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16 agosto 2022

Violenza domestica e di genere: è sufficiente modificare le norme del codice di rito ? di Maria Rosaria Perricone*


 



Il legislatore in tempi recenti, anche sulla scorta di una elevata attenzione mediatica, ha approntato delle modifiche normative volte a contenere la cd. violenza domestica e di genere; tuttavia tali interventi, pur apprezzabili per il lor carattere talvolta innovativo, non sempre sono stati preceduti da una rigorosa analisi del relativo fenomeno sociale e delle problematiche ad esso sottese.

Anche il cd. Codice Rosso di cui alla L. 69/2019, con un atteggiamento di parziale sfiducia sul pregresso operato di pubblici ministeri e forze dell’ordine, si è prevalentemente soffermato sulla tempistica per lo svolgimento delle indagini, dettando dei tempi rigidi per l’istruttoria. Inoltre il legislatore ha voluto imprimere un segnale punitivo attraverso l’innalzamento, oltre che dei minimi, anche dei massimi edittali di taluni reati, determinando così un nuovo ambito di competenze per il Tribunale in composizione collegiale, ad oggi “intasato” dai procedimenti di cui all’art. 572 co II c.p., con conseguente aumento della durata dei processi.

Tuttavia non si è ancora proceduto ad una rivisitazione organica del tessuto normativo creatosi a seguito dell’introduzione delle modifiche legislative, uniformando i mezzi di tutela ordinamentali; inoltre non sono state avviate riforme, non “a costo zero”, che prevengano il fenomeno nella sua più ampia dimensione sociale.

Sul primo versante si rileva che alcune situazioni di gravi pregiudizio per le persone offese sono ancora rimaste sguarnite di tutela: sul punto ad esempio, non essendo prevista una deroga ai limiti edittali di cui all’art. 280 c.p.p. per l’applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa, la misura di cui all’art. 282 ter c.p.p. non può essere richiesta nel caso di reati considerati “meno gravi”, commessi ai danni di persone non conviventi (ad es. l’ex compagna), ma che spesso degenerano in ulteriori condotte pregiudizievoli per la vittima: si pensi all’ipotesi di minacce commesse con l’uso di armi o ancora in presenza di lesioni di non lieve entità, che tuttavia non superano la soglia dei 40 giorni di prognosi ovvero non risultano comunque aggravate ai sensi dell’art. 576 c.p.

Al riguardo si potrebbe agevolmente superare tale criticità inserendo anche nell’art. 282 ter c.p.p. la stessa previsione dell’ultimo comma dell’art. 282 bis c.p.p., in materia di allontanamento dalla casa familiare, che permette l’applicazione di tale misura, per determinati reati, anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall'articolo 280 c.p.p.

Con riferimento poi alla trattazione dei delitti con violenza domestica o di genere, mentre è stata scandagliata la fase delle indagini, al contrario non è stato oggetto di analisi cosa accade dopo, ovvero nel corso del dibattimento, perno centrale di tutto il procedimento penale.

Al riguardo ad esempio di sovente si assiste nelle aule di giustizia al fenomeno della cd. ritrattazione delle persone offese, che inficia la tenuta dibattimentale delle ipotesi di reato ipotizzate.

Escludendo il fenomeno fisiologico di una rivisitazione dei fatti, magari originariamente esposti in un momento di concitazione a seguito dell’intervento delle FF.OO., ciò che invece deve destare attenzione è una ritrattazione “patologica”, che di solito si verifica già a partire dall’applicazione nei confronti dell’indagato di una misura cautelare.

Il netto ridimensionamento delle dichiarazioni rese dalle vittime molto spesso è infatti dettato da un percorso di auto-colpevolizzazione della persona offesa, che conduce la predetta a riavvicinarsi al maltrattante, sminuendo la portata delle sue condotte.

Alla luce di tale evidenza, pertanto, i motivi della ritrattazione devono essere attentamente vagliati in tutte le fasi del procedimento, al fine di verificare se esse siano o meno “patologici”; poiché ad esempio dovuti ad esigenze economiche, ovvero determinati da meccanismi di “dipendenza” psicologica della persona offesa al maltrattante, frutto del suo stesso stato di sottomissione.

 Con riferimento a tale problematica potrebbe essere efficace pertanto una modifica all’art. 500 co. IV c.p.p.: al riguardo infatti una recente giurisprudenza, più attenta a tali dinamiche, ha tentato di interpretare estensivamente tale disposto normativo, affermando che, in caso riavvicinamento della vittima al maltrattante, è legittima l’acquisizione in dibattimento delle dichiarazioni dalla stessa in precedenza rese.

Con riferimento poi al diverso versante dell’analisi del fenomeno della violenza domestica, si ritiene che il cd. “Codice rosso” abbia gettato le basi per una più ampia trattazione delle problematiche sottese, senza tuttavia in alcuni casi essere supportato da successive norme di attuazione, in grado di permettere una applicazione efficace di tali previsioni.

Si pensi ad esempio alla sospensione condizionale della penale, subordinata alla partecipazione a programma di recupero per gli autori dei reati di maltrattamenti, atti persecutori etc.: al riguardo si rileva infatti che gli enti che organizzato tali percorsi non  abbisognano di specifiche certificazioni per attestare il carattere “scientifico” dei loro programmi; a ciò si aggiunga che tali percorsi a pagamento non risultano essere accessibili ad imputati meno abbienti, creandosi così delle diseguaglianze nelle possibilità di recupero tra condannati per i medesimi reati. 

Infine si ritiene che, oltre ad eventuali modifiche al codice penale, per combattere il fenomeno della violenza domestica e di genere è assolutamente necessario intervenire in maniera collaterale con riforme che riguardano la possibilità di accesso ai servizi che indirettamente sono fondamentali per arginare il fenomeno.

Al riguardo, come è noto, una cospicua percentuale delle violenze domestiche (maltrattamenti o estorsioni intra-familiari) sono commesse da soggetti affetti da dipendenze, che sfuggono al circuito del sistema sanitario. A ciò si aggiunga che numerosi imputati soffrono di patologie psichiatriche che determinano o comunque incidono sulle loro condotte: tuttavia per tali soggetti risulta difficile reperire le strutture (REMS o CTA) per dare esecuzione alle misure di sicurezza, disposte nei loro confronti.

Pertanto la “riforma che vorrei” non si deve arrestare al codice penale o a quello di rito, ma deve andare ben al di là delle relative previsioni, per arginare un fenomeno che, come attestano i dati percentuali, non accenna a diminuire ma si presenta in costante aumento. 

 (*) Maria Rosaria Perricone Laureata presso l’Università degli Studi di Palermo, attualmente è Magistrato ordinario con funzioni di sostituto procuratore, presso la Procura della Repubblica di Palermo (attualmente in servizio presso il IV dipartimento, con competenza sui reati con violenza domestica e di genere).