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28 ottobre 2022

LA COMUNICAZIONE DEGLI ORGANI GIUDIZIARI - di Massimiliano Annetta (*)




È stato edito il volume DIRITTO DELL'INFORMAZIONE E DELLA COMUNICAZIONE. IL testo qui pubblicato è tratto dal volume “Temi di diritto dell’informazione e della comunicazione, a cura di Elda Brogi e Marco Mariani”, Key Editore.

Su gentile concessione dell'Autore, pubblichiamo il capitolo XIV che affronta il tema della comunicazione degli organi giudiziari.


1. Premessa. 

Il sistema mass-mediatico ha, da almeno un trentennio, modificato in radice il sistema della giustizia penale nel nostro paese. 

Lo schema è semplice quanto ripetitivo. Le notizie delle indagini entrano attraverso le pagine dei giornali e, ancor più, attraverso gli schermi delle televisioni nelle case degli italiani. Il flusso informativo è unilaterale: le ipotesi di chi accusa assurgono dogmaticamente al rango di certezze, additando colpevoli e reclamando castighi. Il pubblico, brandendo l'arma dei social network, fa da grancassa a condanne che non accettano processo.  

Non occorre essere esperti di comunicazione per comprendere che questa sorta di rappresentazione teatrale, sempre uguale a sé stessa, niente ha a che fare con l'informazione giudiziaria: si tratta di puro e semplice intrattenimento e dello show business segue l'unica regola, ovvero la tirannia dell'indice d'ascolto. Tuttavia, ben più ancorati alla realtà di questo infotainment a base forense sono le conseguenze di tale continua osmosi tra le aule dei tribunali e gli studi televisivi. Il processo celebrato in favore di telecamera non conosce garanzie, a partire dalla presunzione di innocenza, e tutto travolge a cominciare dall’imparzialità e dall’autonomia della giurisdizione, inevitabilmente chiamata a confrontarsi - e spesso a risultare sconfitta nello scontro - con il pregiudizio mass-mediatico, in forza del quale l'opinione pubblica si pretende unico legittimo giudice. 

In conclusione, nelle pagine che seguono si indagherà se il principio incardinato nell'articolo 101 della Costituzione - norma che recita: «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» - risulti effettivo, ovvero, in forza della evidente influenza della agorà mediatica, occorra porsi alla ricerca di nuovi equilibri costituzionalmente sostenibili. 

2. Quadro normativo. 

Il tema della comunicazione degli organi giudiziari è strettamente connesso alla disciplina della pubblicazione degli atti del processo penale ed alla pubblicità del processo. Si tratta di due settori normativi del diritto processuale penale che impongono numerose riflessioni critiche sullo stretto rapporto che lega la giustizia alla comunicazione mediatica. 

Prima di esaminare in dettaglio il quadro normativo ed i profili che riguardano il sistema mass-mediatico e la comunicazione giudiziaria, occorre illustrare al lettore quale è il complessivo contesto del nostro sistema processuale. 

Nel diritto processuale penale, si distinguono sistemi inquisitori e sistemi accusatori. Nel primo, che non vede al centro la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, il processo e tutti gli atti sono segreti e nessuna informazione di ciò che accade può trapelare all’esterno; l’inquisitore deve agire nell’ombra e gli atti del processo devono rimanere un fatto segreto che riguarda il giudice e l’imputato (quod non est in actis non est in mundo; resta, non per caso, il noto brocardo). 

Nel sistema accusatorio, quale è il nostro dall’introduzione del codice Vassalli, le udienze sono pubbliche e gli atti possono essere pubblicati; ciò costituisce una fondamentale garanzia innanzitutto a tutela dell’individuo, poiché il processo non è più un fatto privato che riguarda solo l’imputato, bensì la generalità indistinta dei consociati. L’opinione pubblica, infatti, può prendere direttamente parte al processo e ha la possibilità di verificare che tutte le garanzie processuali che spettano all’imputato siano rispettate, affinché ciò avvenga nei confronti di tutti. 

Altra caratteristica tipica del sistema accusatorio è la regola di giudizio: laddove il giudice non disponga di prove che consentano di affermare la penale responsabilità dell’imputato, oltre ogni ragionevole dubbio, quest’ultimo dovrà essere assolto. Il processo accusatorio, infatti, accetta il rischio di assolvere un colpevole, piuttosto che di condannare un innocente e, dunque, nel dubbio impone al giudice di assolvere l’imputato. 

È evidente che in un sistema di questo tipo non possono che esistere due tipi di verità: quella storica - di cui sono a conoscenza soltanto l’imputato e la persona offesa laddove presente - e quella processuale. Il processo è, infatti, una ricostruzione di un fatto storico attraverso l’utilizzo di prove o indizi. Ciò che viene ricostruito non necessariamente corrisponderà a quanto è realmente accaduto nella realtà concreta. Proprio la resistenza a comprendere tale semplice verità è il motore primo della distorsione mass-mediatica. 

Se, come qualcuno ha detto, non esiste nessuna verità assoluta nel processo (1), ciò legittima l’opinione pubblica ad esprimere la sua personalissima opinione ed a dividersi in “colpevolisti” e “innocentisti”, a prescindere di ciò che accade nelle aule di giustizia. Questo meccanismo – per vero assai perverso – rischia di influenzare anche la stessa amministrazione della giustizia, poiché il processo procede per due vie parallele, quella dei media e quella dei tribunali e, come analizzeremo in seguito, è forte il rischio che la prima influenzi la seconda. 

A ciò si aggiunga che la stessa conformazione del nostro sistema delle impugnazioni può consentire che si vengano a produrre situazioni in cui anche le stesse verità processuali si moltiplichino, fino a contraddirsi reciprocamente. Ciò è accaduto, ad esempio, nei più recenti casi mediatici, quali il caso Meredith, quello di Garlasco e, infine, il caso Bossetti, nei quali assoluzioni, condanne ed annullamenti della Corte di Cassazione si sono susseguiti con trama degna di un romanzo. 

2.a. La pubblicazione degli atti del processo. I divieti previsti dall’art. 114 c.p.p. 

La disciplina della pubblicazione degli atti processuali è contenuta nell’art. 114 c.p.p. Si tratta di una norma che contempera le esigenze di segretezza della fase delle indagini preliminari, nonché delle udienze in camera di consiglio2, con il principio della pubblicità del processo. 

La norma non riguarda la segretezza interna degli atti, bensì quella esterna, che è concetto ben più ampio e distinto. Quando si parla di segretezza interna si fa riferimento al divieto imposto a taluni soggetti rispetto alla conoscenza di taluni atti processuali. Ad esempio, ciò accade per tutti i soggetti diversi dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari. In questa fase, infatti, gli atti non sono conoscibili dall’indagato, il quale può accedere al fascicolo solo quando le indagini vengono concluse.

La segretezza esterna, di contro, è proprio espressione del divieto di pubblicazione degli atti del processo stesso. 

Laddove la norma parla di “pubblicazione”, il termine deve essere inteso come riferito alla diffusione ad “ampio raggio”, attraverso la stampa o qualsiasi altro mezzo, dell’atto processuale; non basta la mera rivelazione del contenuto dell’atto e dell’esistenza dell’atto perché sia violato il divieto imposto dalla norma in esame. Occorre, inoltre, precisare che il divieto di pubblicazione attiene non al contenuto dell’atto3, ma al documento in sé (ad es. il verbale di sommarie informazioni testimoniali rese da una persona informata sui fatti). Il segreto imposto sul contenuto è, invece, essenzialmente legato alla fase delle indagini preliminari e, quindi, si tratta di un segreto interno espresso dagli artt. 326 e ss. c.p.p. 

Il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114 c.p. riguarda, al primo comma, gli atti delle indagini preliminari e, nei commi successivi, gli atti non coperti da segreto investigativo. Ebbene, gli atti delle indagini preliminari, non solo sono segreti, ma ne è ovviamente vietata la pubblicazione (art. 114, comma 1, c.p.p.); in questo caso, infatti, il divieto di pubblicazione costituisce un rafforzamento dello stesso segreto investigativo (se è vietato conoscere l’atto nel suo contenuto, è evidente che ne è vietata anche la sua pubblicazione). Non sono soggetti a questa regola alcuni atti del Giudice per le indagini preliminari e, nello specifico, gli atti dell’incidente probatorio (che costituisce un’anticipazione del contradditorio dibattimentale) e l’ordinanza applicativa di una misura cautelare, dopo che questa sia stata eseguita o notificata all’indagato; quest’ultima è, peraltro, l’ipotesi di pubblicazione più frequente nella prassi. Parimenti, non sono soggetti al divieto di pubblicazione gli atti ai quali l’indagato partecipa personalmente, come, ad esempio l’interrogatorio. 

Una volta concluse le indagini preliminari, sebbene gli atti non siano più coperti da segreto investigativo, il divieto di pubblicazione del testo dell’atto continua ad applicarsi (art. 114, comma 2, c.p.p.), poiché essi potranno essere pubblicati solo dopo la conclusione della fase “filtro” del processo penale, ovverosia l’udienza preliminare. 

Quando si procede con la fase dibattimentale4, in cui le prove sono assunte in contraddittorio5, il codice prevede una disciplina volta a garantire che il Giudice non venga a conoscenza degli atti contenuti nel fascicolo dell’organo dell’accusa, dei quali è, pertanto, vietata la pubblicazione. Al contempo, il legislatore prevede il divieto di pubblicazione degli atti del fascicolo del giudice (c.d. fascicolo dibattimentale), poiché si vuole evitare che i testimoni ancora da esaminare in dibattimento vengano influenzati da ciò che hanno riferito i testi già sentiti; il codice, infatti, obbliga le persone indicate nella lista testimoniale di una delle parti che non siano ancora state sentite a non assistere alla deposizione degli altri testi (art. 114, comma 3, c.p.p.). 

Questo divieto trova solo un’eccezione; possono essere pubblicati gli atti utilizzati per le contestazioni testimoniali, ovvero quell’atto che contiene una dichiarazione già resa dal testimone e che viene utilizzato da una delle parti per far emergere la contraddittorietà tra quanto riferito fuori dall’aula “ieri” dal teste con quanto è oggetto di deposizione resa “oggi” dal medesimo. 

È sempre vietata, comunque ed in ogni caso, salvo che trascorrano dieci anni e previa autorizzazione del Ministro della Giustizia, la pubblicazione di atti del processo celebrato a porte chiuse (art. 114, comma 4, c.p.p.). Il processo viene celebrato a porte chiuse in casi particolari che richiedono maggiore riservatezza, perché, ad esempio deve essere sentito un minore o altro soggetto particolarmente vulnerabile o perché lo impongono ragioni di sicurezza. 

Il comma 5 della disposizione in esame prevede, inoltre, che il divieto di pubblicazione possa essere imposto dal giudice in tutti i casi in cui non si proceda con il dibattimento (e, quindi, nei casi in cui l’imputato abbia scelto di ricorrere a riti alternativi, quali il c.d. “patteggiamento” ovvero il rito abbreviato) e si tratti di atti che possano offendere il buon costume, comportare la diffusione di notizie coperte dal segreto di Stato ovvero arrecare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni e delle altre private. 

Infine, i commi 6 e 6 bis della norma prevedono il divieto di pubblicare l’immagine di particolari categorie di soggetti ovverosia i minorenni fino al compimento della maggiore età e gli imputati privati della loro libertà personale con le manette ai polsi. La prima delle due disposizioni – peraltro, estesa anche alle generalità del minorenne - ha lo scopo di tutelare la riservatezza di soggetti particolarmente vulnerabili, che, per il solo fatto di partecipare al processo, rischiano di subire un trauma nel soro sviluppo psicofisico. L’ordinamento appresta, pertanto, una tutela particolarmente incisiva, volta a tutelare la riservatezza e la dignità del minore, che potrebbe vedere riprodotto il suo volto laddove ne fosse consentita la pubblicazione, con evidenti ripercussioni psicologiche. La norma che vieta la pubblicazione dell’imputato detenuto con le manette ai polsi ovvero sottoposto ad altro mezzo di coercizione fisica ha lo scopo di tutelare, non già la riservatezza, bensì la dignità umana della persona sottoposta a processo. Ed infatti, la riproduzione della immagine dell’imputato in uno stato di privazione della libertà personale è sicuramente denigrante e costituirebbe, laddove fosse consentita, un supplizio “gratuito” ed aggiuntivo alla pena che gli potrebbe essere irrogata una volta concluso il processo. Quest’ultima tematica è stata, peraltro, oggetto di recenti interventi normativi, volti a rafforzare il principio della presunzione di innocenza (cfr. infra, par. 2. d). 

2. b. Le sanzioni previste per la violazione del divieto ex art. 115 c.p.p. 

L’ordinamento, laddove sia violato il divieto di pubblicazione, reagisce prevedendo due diverse tipologie di sanzioni: una disciplinare, prevista dall’art. 115 c.p.p. e una penale, prevista dall’art. 684 c.p.

La legge delega al codice di procedura penale, all’art. 2, criterio direttivo n. 71., imponeva al legislatore codicistico di prevedere apposite sanzioni «per la violazione del segreto o del divieto di pubblicazione». Nulla aggiungeva sulla tipologia di sanzioni che dovevano essere introdotte, che potevano essere tanto di tipo processuale (inutilizzabilità dell’atto ovvero nullità), quanto di tipo sostanziale, quali pene e sanzioni disciplinari ovvero amministrative. 

Nella stesura delle norme del codice, si è scelto di inserire solo una disposizione che prevedesse una generica responsabilità disciplinare per coloro che pubblichino atti del procedimento penale e siano dipendenti dello Stato o altri enti pubblici ovvero persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato; vi rientrano, pertanto, gli operatori di giustizia, come i magistrati, gli appartenenti alla polizia giudiziaria, il personale si segreteria e di cancelleria, i difensori, nonché, se professionisti, i periti ed i consulenti tecnici e, in primis, i giornalisti professionisti nonché i giornalisti pubblicisti, ma non anche coloro che svolgono un’attività occasionale e non retribuita. 

La norma nulla prevede in termini di sanzioni applicabili, né in punto di procedimento da applicare; lascia alla discrezionalità della pubblica amministrazione ovvero del singolo ordine professionale il compito di disciplinare la materia. I profili di responsabilità disciplinare per la pubblicazione di atti del procedimento penale sono, in sostanza, affidati ad una giustizia domestica. 

Occorre evidenziare che il divieto, in questo caso, si estende non soltanto agli atti per cui è imposto il divieto di pubblicazione dalla legge (art. 114 c.p.p.), ma anche a tutti gli atti coperti dal segreto investigativo, sia perché la tipologia di atto lo imponga, sia perché l’autorità giudiziaria disponga la secretazione dell’atto medesimo (ipotesi prevista dall’art. 329 c.p.p.). 

Al fine di assicurare l’effettività delle sanzioni conseguenti alla responsabilità disciplinare, l’art. 115, comma 2, c.p.p., prevede che il pubblico ministero possa trasmettere all’autorità titolare del potere disciplinare un’informativa. Resta, ovviamente, in capo alla singola autorità il compito – e la scelta – di perseguire disciplinarmente la pubblicazione di atti del processo penale di cui è vietata la pubblicazione. Sul punto, pare appena il caso di sottolineare che si è evidenziato6come le sanzioni disciplinari in esame non siano state, sostanzialmente, mai applicate e che, quindi, la norma sia rimasta praticamente priva di applicazione concreta. 

2. c. Il reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale previsto e punito dall’art. 684 c.p. 

La tutela penale apprestata dall’ordinamento per le violazioni del divieto di pubblicazione degli atti del procedimento penale è contenuta nell’art. 684 c.p. La norma punisce, con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da 51 euro a 258 euro, colui che pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione. La volontà del legislatore del 1930 è stata ben espressa nella Relazione Ministeriale al Progetto preliminare del codice penale, in cui si afferma che l'art. 684 c.p. ha la funzione di «far assolutamente cessare la riprovevole e pericolosa speculazione giornalistica sui procedimenti penali, la quale, rivelando ciò che interessa non sia propalato, mette sull'avviso i delinquenti e può frustrare l'azione dell'autorità» (così Relazione al codice penale, VIII, 35). Nell’ordinamento fascista non poteva che essere questo l’unico scopo della fattispecie in esame; il regime, infatti, non vedeva di “buon occhio” l’attività di cronaca giudiziaria, intesa come attività di controllo su un potere dello Stato. 

L’oggetto della tutela, può oggi dirsi – più correttamente - essere costituito dall’interesse al corretto funzionamento della giustizia e dalla riservatezza e reputazione dei soggetti comunque coinvolti nella vicenda processuale. 

Secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata7, lo scopo della norma è oggi, più specificatamente, rivolto a dare attuazione alla presunzione di innocenza, di cui all’art. 27, comma 2, Cost. 

Il reato in esame si applica a chiunque, anche se, il campo di applicazione più evidente è costituito dai giornalisti. 

La norma trova applicazione nel caso in cui siano violate le disposizioni di cui all’art. 114 c.p.p. In sostanza, quindi: 

1) il reato sussiste, non già quando sia violato il semplice segreto investigativo, ma quando sia pubblicato e, dunque, diffuso l’atto del procedimento penale; 

2) sono pubblicabili gli atti conosciuti dall’indagato, quali l’ordinanza applicativa di una misura cautelare e l’informazione di garanzia debitamente notificati alla persona sottoposta alle indagini; 

3) il divieto riguarda solo l’atto e non il suo contenuto e, per tale ragione, non si estende ai fatti accaduti o alle dichiarazioni rilasciate da una persona coinvolta nel processo. Sotto quest’ultimo aspetto, a titolo esemplificativo, si evidenzia come il contenuto delle dichiarazioni rese dal teste oculare di un fatto, rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria non è pubblicabile, ma se lo stesso testimone riferisce direttamente al giornalista quanto visto o appreso, il contenuto della informazione sarà senz’altro pubblicabile. 

La condotta consiste nella pubblicazione dell’atto del procedimento penale, con qualsiasi forma avvenga, compresa, in primo luogo, la stampa. Quanto alla pubblicazione di “documenti” - ovverosia di quel contenuto del fascicolo che non consista in atti emessi dall’autorità giudiziaria -, questi rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 684 c.p. ove abbiano origine nell'azione diretta o nell'iniziativa del pubblico ministero o della polizia  giudiziaria, mentre, non rientrano nel divieto di pubblicazione i documenti che abbiano origine autonoma, privata o pubblica, di carattere extraprocessuale, che siano entrati nel procedimento per disposta acquisizione; questi ultimi, pertanto, possono essere sempre pubblicati. 

Nel caso in cui il giornalista pubblichi uno degli atti per cui è imposto il divieto di cui all’art. 114 c.p.p., non può mai applicarsi la causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, riconducibile, nella specie, all’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. Come noto, quest’ultima disposizione costituzionale garantisce la libertà di stampa ed è, quindi, norma di garanzia essenziale per la professione di giornalista. Tuttavia, in un’ottica di contemperamento con interessi contrastanti, ovverosia, quelli costituenti oggetto di tutela nell’ambito di cui all’art. 684 c.p., la causa di giustificazione non può trovare applicazione, poiché, il legislatore, sanzionando la pubblicazione di atti del procedimento penale di cui all’art. 114 c.p.p., ha già espresso una sorta di contemperamento: la libertà di manifestazione del pensiero cede di fronte all’esigenza di tutelare la riservatezza delle persone coinvolte nel procedimento, la presunzione di innocenza ed il segreto investigativo. 

Potrebbe accadere, e nella prassi accade, che la pubblicazione degli atti del procedimento penale sia preceduta dalla trasmissione dell’atto da parte di un c.d. “operatore giudiziario”, ovverosia un magistrato, un cancelliere ovvero un soggetto appartenente alla polizia giudiziaria. In questo caso, si pone il problema di comprendere quali fattispecie possano ricorrere. Ebbene, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, in casi come quello di cui all’esempio, l’operatore giudiziario, per il fatto di aver trasmesso l’atto risponderà del più grave delitto di rivelazione di segreto d’ufficio, di cui all’art. 326 c.p., mentre, il giornalista della contravvenzione in esame10. 

Concludendo l’analisi del reato di cui all’art. 684 c.p., occorre in proposito sviluppare alcune riflessioni critiche. Il reato che abbiamo esaminato non è per nulla idoneo ad assicurare una tutela effettiva degli interessi che si prefigge di tutelare. Si tratta di una contravvenzione, ovverosia di una tipologia di reato che, oltre ad una minore gravità edittale, è pure accompagnata da una ridotta percezione di rilievo penale. Anche quoad poenam, la sanzione alternativa pari all’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da 51 euro a 258 euro, risulta del tutto priva di efficacia generalpreventiva. In sostanza, il reato de qua non produce in concreto alcuna efficacia deterrente, specie se si considera che, trattandosi di una contravvenzione punita con pena alternativa, l’imputato può sempre richiedere di essere ammesso all’oblazione, per cui pagando una somma pari alla metà del massimo dell’ammenda stabilita (pari a soli 129 euro), può estinguere il reato ed essere prosciolto. 

2 d. L’attuazione della Direttiva europea sulla presunzione di innocenza (D. Lgs. 8.11.2021, n. 188). 

Il tema della pubblicazione degli atti del procedimento penale – come è ormai chiaro al lettore – è strettamente legato alla presunzione di innocenza. Nel nostro ordinamento, l’imputato non può essere ritenuto colpevole sino a quando non sia emessa nei suoi confronti una sentenza irrevocabile di condanna. Si tratta di un principio fondamentale, direttamente previsto nella Carta costituzionale (art. 27, comma 2, Cost.), espressione di una regola di “civiltà giuridica” di qualsiasi ordinamento democratico (art. 48, par. 1, Carta dei diritti Fondamentali UE; art. 6, par. 2, CEDU). Purtroppo, troppo spesso tale principio viene obliterato attraverso la pubblicazione di atti del procedimento penale. Ciò accade, ad esempio, attraverso la diffusione mediatica del contenuto delle intercettazioni telefoniche, spesso, peraltro, pedissequamente riprodotte nelle ordinanze applicative di misure cautelari11 (atto di per sé pubblicabile). 

Ebbene, con lo scopo di arginare questo fenomeno distorsivo, seppur in ritardo rispetto al termine indicato (1° aprile 2018), con il D. Lgs. 8.11.2021, n. 188, il Governo italiano ha recepito, almeno in parte, i contenuti della Dir. 2016/343/UE, sul rafforzamento  della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo penale. L’intervento normativo, già al momento della approvazione della legge delega (L. 22 aprile 2021, n. 53) è stato caratterizzato da un acceso dibattito politico, poiché è evidente che la norma pone in contrasto due esigenze contrapposte: da un lato, quelle attinenti al diritto di cronaca giudiziaria, da altro lato, quelle relative alla presunzione di innocenza ed alla riservatezza dell’imputato. 

Il testo del decreto, come anche la direttiva, proprio allo scopo di non alimentare ulteriori tensioni con il diritto di cronaca, si applica principalmente alle autorità pubbliche e non anche ai giornalisti; in sostanza gli obblighi imposti dalle nuove disposizioni normative interessano i c.d. operatori giudiziari. 

Nello specifico, il testo del decreto si occupa delle modalità di comunicazione che devono adottare le autorità pubbliche nella stesura di taluni provvedimenti, nonché del lessico da adottare in alcuni atti del procedimento penale. 

Venendo ad esaminare le singole disposizioni, si osserva che l'art. 2, D.Lgs. n. 188/2021 al comma 1 prevede un generale divieto per le autorità pubbliche «di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l'imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili». 

Questo primo divieto, di carattere assai generale, concerne esclusivamente le dichiarazioni, scritte o orali, nelle quali l’indagato sia pubblicamente indicato come colpevole prima della emissione di una sentenza di condanna definitiva. Quale rimedio, è previsto che l'interessato possa chiedere la rettifica della dichiarazione lesiva della presunzione di innocenza all’autorità pubblica che l'ha resa. Se la richiesta è  fondata, l'autorità ha l'obbligo di provvedere immediatamente e, comunque, non oltre le successive quarantotto ore dalla ricezione della richiesta stessa (art. 2, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 188/2021). Nel caso in cui la richiesta di rettifica venga accolta, l'autorità deve procedere alla pubblicazione della stessa, «con le medesime modalità della dichiarazione o, se ciò non è possibile, con modalità idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione della dichiarazione oggetto di rettifica» (art. 2, comma 4, D.Lgs. n. 188/2021). Il rimedio è assai criticabile, poiché pare non assicurare una tutela effettiva all’indagato  imputato. Deve, infatti, considerarsi come sulla richiesta di rettifica si pronunci la stessa autorità pubblica – ovvero un organo gerarchicamente sovraordinato, ma appartenente alla stessa – che ha reso la dichiarazione lesiva della presunzione di innocenza: quis custodiet ipsos custodes? 

Assai discussa è stata la disciplina introdotta con riferimento al rapporto tra gli uffici del pubblico ministero e gli organi di informazione. L’unico soggetto della pubblica accusa che detiene il potere di esternare informazioni alla stampa è il Procuratore della Repubblica a capo dell’ufficio. Il D.Lgs. n.188/2021 ha introdotto i presupposti entro cui questo potere deve essere esercitato. È necessario che l’informazione attinente al procedimento penale: a) sia «strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini»; b) ricorrano «altre ragioni di interesse pubblico», che devono essere “specifiche” (art. 5, comma 2-bis, D.Lgs. n. 106 del 2006). 

La prima ipotesi è una divulgazione di atti del procedimento penale funzionale allo svolgimento dell’attività investigativa. La seconda, invece, è quella che si lega con il diritto di cronaca giudiziaria; si tratta di una formula, per vero, assai vaga e generica che certamente lascerà notevole spazio discrezionale ai Procuratori nello stabilire quando ricorra o meno. Secondo le prime interpretazioni affermatesi ad oggi, l’informazione del procedimento penale può essere comunicata dall’organo dell’accusa laddove si sia in presenza di fatti investigati di particolare gravità e di interesse per il pericolo che susciterebbero nella collettività, ma anche quando sia necessario smentire ricostruzioni fattuali fantasiose che possano ledere l'onore e il decoro di persone estranee alle indagini. Il testo del decreto in esame ha disciplinato anche le modalità attraverso cui l’accusa può esternare le notizie de qua. Il capo dell’ufficio di Procura non può più esternare le notizie di interesse pubblico attraverso il ricorso alle conferenze stampa, a meno che non si tratti di un caso di «particolare rilevanza pubblica». Di regola, le Procure della Repubblica potranno comunicare con gli organi di informazione esclusivamente attraverso comunicati scritti (art. 5, comma 3-bis, D.Lgs. n. 106/2006). Con questa norma, il legislatore ha inteso delimitare la spettacolarizzazione che potrebbe derivare dal clima mediatico generato dallo svolgimento di una conferenza stampa (nella prassi ciò accade, ad esempio, attraverso la predisposizione della “scenografia”, che può consistere in armi, droga e banconote distesi sul tavolo, che, in genere influenzano l’opinione pubblica perché rendono l’idea che l’imputato sia soggetto pericoloso e “sicuramente” colpevole). Particolarmente rilevante è la disposizione che vieta di «assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza» (art. 5, comma 3-ter, D.Lgs. n. 106/2006). Lo scopo, anche in questo caso, è quello di arginare l’influenza che si potrebbe ingenerare sull’opinione pubblica attraverso il ricorso a definizioni sloganistiche che pregiudicano indubbiamente la presunzione di innocenza (fatto, quest’ultimo, spesso diffuso in passato; si pensi alla notissima vicenda denominata “Mafia Capitale”). 

Spetta al Procuratore Generale presso la Corte di Appello il compito di vigilare sul rispetto di queste ultime disposizioni. Anche in questo caso, occorre, ribadire quanto più sopra affermato; il sistema di controllo pare tutto incentrato su una verifica domestica, sebbene si affidi detto compito ad un organo distinto dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale. Nessun rimedio specifico è, invece, previsto per l’interessato con riferimento a queste due ultime disposizioni, al di fuori del rimedio generale della rettifica di cui già si è detto supra. 

L’art. 4, D.Lgs. n. 188/2021, novellando il codice di procedura penale, ha introdotto il nuovo art. 115 bis c.p.p. intitolato «Garanzia della presunzione di innocenza». La norma impone ai magistrati di adottare un registro linguistico che sia rispettoso della presunzione di innocenza, vietando di utilizzare espressioni che possano contenere giudizi anticipati sulla colpevolezza dell'indagato o dell'imputato. Ovviamente, sono esclusi dall’ambito applicativo di questa fattispecie tutti i provvedimenti decisori «in merito alla responsabilità penale dell'imputato» e tutti gli «atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato». 

In caso di violazione del divieto dell'art. 115-bis c.p.p., l'interessato - che può anche non essere l’imputato o l’indagato – può chiedere la correzione dell’atto entro il termine di dieci giorni successivi alla conoscenza dello stesso (comma 3). 

Infine, occorre evidenziare in questa sede che un’ulteriore novella codicistica ha interessato l’art. 329 c.p.p., in materia di secretazione di atti di indagine da parte del pubblico ministero. In via eccezionale ed in deroga all’art. 114 c.p.p., il pubblico ministero, oltre a secretare alcuni atti di indagine conoscibili, può consentire la pubblicazione di alcuni atti di indagine coperti da segreto investigativo (art. 329, comma 2, c.p.p.): prima della novella ciò era possibile solo laddove la pubblicazione fosse stata «necessaria per la prosecuzione delle indagini»; dopo la modifica normativa de qua, la pubblicazione può avvenire solo se «strettamente necessaria». Lo scopo del legislatore è all’evidenza quello di rammentare a chi accusa che il potere di cui all’art. 329, comma 2, c.p.p. deve essere eccezionale.

In conclusione, può affermarsi che le norme esaminate costituiscono certo delle importanti affermazioni di principio, ma non paiono di per sé stesse sufficienti a porre rimedio alle numerose “storture mediatiche” che affliggono la giustizia penale. 

3. Il sistema mass-mediatico e la comunicazione giudiziaria. 

3.a. Gli effetti perversi del sistema penale mass-mediatico sui diritti fondamentali e sul giusto processo. 

Sono i media, dunque, a fabbricare, quantomeno presso l'opinione pubblica, la realtà. L'intuizione che il sistema dell'informazione avesse addirittura acquisito il rango di soggetto processuale si deve ad un grande, purtroppo nel contempo scomparso, giornalista quale Massimo Bordin, che con specifico riferimento alla vicenda processuale  a furor di giornalismo embedded denominata "trattativa stato-mafia", comprese prima di tutti come il nostro sistema giudiziario avesse irrimediabilmente finito per mutar pelle. Il punto nodale dell'analisi sta nel fatto che nello stesso momento in cui un singolo procedimento viene posto all'attenzione dell'opinione pubblica, i media se ne impossessano e impossessandosene impongono le proprie regole. Il sistema mediatico, con buona pace dei principi costituzionali, a cominciare da quello incardinato nell'articolo 111 della Carta, pretende semplificazione e spettacolarizzazione, intonazione cinematografica e per l'effetto di quest'ultima l'immediata e aprioristica compilazione degli elenchi dei buoni e dei cattivi, perfino una inevitabile insofferenza per i tempi lunghi del processo. 

Tutto viene piegato alle regole dello show: condotte e persone devono essere necessariamente ricondotte al copione che più si ritiene avvincente per lo spettatore. Questa giustizia narrata irrompe, tuttavia, con inaudita violenza nel processo penale che riconosce regole tutt'affatto differenti. Nell'aula giudiziaria la ricostruzione di fatti e responsabilità deve necessariamente svolgersi secondo un itinerario ordinato, articolato, formalizzato. La stessa sacralità dell'aula, lungi dall'essere un vezzo ottocentesco, rappresenta al tempo stesso un preciso monito ed il richiamo ad un canone ermeneutico ben preciso: l'esercizio del potere repressivo dello Stato può incanalarsi unicamente nell'alveo delle forme e del rito, altrimenti si pone in inestricabile conflitto con lo stato di diritto e le regole della democrazia. 

Lo scontro tra questi due modelli è mortale: da una parte un modello di ricostruzione della realtà fondato sul razionalismo critico e sui principi di prevedibilità scientifica, dall'altra un paradigma inevitabilmente indiziario quando non addirittura divinatorio. Ovviamente l'epistemologia del processo esce sconfitta da questo conflitto perché allo stesso tempo troppo complessa e troppo poco rassicurante agli occhi della opinione pubblica. 

Questa sconfitta trasfigura in primo luogo le parti processuali. L'indagato diviene immediatamente colpevole; ciò è funzionale alla spettacolarizzazione necessaria a magnetizzare l'attenzione del pubblico e allo stesso tempo a veicolare una rappresentazione rassicurante circa l'efficacia repressiva dello Stato. 

A fare da contraltare alla colpevolizzazione dell'accusato la santificazione della vittima. Dal combinato disposto di questa trasfigurazione degli attori principali del processo si produce, a mo' di corollario, la trasfigurazione pure dei necessari attori della Giurisdizione. La figura del Pubblico Ministero inesorabilmente è descritta quale vindice di ogni torto ed ingiustizia, quella del difensore è ridotta ad Azzeccagarbugli manzoniano quando non anche a prezzolato complice non solo dell'assistito, ma anche nelle sue condotte. 

Da questa sorta di trasposizione scenica non è solo la presunzione di innocenza ad uscir mortificata, ma è la dinamica stessa del processo a uscire stravolta, così condizionando non solo la ricostruzione dei fatti, ma anche le opzioni interpretative delle norme e l'intero sviluppo processuale. 

Ma la figura processuale che più di ogni altra appare trasfigurata è quella del giudice, vero bersaglio grosso del corto circuito mass-mediatico. Il giudicante si trova  inevitabilmente messo spalle al muro dalla rappresentazione aprioristica e semplicisticamente manichea offerta dai media. 

La cronaca giudiziaria, con i manifestanti fuori dalle aule dei tribunali, ci mostra plasticamente quanto coraggio sia necessario non solo per assolvere chi il tribunale dei media ha deciso inappellabilmente dover essere colpevole, ma anche semplicemente per derubricare una imputazione in un’ipotesi più lieve. In gioco con l'autonomia e l'indipendenza del giudice sta l'autonomia e l'imparzialità della Giurisdizione. 

3. b. Una giustizia senza processo. 

Il venir meno degli argini tra ciò che avviene nelle aule giudiziarie e la narrazione che ne fanno i media produce molteplici effetti sin dalla fase, sotto un profilo processuale assolutamente prodromica, dell'iscrizione delle imputazioni. 

L'aspetto che più ci interessa investigare è, tuttavia, l'effetto che questa mass mediatizzazione produce sui diversi principi di garanzia che devono presidiare il diritto penale in uno Stato di diritto (tipicità, offensività personalità, colpevolezza, finalità rieducativa della pena). 

Punto nodale della questione è che i media, sceneggiandola, costruiscono una loro realtà e ciò sulla base di principi che niente hanno a che fare con quelli del diritto penale liberale. Nella narrazione mediatica, anche comprensibilmente attesa la necessità di accattivare il pubblico, si opera una sovrapposizione tra giudizio morale e disvalore penale (il reato come peccato) che il diritto ha fortunatamente superato da centinaia d'anni. Va da sé che - non conoscendo la distinzione tra reato e peccato e confondendo, quindi, la riprovevolezza morale con la responsabilità penale - la narrazione mediatica si ponga in stridente contrasto con i principi costituzionali sopracitati, a cominciare dal principio di tipicità della fattispecie penale. 

Questa mise en scène, oltre ad ignorare ogni garanzia, porta con sé una serie di effetti collaterali:  

- la tendenza a mettere al centro della scena più l'accusato che le sue condotte, inevitabilmente aprendo le paratie tra il diritto penale del fatto e il diritto penale d'autore; 

- la tendenza a una overcriminalizzazione di quegli addebiti che più vanno a solleticare lo sdegno collettivo, così generando aspettativa di rivalsa punitiva che niente hanno a che fare con il concetto di legalità; 

- la tendenza a inseguire forme di responsabilità collettiva, per gruppi sociali, ponendosi così in contrasto con i principi di personalità e di colpevolezza; 

- la tendenza a ridurre, di fronte a una presunta manifestazione criminosa, qualsiasi tentativo di distinguere il contributo causale e individuale di ognuno in fumisterie da leguleio. 

Già quanto appena sopra elencato, sia pure con metodo inevitabilmente cursorio, evidenzia il contrasto con una serie di tutele costituzionali e convenzionali, si pensi alla presunzione di innocenza (articolo 6, comma 2, CEDU), al diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8 CEDU), al divieto di trattamenti degradanti (articolo 3 CEDU). 

In questo sta l'aspetto di probabilmente maggiore ingiustizia del processo mediatico, il quale finisce per irrogare sanzioni senza processo, in modo casuale e anche profondamente diseguale. 

Ma ancor più preoccupante - sarà oggetto del prossimo paragrafo - la distorsione che questa giustizia percepita produce sulla giustizia reale e, in special modo, sull'autonomia e imparzialità della giurisdizione. 

3.c. Le ripercussioni sulla autonomia e imparzialità della giurisdizione. 

Nelle pagine precedenti abbiamo descritto quanto la proiezione di una vicenda giudiziaria nell'aula virtuale dei media sia disancorata dai principi che improntano lo Stato di diritto. Si tratta di una giustizia che inevitabilmente pone il proprio baricentro nell'accusa, che mal tollera le complessità e persino i tempi del processo. La prima vittima è inevitabilmente il fulcro del diritto penale liberale, ovvero la presunzione di innocenza, la quale viene in qualche modo rovesciata. La pubblica opinione ha bisogno di un colpevole e ne ha bisogno in fretta; i media glielo offrono su un piatto d'argento, ammantando di certezza ogni ipotesi di accusa. Dopo di che tutto quanto possa andare a frapporsi a questo giudizio di colpevolezza senza necessità di giudizio è visto come manifestazione di profonda ingiustizia. 

Le ricadute di tutto questo sulla vita degli accusati (si pensi al diritto di ciascuno al rispetto della propria vita privata e familiare) e sul processo (si pensi al diritto di difendersi provando, anche solo con riferimento al condizionamento dei testi) e persino nei confronti dell'accusa (la quale, una volta imboccata una ricostruzione investigativa che diviene immediatamente sceneggiatura mediatica ha comprensibili timori a rivedere, anche di fronte a fatti evidenti, quanto inizialmente ipotizzato) sono dirompenti e, tuttavia, scoloriscono di fronte agli effetti che il circuito mass-mediatico produce nei confronti del giudice. È, infatti, il libero convincimento del giudice il vero agnello sacrificale di questo processo senza processo, per la banale evidenza che il giudicante non vive in una torre eburnea e i tribunali non operano nel vuoto. 

Pensare che il solo corredo professionale immunizzi da queste influenze chi è chiamato a giudicare, come pure pervicacemente sostiene la nostra Corte di Cassazione, risulta quantomeno illusorio. 

Eppure, una sorta di verginità cognitiva è la vera essenza della terzietà ed imparzialità del Giudice. 

Occorre, quindi, chiedersi - costituirà oggetto del prossimo, ed ultimo, paragrafo - quale sia il punto di caduta, o meglio di equilibrio, tra i diritti che presidiano il diritto di cronaca (articoli 21 e 101 Costituzione) e quei principi, costituzionali e convenzionali, che devono improntare il processo penale in uno Stato di diritto.

3.d. Che fare? Il bivio tra giustizia spettacolo e controllo democratico della giustizia. 

L'elencazione, che ha costituito l’oggetto dell’analisi che precede, dei possibili effetti distorsivi che la mediatizzazione dei processi innesca sul loro corretto svolgimento è tale che la Corte EDU, con la pronuncia della Grande Camera del 29 marzo 2016 nel caso Bedat contro Svizzera, non solo ha espresso la propria "sorvegliata preoccupazione", ma ha anche imposto l'adozione di misure dissuasive da applicarsi in via preventiva. 

Pertanto, la circostanza che i diritti fondamentali e le garanzie del giusto processo risultino lesi dalla rottura degli argini tra le aule virtuali dei media e quelle oltremodo reali dei Tribunali non solo non può più essere revocata in dubbio, ma neppure ci consente di liquidare la questione considerando questi condizionamenti come costi necessari da tributare alla libertà di informazione. 

Occorre, cioè, trovare un equilibrio, perché in gioco vi è la garanzia della giurisdizione e l'imperativo costituzionale per il quale “la giustizia è amministrata in nome del popolo” (art. 101 Cost.) e non dell'audience televisivo o dei dati di vendita dei giornali. Occorre, in altri termini, rendere effettiva quella "sorvegliata attenzione" alle distorsioni del processo mediatico raccomandata dalla Corte di Strasburgo. 

Ciò chiama in causa, innanzitutto, la pessima qualità di certa informazione giudiziaria la quale, sotto il comodo usbergo dei diritti riconosciuti dagli articoli 21 e 101 della Costituzione, ha per lo più inseguito protagonismo e sensazionalismo. Ben inteso, ciò non significa svilire il ruolo che l'informazione svolge in un sistema democratico in chiave di controllo critico del potere, sia questo politico o giudiziario, ma piuttosto verificare il necessario bilanciamento che, piaccia o no, al diritto di informare e di essere informati contrappone i diritti delle persone sottoposte a processo. Sul punto occorre essere chiari: nessuno evoca processi a porte chiuse, ma semplicemente che la cronaca riconosca un limite nella compensazione di contrapposti interessi di pari rango costituzionale. 

Da questa angolatura un passo avanti certamente lo si è ottenuto dando, sia pur con ritardo, attuazione alla direttiva Europea sulla presunzione di innocenza n. 216/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 per mezzo del D.Lvo. numero 188 dell'8 novembre 2021, cui è dedicato il precedente § 2.d. 

Fatto questo primo passo occorre, tuttavia, che la diversa prospettiva divenga innanzitutto culturale e questo chiama in causa, in primo luogo, i professionisti dell'informazione chiamati a una rinnovata responsabilità condivisa. 

Del resto, proprio a questa diversa sensibilità sembra alludere anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo quando evoca la nozione di "giornalismo responsabile". Sulla questione chi scrive è netto: non si invocano divieti o, peggio ancora, censure, ma piuttosto la necessità di promuovere tutti insieme un innalzamento del livello dell'informazione.

Potremmo sorprenderci nello scoprire che un'opinione pubblica diversamente informata potrebbe preferire una pacata informazione giudiziaria, rispettosa dei diritti e delle garanzie che nel processo si inverano, rispetto a certi urlanti tintinnatori di manette. 

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Bibliografia 

F.M. IACOVIELLO, Il processo senza verità, in Processo mediatico e processo penale, C. CONTI (a cura di), Milano, 2016, p. 219. 

V. MANES, Giustizia Mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Bologna, 2022, Il Mulino 

E. RANDAZZO, Divulgazione del segreto d’indagine ed attività legislativa, in DP, 1993, n. 38-39, p. 21. G.P. VOENA, voce Atti, in G. CONSO, C. GREVI, Comm.PP, terza edizione, p. 175.


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(*) Massimiliano Annetta: Avvocato penalista. Ha insegnato presso la SSPL dell'Università degli Studi di Firenze, la Link Campus University, l'Universitas Mercatorum, l'Università Europea di Roma ed è attualmente docente di Diritto Processuale Penale presso l'Università IUL.