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12 ottobre 2022

Riforma Cartabia: LA GIUSTIZIA RIPARATIVA - di Cataldo Intrieri (*)






Nelle novità apportate dalla c.d. “Riforma Cartabia” non v’è dubbio che la più significativa sia da individuare nella parte dedicata alla “giustizia riparativa", un complesso di norme che declina nella legislazione un principio radicalmente alternativo a quello retributivo della pena intesa come compensazione emotiva dell’ offesa delle vittime.

Il principio guida (meglio sarebbe dire la scommessa) è che al posto della vendetta chi è stato colpito dal reato possa trarre un qualche motivo di conforto ed alleviazione della perdita dal confronto con il responsabile della sua sofferenza. 
Un concetto rivoluzionario se non apertamente provocatorio in questi tempi ed in questi lidi dove infuria indiscusso anche dopo la fine della stagione bonafediana il totem della “certezza della pena” o addirittura della pena inestinguibile. 
Mentre scrivo queste poche righe leggo sbigottito le polemiche sulla scarcerazione di un boss colpevole di una grave e violenta aggressione ad un giornalista. 
Roba vecchia ma qui siamo di fronte ad una novità: la lamentela riguarda il fatto che il boss malavitoso sia stato liberato ... per avere scontato la pena. 
Trattasi non di condanna da poco bensì al massimo della pena rincarata dall’aggravante del metodo mafioso che ha fatto raddoppiare il limite.
L’episodio dovrebbe far riflettere sugli evidenti limiti della c.d. “finalità retributiva” e “ protettiva” della pena che per sua stessa natura conosce fatalmente dei limiti temporali senza risolvere i problemi della sicurezza.
Invece il nuovo istituto è stato accolto con una generale diffidenza non solo dagli immancabili giustizialisti quanto incredibilmente da illustri esponenti e sostenitori delle dottrine garantiste.

E così Oliviero Mazza definisce la giustizia riparativa come espressione di “un sistema di decisionismo processuale avente carattere anti-cognitivo e potestativo, in cui l’efficienza repressiva è il portato di un sostanzialismo etico”.
Fa eco Lorenzo Zilletti che con la consueta incisività denuncia i punti critici della riforma:
a) la possibilità per il giudice, anche senza aver acquisito il consenso dell’imputato, di inviarlo ad un Centro per l’avvio di un programma di giustizia riparativa;
b) l’estensione al pubblico ministero dello stesso potere, nel corso delle indagini preliminari;
c) le prospettive verosimilmente negative per chi, destinatario dell’ordine, si sottragga al percorso di recupero indicatogli dall’autorità giudiziaria.

In particolare la critica colpisce la decisione del legislatore di introdurre questa forma particolare di mediazione anche durante la fase della cognizione con il rischio di incidere sui diritti fondamentali della difesa, a partire dal diritto al silenzio come vedremo avanti. 
Orbene è da dire preliminarmente che gli illustri studiosi oltre che da un robusto pregiudizio verso la riforma muovono da un presupposto tecnicamente errato.
L’art. 43 del decreto attuativo della L. 134/21 definisce che i programmi di giustizia riparativa tendono a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e la ricostituzione dei legami con la comunità.
Quindi enuncia espressamente le modalità di svolgimento della procedura (indipendenza del mediatore, tempo congruo per lo svolgimento, riconoscimento dei diritti delle parti, non utilizzabilità della documentazione in sede processuale) tra cui espressamente viene indicata la libera adesione delle parti.
Ciò vuol dire che l’imputato potrà rifiutare legittimamente ribadendo la propria estraneità ma soprattutto che potrà opporsi la vittima, evenienza questa tutt’altro che remota, specie in una predominante concezione etica e giuridica che ha spostato il baricentro del processo sui bisogni della vittima, tra cui l’istanza di soddisfazione del danno subito, più che sulle garanzie dell’imputato.

Se c’è da nutrire scetticismo esso è destinato piuttosto sull’adesione delle parti offese che allo Stato chiedono vendetta.
Ben sanno gli avvocati quanto il “vittimocentrismo” incide negativamente sovente sulla serenità del processo. 
È paradossale che ci si lamenti del processo mediatico e delle sue nefaste influenze e allo stesso tempo si delegittimi uno strumento che può cercare di arginarlo. 
Ciò che che gli iper-garantisti stentano ad afferrare è che la funzione del processo come retribuzione ha preso il sopravvento per cui anche le sentenze che non condannino al massimo della pena vengono criticate aspramente.
Stanno invece come i ribelli di Masada abbarbicati alla fortezza dei loro incrollabili convincimenti in fervida attesa, come i primi bolscevichi, di una rivoluzione, di un messia che compia il miracolo di far diventare la loro fede verbo universale. 
Nell’attesa pollice verso ad ogni riforma così come ai tempi della III internazionale quando riformisti e fascisti venivano considerati allo stesso modo: nemici dell’unica fede palingenetica. 
Non immaginiamo certo suicidi di massa di fronte alla sconfitta ma certo si può fare molto di meglio per individuare un serio indirizzo politico.
 
LE ORIGINI 
Converrà forse precisare in questa sede, sia pure in modo sintetico, le origini dell’istituto che non è una bizzarra invenzione del legislatore italiano e di una sua visione mistica del processo ma viene da lontano, da diverse esperienze, che hanno generato esiti efficaci e rilevanti.
La giustizia operativa nasce col c.d. “esperimento di Kitchener” una cittadina canadese dove all’inizio degli anni ‘70 due educatori, Mark Yantzi e Dean Peachey, proposero al giudice che aveva condannato due ragazzini, responsabili di aver danneggiato diverse abitazioni lungo del posto, un programma di probation diverso dal blando modello tradizionale, a base di studio ed attività ricreative e colloqui con gli psicologi, con un programma di incontri tra i due giovani e le famiglie danneggiate, da svolgere in parallelo alle attività socialmente utili.
Nasceva così il primo esempio di mediazione riparativa che nel tempo si è diffuso negli anni ‘70 in Nordamerica, Australia, Nuova Zelanda ma soprattutto nel Sud Africa post apartheid, infine negli anni ‘80 arriva in Europa. 
L’altra radice è costituita dalla Decisione quadro del Consiglio 2001/220/GAI del 15 marzo 2001 relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale cui è subentrata la Direttiva europea 2012/29/UE che sanciva normativamente, la rivoluzione vittimologica del processo penale ed in base alla quale tra i diritti della vittima, veniva introdotto anche quello di poter far ricorso alla mediazione penale. La Decisione quadro aveva fissato il termine del 31 marzo 2006 a tutti gli stati membri per adeguarsi alla direttiva. 
Dunque ben può dirsi che il legislatore italiano sia arrivato buon ultimo e con grave ritardo (altro che menare scandalo per il varo della normativa). 
È da dire che in Italia per iniziativa privata i primi esperimenti di dialogo risalgono ai primi anni duemila allorché sulla scia della normativa europea si è dato vita ai primi tentativi di incontro tra terroristi detenuti e le loro vittime. 
Una bellissima esperienza magnificamente raccontata nel “Libro dell’incontro” scritto dallo psicologo Guido Bertagna e da due giuristi Adolfo Cerreti (presidente anche della commissione ministeriale sulla giustizia riparativa) e Claudia Mazzuccato.
Le risposte positive ci sono state in ognuna delle varie esperienze sicché dipingere la giustizia riparativa come un’invenzione diabolica contro i diritti degli imputati è un torto all’intelligenza, anche agli autori delle critiche più accese. 
Suggeriamo di leggere sul punto il bellissimo reportage di Emmanuel Carrere sul processo per la strage al teatro Bataclan di Parigi del 2015. 
Una testimonianza toccante, sulla funzione civilizzatrice del processo, sui ruoli delle parti e giustappunto dell’effetto lenitivo del confronto. 


IL RUOLO DEGLI AVVOCATI. 
Il punto debole della procedura piuttosto non è nella concezione dell’istituto quanto nel ruolo troppo limitato dei difensori. 
Giustamente i commentatori più avvertiti sottolineano le nuove professionalità richieste dalla figura del mediatore per questa particolare procedura a partire da quelle giuridiche oltre che cognitivistiche.
Proprio la delicatezza del compito avrebbe richiesto una costante partecipazione degli avvocati delle parti. 
Invece l’art. 52 limita la presenza dei difensori, se richiesta dagli assistiti e dunque non obbligatoria, alla fase preliminare ed a quella finale di redazione dell’accordo e del programma definitivo.
È esclusa espressamente ed inderogabilmente la fase decisiva dei colloqui tra le parti e ciò è inspiegabile se non nella chiave di aperta sfiducia al ruolo di mediatore del difensore.
Non che la categoria non meriti una tale diffidenza vista la critica all’istituto ma i delicati problemi giuridici connessi al colloquio imporrebbero la presenza degli avvocati.
Basti pensare ad esempio che vige come regola generale l’assoluta riservatezza ed inutilizzabiltà del contenuto dei colloqui “ salvo che vi sia il consenso dei partecipanti alla rivelazione o il mediatore ritenga questa assolutamente necessaria per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e quando le dichiarazioni integrino di per sé reato.”
Ecco: come si può pensare di eliminare la presenza del difensore allorché dalle dichiarazioni dell’ assistito al mediatore possa derivarne il rischio di un’incriminazione? E come può rimettersi una tale delicata valutazione ad un soggetto, il mediatore, non necessariamente dotato delle specifiche competenze? 
Una disposizione che presenta palesi rischi di incostituzionalità per la palese violazione del principio del “nemo tenetur se detegere” ove si pensi che il diritto al silenzio teoricamente potrebbe comportare il rischio del fallimento del tentativo di mediazione.
Dovrebbe dunque la critica essere diretta al miglioramento delle norme ed a richiedere una più incisiva presenza degli avvocati piuttosto che alla eradicazione dell’istituto dal sistema processuale che si risolverebbe nell’ennesima occasione persa per far fronte al dilagante giustizialismo.

(*) Cataldo Intrieri: avvocato del Foro di Roma, intellettuale con la passione della politica giudiziaria. È tifoso del Milan