posizione di piena eguaglianza, come minimo alle seguenti garanzie: [...] g) a non essere costretto a deporre contro sé stesso od a confessarsi colpevole». Tale disposizione dovrebbe essere interpretata in senso estensivo, in modo da abbracciare anche condotte passibili di sanzioni amministrative punitive.

Il pieno riconoscimento del diritto al silenzio anche rispetto all’illecito di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti comporterebbe l’estensione del diritto dell’accusato a ricevere gli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. E invero, «ove si riconoscesse il diritto al silenzio, ma non si imponesse all’autorità che procede all’audizione di avvisare l’interessato in ordine a tale diritto, lo si priverebbe in sostanza di effettività», considerato che l’interessato non sarebbe neppure assistito da un difensore che potrebbe renderlo edotto di tale facoltà.

Non sarebbe infine possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, volta ad estenderne l’ambito applicativo alla persona accusata o indiziata dell’illecito di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, alla luce del tenore letterale dell’art. 64 e della giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto (sono citate Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 9 ottobre 2014-20 gennaio 2015, n. 2441; sezione sesta penale, sentenza 19 settembre 2013, n. 39981; sezione sesta penale, sentenza 10 ottobre 2008, n. 40586; sezioni unite penali, sentenza 22 febbraio 2007, n. 21832). 

Si renderebbe dunque necessario il promovimento dell’incidente di costituzionalità, da disporre previo ordine di liberazione dell’interessato, stante l’impossibilità di rispettare il termine di legge per la convalida dell’arresto (è citata la sentenza n. 54 del 1993 di questa Corte).

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 148/2022 (al link) ha dichiarato non fondate le questioni con questo dispositivo

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP), dal Tribunale ordinario di Firenze con le ordinanze indicate in epigrafe.