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16 ottobre 2023

Abrogare o no il reato di abuso d’ufficio? di Luigi Tramontano*

 


 

Abrogare o no il reato di abuso d’ufficio?

  

Sul piano divulgativo, come si sa, la quaestio è stata rappresentata così.

Il Governo ha proposto di abolire il delitto di abuso d’ufficio, in quanto figura “evanescente”, per la quale assai raramente si giunge ad una condanna.

Si è subito sollevata la protesta che una simile abrogazione aprirebbe una voragine, ossia un vuoto di tutela tale da permettere ai pubblici amministratori ogni sorta di illegalità.

Spiccano in effetti tanto la fragilità giustificatrice della proposta abolitiva, quanto la poca conseguenzialità della obiezione alla stessa. Quest’ultima invero, lungi dall’appuntarsi sulla addotta evanescenza dell’ipotesi delittuosa di che trattasi (o comunque sull’assunto che ogni ipotesi evanescente debba essere eliminata dall’ordinamento), lamenta in definitiva che tale evanescenza debba essere invece mantenuta, dacché ci si preoccupa proprio del fatto che i pubblici amministratori potrebbero ora commettere senza controllo penale quelle stesse illegalità che, per i proponenti la riforma, quasi mai finirebbero poi per centrare il reato.

A meno di non voler concludere, quindi, che la disputa sul tema confermi tristemente il dramma della incomunicabilità dell’uomo contemporaneo – come se a parlare fossero, ad esempio, Vladimiro ed Estragone – s’impone uno sforzo di intelligenza maggiore.

Può forse ravvisarsi un nesso tra le due posizioni, per come manifestate, se si assume che entrambi gli interlocutori condividano in fondo la concezione diffusa per cui amministrare giustizia, nel settore penale, significhi sostanzialmente aprire un procedimento a carico di un determinato soggetto al fine di verificare se egli abbia commesso un reato, oppure no.

Come avvocati siamo invero i primi a contribuire al radicarsi di questa, errata, visione. Quando un processo termina con un’assoluzione piena annunziamo, magno gaudio, che “Giustizia è stata fatta” (o, peggio, che il processo è stato “vinto”). Ogni assoluzione è, al contrario, proprio l’attestazione che un processo non avrebbe dovuto neppure essere iniziato, e quindi che non sia stato affatto “giusto” che quella persona vi sia stata sottoposta (magari anche molto a lungo). Ma se la cultura della giurisdizione che ci guida è quella pervasiva sopra detta – un costo che chiunque deve mettere nel conto di dover affrontare prima o poi nella vita[1] – il termine per definire questo evidente giro a vuoto dell’accertamento giurisdizionale viene del tutto invertito, come si vede. Ecco che dunque, per chi deve esercitare la giurisdizione intesa in questo modo, risulta più funzionale che la fattispecie astratta sia abbastanza ampia (al limite dell’evanescenza), perché ciò consente facilmente di intitolarvi un certo fatto, e poterne iscrivere la relativa notizia nell’apposito registro, a carico di qualcuno.

Certo, per effetto di tale ambiguità concettuale se ne genera inesorabilmente un’altra, e questa volta però di natura terminologica: perché abolire l’abuso d’ufficio produrrebbe non già un vuoto di tutela – come pure, a parole, lo si chiama – ma piuttosto un vulnus alle possibilità di controllo, da parte delle Procure, sull’operato dei pubblici amministratori.

Sarebbe quest’ultimo, allora, il risultato che vorrebbe di contro conseguire il riformatore?

Sembrerebbe proprio di si, sicché anche lui, a dispetto di quel che a parole proclama, in effetti accetta l’idea che chiunque possa essere sottoposto a procedimento penale perché si accerti se abbia commesso o meno un reato, e si preoccupa quindi di togliere dal campo una tra le ipotesi delittuose in cui più facilmente potrebbe incapparsi. A segnale, però, che neppure da questa parte, ed appunto, il senso della giurisdizione (penale) sia esattamente quello che vorrebbe la nostra Carta Costituzionale (artt. 24, 25, 27, 111, 112, etc.).

 

Le parti che si contrappongono.

Entrambi i contraddittori si intestano comunque propositi di stampo liberale. Eppure non sono minimamente d’accordo. Com’è possibile?  

Si osserva in effetti che la schiera degli oppositori risulta guidata da quegli stessi giuristi (magistrati e accademici) distintisi in questi anni, piuttosto, per aver dato o preteso di dare sostegno giuridico a concezioni del diritto e della procedura penale alquanto illiberali, come ad esempio quella di abolire la prescrizione (portata a termine), o di consentire la reformatio in peius in appello (non ancora riuscita). Stride dunque un po’ con il principio di non contraddizione che proprio costoro si propongano invece oggi come paladini del cittadino, dichiarandosi preoccupati di volerlo proteggere dagli abusi che contro di lui potrebbero essere consumati da rappresentanti dello Stato, ossia da quello stesso Stato che si vorrebbe tuttavia abbastanza autoritario (e perché no, anche un po’ prepotente) quando amministra Giustizia.

Con pari stonatura finalistica, del resto, chi propone la riforma si proclama mosso dall’intento di recuperare il sacrosanto principio di determinatezza in materia penale, nonché lo spirito accusatorio con cui era stato disegnato in origine il nostro processo.

Il principio di determinatezza però – vien subito da rilevare – avrebbe più costrutto invocarlo ove si trattasse di configurare una nuova fattispecie di reato, non tanto quando se ne volesse eliminare una. Con un simile movente infatti, l’argomento si presta alla facile obiezione che, allora, si proceda ad una migliore definizione del delitto in parola, invece di abrogarlo; oppure a quella, altrettanto facile ma ben più polemica, che si elimini anche, e per l’identica ragione, l’ipotesi di recentissimo conio di adunanza illegale (art. 633-bis c.p.), ad esempio, parecchio indeterminata, e che si deve proprio ad una delle primissime iniziative del Ministro della Giustizia attualmente in carica. Avversare l’indeterminatezza di una fattispecie o costruirne una assai sfuggente, secondo le occasioni, denota in effetti pur sempre una fede (forse inconscia) nel principio di autorità (la verità è quella come tale di volta in volta affermata da chi detiene il potere) più che in quello dialettico (alla migliore approssimazione della verità può giungersi solo dopo un confronto serrato tra visioni divergenti).

Quanto al carattere accusatorio che si vorrebbe far assumere davvero e finalmente al nostro giudizio penale[2], non può non rilevarsi che tale connotato attiene semmai al metodo di accertamento della verità in giudizio, e non c’entri gran chè con la quantità di reati che debbano essere previsti in un dato momento storico (né, se non molto alla lontana, con il modo in cui essi siano formulati). Del resto, gli oppositori alla riforma non sono ispirati affatto da una cultura inquisitoria della giustizia penale, casomai, come detto, da un malinteso senso dello scopo del processo.

 

Le parole che più spesso ricorrono nel dibattito.

Anche questo, a dire il vero, non è un segnale confortante. La scelta delle parole è infatti sempre illuminante di come la si pensi. Di quale vuoto dicano – o abbiano in effetti – paura gli oppositori, abbiamo appena visto. Ma anche “evanescente”, guarda caso, deriva da “vanus”, che significa pur sempre “vuoto”, come si sa. Qui però è un vuoto che non alluderebbe all’assenza di appigli (horror vacui), piuttosto è uno spazio dai contorni del tutto indefiniti che preoccuperebbe proprio perché lo si può riempire a piacere. Dunque, può cogliersi un ulteriore elemento che accomuna le due posizioni (e i due linguaggi), e consiste nel pari richiamo ad una paura – una pulsione che è sempre l’istinto a generare, non la Ragione – che, solo, è evocata in forme diverse.

Ma fa paura a chi?

A sindaci e amministratori locali in genere di quasi tutta la penisola – si sostiene – esausti di dovere convivere con la spada sul collo dell’abuso d’ufficio ogni volta che tocchi loro di firmare un qualsiasi atto[3]. Eppure – a quanto sembra – non altrettanto timorosi di dichiararsi pubblicamente e irrimediabilmente insicuri di non sapere mai prima se, firmando un atto, stiano violando la legge oppure no: ossia di mostrarsi niente affatto padroni delle regole (sia pur spesso farraginose, d’accordo) che disciplinano le materie di cui dovrebbero occuparsi giornalmente. La prima che di solito calpestano o ignorano – e che in realtà, non pare nemmeno troppo complicata – è giusto quella che impone agli organi politici di dettare solo le linee di indirizzo dell’azione amministrativa senza intromettersi nell’assunzione di atti amministrativi (al di fuori di quelli strettamente loro riservati), e che assegna invece ai dirigenti il compito esclusivo di emettere questi ultimi, anche in attuazione dei sopra detti indirizzi (c.d. principio di separazione: mi sia perdonata la pedanteria). Se solo la rispettassero, non potrebbero mai rischiare di commettere alcun abuso d’ufficio. La “firma”, infatti, si mette solo negli atti amministrativi.

In effetti, com’è stato già segnalato, evocare la paura dei sindaci costituisce tutt’al più una sineddoche, dacché il reato di abuso d’ufficio può essere commesso da qualsiasi funzionario pubblico, e quindi non solo dagli amministratori di enti locali, ma anche da chi appartiene al campo della istruzione pubblica, oppure a quello della sanità pubblica, della giustizia, e così via[4].

Pure, in proposito, ci si guardi da fin troppo facili equivoci. La portata liberale dell’intervento abrogativo in parola – quale viene ampiamente sbandierata – sarebbe qui a tutto concedere solo parziale, per non dire assai discutibile. Innanzitutto, ciò che verrebbe meno sarebbe infatti pur sempre un reato proprio, e dunque l’alleggerimento del peso dell’autorità rispetto alle libertà individuali andrebbe a beneficio in questo caso, ed appunto, solo di pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio (che, se pur non comprendono solo i sindaci, non sono comunque la generalità dei cittadini). Ma soprattutto, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio favorirebbe giusto coloro che, a livello centrale o periferico, e per ogni articolazione delle materie possibili, sono comunque espressione della pubblica amministrazione. Vale a dire, andrebbe a vantaggio di chi ha un potere nelle mani, un’autorità, una supremazia nei confronti del semplice cittadino[5].

 

Gli argomenti degli oppositori: a) il vuoto normativo.

Ma prendiamo a questo punto in esame, come ci compete meglio per mestiere, le argomentazioni più schiettamente giuridiche avanzate da entrambe le parti: la particolare fragilità delle quali, si deve subito anticipare, risulta tanto evidente quanto inaspettata, data la conclamata competenza nella disciplina posseduta da ciascuno degli attori che si affrontano. Ed è soprattutto questo aspetto, appunto, che mi lascia perplesso.

Partirei proprio dalla contrarietà alla riforma manifestata ad esempio dall’attuale Presidente della ANM (dott. Giuseppe Santalucia), limitatosi invero a lamentare – per esigenze comunicative, certo, e tuttavia in un modo che finisce per essere niente più che tautologico – che il comportamento del funzionario pubblico descritto dall’attuale testo dell’art. 323 c.p. non può non essere considerato grave, e quindi meritevole di sanzione penale[6]. Insomma, un rifiuto sine explicatio non troppo dissimile da quello che soleva opporre il meraviglioso scrivano di Melville al proprio datore di lavoro: “preferirei di no”.

Uno sforzo argomentativo di maggior respiro, perché fondato almeno su qualche esemplificazione, lo ha offerto invece il Procuratore Aggiunto di Roma Paolo Ielo, tra altri. Nel corso di un’intervista rilasciata il 18 giugno 2023 alla giornalista Giulia Merlo, sul quotidiano Domani.it (link), l’autorevole pubblico ministero ha infatti indicato alcuni possibili casi che, pur apparendogli gravi, diventerebbero a suo giudizio penalmente leciti ove si abolisse il reato di cui all’art. 323 c.p.:

… la condotta di un magistrato, il quale violi consapevolmente la legge per favorire o danneggiare ingiustamente qualcuno, perché suo amico o suo nemico, riconoscendogli ragione o torto, commette un fatto grave o no? Un decisore pubblico, che affidi appalti deliberatamente violando le leggi che impongono gare a un imprenditore perché suo amico o perché a lui vicino politicamente, garantendogli vantaggi economici che non gli spettavano e danneggiando altri, commette un fatto grave o no? Un funzionario di uffici edilizi che violando consapevolmente la legge blocchi la ristrutturazione di casa di una sua vicina perché la considera sua nemica, commette un fatto grave o no? Con l’abolizione del reato d’abuso, i fatti non sarebbero punibili penalmente”.

       Si tratta senz’altro di condotte disdicevoli (forse un po’ meno “grave” appare l’ultima, ma non è questione di misure, qui). Ma anche senza indulgere – come pure si dovrebbe – sul principio per cui non ogni condotta che appaia disdicevole debba necessariamente essere punita penalmente (c.d. sussidiarietà del diritto penale)[7], non me la sentirei comunque di convenire che i fatti come sopra esemplificati non sarebbero punibili in forza di altre norme (e ad essere sincero, se anche così ritenessi, forse non lo direi apertamente in pubblico, pure in qualità di avvocato: non sia mai che qualcuno mi credesse…).

È possibile naturalmente che io mi sbagli, ma nel primo esempio proposto mi pare che la regola di condotta senza margini di discrezionalità violata dal magistrato sia, a monte, quella che impone a quest’ultimo, secondo entrambi i codici di procedura, di astenersi dal trattare una causa riguardante un suo amico o un suo nemico. Il caso rientrerebbe perciò, già per questo aspetto, sotto la previsione dell’art. 328, comma 1, c.p., potendo ben sostenersi che quel magistrato abbia (implicitamente, ma deliberatamente) rifiutato di compiere un atto che doveva essere compiuto per evidenti “ragioni di giustizia”, e sicuramente “senza ritardo” (ossia, prima che la causa assegnatagli avesse inizio). Del resto, la violazione di una regola rigida tra quelle applicate o no da tale ipotetico giudice per decidere la controversia non la troveremmo mai, per com’è altrettanto ovvio, essendo l’attività decisoria sempre frutto di molteplici (e variabili) valutazioni.

Il secondo esempio, per come sinteticamente (e velocemente) prospettato dal dottor Ielo, si può ritenere comprenda due possibili casi: che la gara – imposta dalle norme in ragione della soglia o della tipologia dell’appalto – vi sia stata, ma il funzionario infedele la abbia illegittimamente indirizzata verso la vittoria del suo conoscente; oppure che nessuna gara sia stata in concreto bandita, l’ufficiale procedente avendo proceduto ad affidamento diretto dell’appalto all’amico, nonostante l’importo, o il tipo di appalto, non lo consentissero. Ebbene, nella prima eventualità vedrei chiaramente un turbamento dell’incanto, di cui si è alterato il normale svolgimento, sicché l’ipotesi ricadrebbe (quanto meno) sotto la specifica disposizione di cui all’art. 353 c.p. La seconda evenienza, invero assai meno probabile della prima (perché implicherebbe di necessità il concorso o quanto meno la connivenza non solo di tutti i componenti dell’ufficio cui sia assegnato il procedimento, ma anche di quelli degli uffici di ragioneria addetti al controllo preventivo della regolarità contabile e amministrativa per approvare la spesa), deve comunque indurci a considerare che un favore di tale enormità non è ragionevole immaginare che il funzionario pubblico possa arrischiarsi a farlo per mera simpatia nei confronti dell’imprenditore favorito, ossia senza ricevere (o pretendere) nulla in cambio da parte di quest’ultimo: sicché – ed è questo, a mio giudizio, il punto essenziale – il caso ricadrebbe tra le ipotesi (ben più gravi) di corruzione. L’esperienza (negativa) insegna, è vero, che favori simili vengono ripagati a distanza di tempo, rimanendo l’imprenditore avvantaggiato “debitore” del pubblico ufficiale; ma l’invio di un “cadeau” subito dopo l’aggiudicazione immeritatamente ottenuta – il biglietto omaggio per una partita di calcio, un orologio di pregio, ecc. – segue almeno altrettanto quasi sempre. 

Anche il terzo esempio proposto, infine, è difficile che integri (solo) un abuso d’ufficio. Poiché infatti l’esercizio del potere di sospensione dei lavori (previsto, com’è noto, dall’art. 27, comma 3, t.u. n. 380/2001) presuppone il compiuto accertamento da parte dei funzionari del comune che l’opera in corso violi una legge, o le prescrizioni o le modalità stabilite per l’esercizio della relativa attività edilizia, l’uso intenzionalmente illegittimo di tale potestà non può che consumarsi mediante una falsa attestazione (dello stato dei luoghi o del contenuto di una perizia, o delle prescrizioni dettate da altra autorità di tutela, e così via): il caso ricadrebbe pertanto in una (o più) falsità in atto pubblico. Se poi la pretesa violazione edilizia che abbia funzionato da pretesto per la disposta sospensione dei lavori fosse una di quelle sanzionate anche penalmente, il funzionario avrebbe dovuto per ciò stesso trasmettere la relativa informativa alla Procura della Repubblica competente (in difetto incorrendo nel reato di omessa denuncia), perciò la malcapitata signora del nostro esempio sarebbe perfino vittima di calunnia (o di simulazione di reato), e comunque pienamente tutelata dal fatto che nella sua vicenda verrebbe comunque coinvolta l’Autorità Giudiziaria.

       Questi tre esempi, dunque, per quanto mi è stato possibile contro dedurre, non mi persuadono ancora che l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio possa determinare un vuoto di tutela tale da legittimare una pericolosa zona franca per i pubblici funzionari infedeli, a danno degli amministrati[8].

Casomai – ribadisco – mi preoccuperebbe di più venire veramente a scoprire che la maggior parte dei nostri funzionari e amministratori pubblici sarebbero tendenzialmente propensi al delitto, oppure, al contrario, tutti poveri diavoli votati al sacrificio che, se non li si tranquillizzasse con uno scudo penale per i loro comportamenti, rimarrebbero – come sarebbero stati finora – sostanzialmente inoperosi (per paura della firma). Ritengo entrambe le conclusioni, per la mia esperienza, dei veri e propri (e persino pericolosi) luoghi comuni.

 

       segue: b) Il contrasto con norme internazionali.

Ancor meno solido sotto il profilo giuridico – per quanto certamente assai potente nell’ingenerare timore (o nel fornire una scusa) – è l’argomento secondo cui l’eliminazione del reato di abuso d’ufficio rischierebbe addirittura di essere dichiarata incostituzionale perché in conflitto con la Convenzione di Merida, avendo ratificato la quale l’Italia si è impegnata a sanzionare penalmente condotte del genere di quelle fino ad ora previste dall’art. 323 c.p.[9]. 

In effetti, aderendo alla Convenzione di Merida, l’Italia ha assunto a livello internazionale l’impegno di assicurare copertura penale (soltanto, però) al c.d. abuso di vantaggio, per sé o per altri (v. art. 19, legge di ratifica 3 agosto 2009, n. 116). 

Sommessamente rilevo, in generale, che quello della pretesa illegittimità costituzionale di una norma condenda è un tipo di argomento che – al di là di casi ictu oculi evidenti – prudenza imporrebbe di non spendere mai, appunto perché la declaratoria in questione è (altissimo e niente affatto automatico) compito riservato istituzionalmente alla Corte Costituzionale, e chiunque la auspica in genere non solo non ne ha mai fatto parte, ma non può evidentemente farne parte nel momento in cui compie una simile previsione. Ma soprattutto direi che tale argomento non è minimamente appropriato spenderlo proprio in questo specifico caso, dato che si tratterebbe qui – ove venisse adottata – di una norma penale di favore, ed essendo noto ad ogni addetto ai lavori che la Consulta ha ormai da tempo chiarito quali siano i limiti del proprio sindacato riguardo a simili norme. Anzi, proprio di recente e proprio con riguardo all’ultima modifica (restrittiva) intervenuta sul reato di abuso d’ufficio, lo ha ribadito ancora una volta, e in questi inequivocabili termini: “Viene di conseguenza in rilievo il costante indirizzo di questa Corte, secondo cui l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale, rimettendo al «soggetto-Parlamento» (sentenza n. 5 del 2014), che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394 del 2006), le scelte di politica criminale (con i relativi delicati bilanciamenti di diritti e interessi contrapposti), impedisce alla Corte, sia di creare nuove fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti, comunque sia, alla punibilità (ex plurimis, sentenze n. 17 del 2021, n. 37 del 2019, n. 46 del 2014, n. 324 del 2008, n. 394 del 2006 e n. 161 del 2004; ordinanze n. 219 del 2020, n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007)” (così, C. Cost., 18 gennaio 2022, n. 8). Ora, la Convenzione di Merida – come tutte le convenzioni internazionali – obbliga gli Stati firmatari ad adempierla “in modo compatibile” con la loro, invalicabile, sovranità (art. 4 della legge di ratifica 3 agosto 2009, n. 116). Sicché, essendo appunto prevista nel nostro ordinamento costituzionale una riserva di legge in materia penale, l’allineamento della nostra legislazione ai contenuti della Convenzione è un obbligo che ricade sul Parlamento e non può essere adottato, in via sostitutiva, dalla Corte Costituzionale[10].Meno che mai può dirsi persuasiva l’ulteriore postilla a detto argomento, per cui lo stesso testo di cui all’art. 19 della Convenzione di Merida anche la Comunità Europea avrebbe in programma (a breve) di adottarlo, come direttiva rivolta agli stati dell’Unione: sicché depenalizzando l’abuso d’ufficio, l’Italia si metterebbe poi a rischio di una procedura di infrazione[11].Si tratterebbe dunque di un rischio che verrebbe in essere a condizione che si verificasse prima una certa eventualità: un rischio a catena, in sostanza. L’argomento è comunque inaccoglibile, dacché oltre al fatto che la temuta direttiva ancora non esiste (né francamente ne vedrei l’utilità, essendovi appunto già la Convenzione ONU firmata a Merida da più di 180 Paesi, tra cui il nostro), proprio una “direttiva” europea in materia penale è ben noto che per l’Italia non sarebbe affatto vincolante, né sulla base del trattato istitutivo né per la nostra carta costituzionale. Per come risulta articolata, peraltro, la proposta di direttiva in parola appare contraddire su più punti persino la stessa Carta europea, contenendo ad esempio anche la previsione – che equivale ad una inammissibile presunzione di colpevolezza, in contrasto con l’art. 48, comma 1, della CEDU – che ogni persona soltanto accusata di corruzione non possa candidarsi a nessuna elezione interna[12]. Coltiverei per parte mia di più la speranza, quindi, che tale direttiva alla fine non venisse adottata dall’Unione. Ma al netto di ogni considerazione su chi e a che cosa davvero vincolino le superiori disposizioni internazionali (esistenti o paventate), a voler comunque affrontare il tema sollevato dall’obiezione che le richiama, il punto rimane, mi pare, il medesimo di quello precedentemente emerso: ossia, se le altre norme penali diverse da quella di chiusura di cui all’art. 323 c.p. siano in grado o no, nel nostro ordinamento, di punire ogni condotta riconducibile alle ipotesi di abuso d’ufficio (o quanto meno a quelle di abuso di vantaggio)[13].

       Qui, invero, si finisce comunque per ritornare. E lo dimostra proprio l’ultima obiezione avanzata da chi è contrario alla riforma, ossia che l’abrogazione dell’abuso d’ufficio non farebbe comunque venire meno nei sindaci la paura della firma, dacché essi sarebbero in ogni caso esposti a denunce per gli altri reati contro la pubblica amministrazione, che prevedono pene anche più gravi rispetto a quella di cui all’art. 323 c.p.[14]. Un simile rilievo finisce evidentemente per contraddire proprio la ragione di partenza avanzata nell’opporsi: se infatti pur abolendo l’abuso d’ufficio i sindaci dovrebbero comunque avere paura di incappare in una (persino più grave) contestazione di concussione o di corruzione, allora si sta ammettendo che eliminare la fattispecie in parola non produrrebbe nessun vuoto di possibile intervento da parte della magistratura inquirente, sì da lasciare scoperte ampie zone di illegalità e di malaffare.

 

       Le ragioni di chi propone l’abolizione.

Né invero migliore esercizio persuasivo, sul versante opposto, hanno finora offerto i promotori della abrogazione in parola, i quali hanno invero scelto di esordire protestando proprio, in chiave tristemente autoritaria, che i magistrati (o meglio i rappresentanti di essi) non dovrebbero permettersi di criticare le leggi, così come i politici non dovrebbero permettersi di criticare le sentenze[15].

Anche a voler sorvolare sul dato che non si tratterebbe di critiche rivolte ad una “legge”, perché tale essa ancora non è[16], non può comunque evitarsi di rilevare che entrambe le proposizioni sono invero profondamente errate (e rattrista già il solo fatto di averle sentite pronunciare da chi faccia parte del Governo del Paese, e ha quindi giurato fedeltà alla Costituzione). Se c’è infatti una regola fondamentale su cui si costruisce un ordinamento democratico – e il nostro così è costruito – questa è proprio quella di riconoscere a chiunque la libertà di manifestare il proprio pensiero, soprattutto – aggiungerei anche – se difforme rispetto ad una posizione, in un certo momento storico, predominante. Criticare, sollevare dubbi, formulare rilievi, è giusto un esercizio di pensiero, non è mai l’esercizio di un munus che competerebbe ad altri. E serve sempre tenere conto delle critiche, delle visioni contrarie, per migliorare le scelte da prendere (o per verificare la resistenza di quelle già prese)[17].

Poiché però questa fondamentale libertà consiste appunto nel poter “manifestare” ciò che pensiamo, affinché essa non rimanga vuota o fine a sé stessa è indispensabile che il nostro pensiero sia sorretto da argomenti, risultando invece del tutto inutile se si ferma sulla soglia di un mero dissenso: perché non potrà essere in alcun modo considerato ed eventualmente tenuto in conto. Opponendosi e basta, in sostanza, ritengo si invochi a sproposito l’art. 21 della Costituzione.

Anche argomentando male, però – ed è questa l’implicazione inevitabile della democrazia come metodo – si finisce per non convincere, e per dare quindi forza alla tesi contraria.

       Ora, i sostenitori della riforma abolitiva – come anticipato – hanno scelto di porre soprattutto l’accento sulla enorme sproporzione registratasi negli ultimi decenni tra il numero di procedimenti avviati sotto il titolo dell’art. 323 c.p. e quello (percentualmente minuscolo) delle decisioni di condanna avutesi. Al netto di ogni possibile obiezione circa la esattezza o l’interpretazione di tali cifre[18], deve dirsi che un rilievo di tipo numerico è in realtà, ed appunto, solo la fornitura di un dato, non è un argomento. E questo dato, in particolare, non pare neppure gran che persuasivo, di per sé. Espresso solo nella sua crudezza aritmetica sembrerebbe infatti voler alludere alla conseguenza che debbano essere mantenuti in vita solamente quei reati che tali risultassero sentenziati con una certa frequenza. Che sarebbe naturalmente un’idea balzana.

 

Nel solco della tradizione liberale.

Mi sarebbe piaciuto, lo confesso, sentirne esprimere magari un’altra. Ossia che, come spiegava Cesare Beccaria a fine settecento, è già l’avvio di un procedimento penale a costituire una punizione per la persona, e che tale pena risulterà del tutto immeritata ove egli dovesse essere poi persino assolto. Oltre ad essere, ogni assoluzione, un costo inutile per il sistema. Mi avrebbe senz’altro persuaso di più, allora, un ragionamento del genere: a fronte di detti ingenti svantaggi (per le casse dello Stato e per la credibilità della Giurisdizione), se pure abolendosi una singola fattispecie risultata poco incline a giungere ad una condanna si dovesse lasciare un residuale vuoto di tutela, tale prezzo sarebbe comunque ragionevole pagarlo.

Tuttavia, ogni tesi che si basi su una comparazione tra costi e benefici deve essere sottoposta ad un calcolo quanto più esatto possibile, e degli uni e degli altri. Viceversa si rischia di incorrere in errori cognitivi che, di solito, producono poi conseguenze irrimediabili nel predisporre le soluzioni. Appare indispensabile quindi acquisire innanzitutto il dato se davvero un vuoto di tutela si verrebbe a determinare abolendo l’abuso d’ufficio, e, se del caso, in quali specifiche condotte esso consisterebbe.

Il modo più immediato per compiere una verifica del genere, credo, sia quello di esaminare analiticamente le fattispecie concrete per cui, sia pur in pochi casi come si dice, si è avuta nel nostro ordinamento una condanna definitiva per il solo reato di abuso d’ufficio. In sostanza si tratta di ricostruire, nella stessa ottica meritoriamente assunta dal dottore Ielo, tutti gli ulteriori esempi che la pratica ha generato oltre quelli da lui di necessità velocemente indicati, offrendo così più esaustiva e numerica risposta al quesito se vi siano condotte, e quali siano, che, abolendo hoc criminem, rimarrebbero certamente senza la tutela penale che fino ad oggi avrebbero invece avuto.

Trovate eventualmente le quali, sarà poi una questione di bilanciamento. Spetta – questa sì – unicamente al potere Legislativo affrontarla, dacché andranno valutati e soppesati vantaggi e svantaggi derivanti dal lasciare nell’ordinamento una figura di reato destinata (in ipotesi) a punire condotte molto residuali (solo in questo caso il Parlamento non violerebbe l’art. 19 della Convenzione di Merida), e che tuttavia consentisse eventualmente, prima facie, di aprire un considerevole numero di procedimenti penali.

Il vero terreno di confronto sembrerebbe, alla fine, essere in effetti proprio questo. E, se tale è, esso finisce evidentemente per riguardare anche, e più a monte, l’equilibrio – o il riequilibrio – tra due poteri dello Stato, quello giurisdizionale (o meglio, la componente di quest’ultimo addetta alla direzione delle indagini penali) e quello esecutivo. L’abuso d’ufficio è infatti una chiave – un passepartout, com’è stato definito – che attribuisce alle Procure il potere di aprire procedimenti penali contro funzionari pubblici in presenza di una qualsiasi, e meramente ipotizzata, violazione di legge. Essendo stata usata questa chiave (da taluno si ritiene) con troppa disinvoltura – come dimostrerebbero le numerosissime indagini chiamate “ad orologeria” – quell’equilibrio appare essersi da tempo spezzato, sicché adesso il potere più schiettamente “politico” sentirebbe la necessità di rimetterlo a bilancia. Per distogliere il pubblico amministratore dai suoi compiti o dai suoi propositi elettorali è infatti sufficiente aprire un procedimento penale contro di lui, il clamore mediatico che ne consegue facendo il resto.

 

Conclusioni.

Ho però delle riserve anche riguardo a questo modo di guardare alla questione.

La morbosa caccia al politico indagato è senz’altro una patologia, ormai persino cronica, del nostro sistema, ma mi pare sia fuorviante, e comunque inutile, additare come responsabili della diffusione di tale morbo – sia pur solo – alcuni Procuratori (e certamente non la maggior parte di essi). Non c’è invero bisogno di immaginare una mala fede dei pubblici ministeri nell’aprire indagini “ad orologeria” per abuso d’ufficio, proprio perché esiste una norma come quella dell’art. 323 c.p., e quindi ogni Procuratore della Repubblica non può esimersi dall’iscrivere nel registro delle notizie di reato qualsiasi esposto che riguardi un pubblico funzionario e che richiami la violazione di detta disposizione. Personalmente, peraltro, non ho mai avuto la sventura di constatare con certezza una premeditazione malevola del genere da parte dei magistrati inquirenti, sicché alla stessa, in generale, non sono disposto a credere.

A dire le cose come stanno, se si vuole, l’art. 323 c.p. è stato usato finora (fin troppo) facilmente come “chiave”, non già dai pubblici ministeri, ma piuttosto dagli avversari politici di questo o quel personaggio da colpire, semplicemente presentando appunto una denuncia (ad orologeria, certo) contro di lui. Questo, almeno, mi indica la mia – oramai, ahimè, non troppo breve – esperienza.

Ora, se il tema fosse stato apertamente affrontato in questi termini, l’idea di togliere dall’ordinamento questa “chiave” che consente di presentare (anche pretestuosi) esposti “a tempo”, sarebbe apparsa una soluzione – per quanto indotta da una disfunzione, tuttavia – non irragionevole a cui pensare di mettere mano. Una rimodulazione della fattispecie di abuso d’ufficio si presterebbe invero allo stesso distorto utilizzo. Come dimostra la immutabile casistica registratasi negli anni, sebbene l’art. 323 c.p. sia stato riformulato già ben tre volte a partire dal 1930. E certamente non è in grado di limitare le iscrizioni di ogni esposto che evochi un abuso d’ufficio la nuova norma introdotta dalla c.d. legge Cartabia, che con formula invero degna di Monsieur de la Palisse, prescrive semplicemente che la notizia di reato da iscrivere debba contenere: “…la rappresentazione di un fatto determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice” (art. 335, comma 1, c.p.p., nuovo testo).

E però, se così si guarda al problema, abrogare la fattispecie in parola non appare affatto l’unica soluzione possibile, anzi sicuramente non è quella che investirebbe direttamente la causa del problema stesso.

La causa del quale non sta in effetti né nella paura dei sindaci né nell’esistenza in sé dell’art. 323 c.p. (vi sono infatti tanti altri reati, nel nostro ordinamento, previsti con “norme di chiusura”, e quindi con formule ampie). Sta invece nel fatto che dell’apertura di un procedimento di questo tipo, nei confronti di una persona esposta, si sappia subito. La causa risiede, quindi, nel clamore mediatico che immediatamente si scatena.

Che però non dovrebbe affatto scatenarsi.

Ritengo allora che potrebbe senz’altro tralasciarsi, per ora, se e come intervenire sul reato di abuso d’ufficio, impegnandosi piuttosto ad evitare davvero, e con strumenti sensibilmente più efficaci, la diffusione della notizia dell’avvio di un procedimento penale a carico di qualcuno, anche – anzi soprattutto – se personaggio di rilievo pubblico. Arrivo persino ad immaginare la possibilità (per accondiscendere, sia pur di malavoglia, allo “spirito” della c.d. legge Severino) che della conclusione delle indagini a carico di una persona impegnata in politica si obblighi il Pubblico Ministero a informarne, riservatamente, il partito di cui quegli eventualmente faccia parte, affinché quest’ultimo, secondo le sue regole interne, possa adottare le valutazioni che dovesse ritenere opportune, esclusivamente politiche, in merito al detto iscritto.

Si tratta in fondo di una garanzia basilare, da sempre posta (anche se non solo) a presidio della presunzione di non colpevolezza, non certo di un bavaglio alla stampa. E ciò non solo perché il divieto di pubblicizzare notizie relative a procedimenti ancora in fase di indagine (e per cui non sia stata emessa un’ordinanza di custodia cautelare) già esiste, e da tempo (per quanto in pratica soltanto sulla carta, nonostante siano notizie riguardanti il contenuto di atti coperti anche, e per legge, da segreto). Ma soprattutto perché il diritto di cronaca non comprende di certo il diritto di informare i lettori di fatti che, dal punto di vista della Giustizia, ancora fatti non è stato accertato che siano (e tanto meno di esiti di indagine, che in un processo appunto accusatorio, diverranno prove, eventualmente, solo a seguito di un contraddittorio svoltosi davanti a un giudice).

In questo modo soltanto, ritengo, si può togliere davvero di mano quella chiave a chi potrebbe essere tentato di usarla per ben altri scopi. Ma è una questione – mi rendo perfettamente conto – più culturale che giuridica.



[1] Per anni Piercamillo Davigo, ad esempio, ne ha parlato proprio in questi termini, in ogni trasmissione televisiva in cui è stato invitato.

[2] Concetto più volte espresso in pubblico dal Ministro Nordio in questi mesi, col dire che mentre il nostro codice penale è ancora quello “fascista”, il nostro codice di procedura penale, che pure si deve alla meritoria opera di un eroe della Resistenza come il professore Vassalli, è stato via via completamente snaturato, ed è quindi ora il tempo di ripristinarlo.

[3] È la stessa ratio che, unitamente alla necessità di far ripartire il Paese dopo la pausa forzata dovuto alla pandemia, ha condotto il governo Conte, nel 2020, a restringere le condotte punibili ex art 323 c.p. mediante decretazione d’urgenza, e che è stata ritenuta da Corte Cost. n. 8/2022 – ahimè – motivazione sufficiente, dacché non irragionevole, per procedere alla modifica della norma penale con decreto-legge. Questo, invero, il comunicato dell’Ufficio Stampa della Corte, emesso subito dopo la decisione presa: “La norma del cosiddetto Decreto Semplificazioni, che restringe, definendola meglio, la sfera applicativa del reato di abuso d’ufficio non nasce soltanto dalla necessità di contrastare la “burocrazia difensiva” e i suoi guasti derivanti dalla dilatazione dell’applicazione giurisprudenziale dell’incriminazione. È l’esigenza di far “ripartire” celermente il Paese dopo il prolungato blocco imposto per fronteggiare la pandemia che – nella valutazione del Governo (e del Parlamento in sede di conversione) – ha impresso ad essa i connotati della straordinarietà e dell’urgenza. Valutazione, questa, che non può considerarsi, comunque sia, manifestamente irragionevole o arbitraria”.

[4] V. ad es. G. Caiazza, L’abuso d’ufficio va abolito, ecco perché, in ilRiformista del 14 novembre 2021. M. Donini (Cancellare l’abuso d’ufficio è un atto illiberale: ecco perché, articolo apparso su l’Unità del 22 giugno 2023) è stato anche più esplicito, definendo quella della paura dei sindaci una “bufala giornalistica”.

[5] Non sono ammessi i processi alle intenzioni, ma va pure detto che, oggettivamente, se è vero che in linea di massima la restrizione del numero delle fattispecie delittuose può dirsi espressione di liberalismo penale, non ha di certo questa valenza il taglio che riguardi giusto un reato previsto a carico di chi eserciti un pubblico potere. Perché ciò, evidentemente, sbilancia il rapporto Autorità-Libertà a favore di chi è titolare della prima, e a danno di chi è portatore della (aspirazione alla) seconda, ossia i cittadini. Lo ha prontamente segnalato il prof. Massimo Donini (op. cit. supra, nonché Gli aspetti autoritari della mera cancellazione dell’abuso d’ufficio, in Sistema penale, 23 giugno 2023), con argomento ripreso poi, ed arricchito, anche da Raffaele Cantone, in occasione della sua audizione da parte della Commissione Giustizia del Senato.

[6] V., ex plurimis, intervista rilasciata a Liliana Milella, su Repubblica, il 14 giugno 2023.

[7] Si tratta di un principio logico, prima ancora che di un postulato di tipo giuridico. Poiché infatti la risposta penale è la più grave tra le risposte possibili da parte dell’ordinamento (incidendo sulla libertà personale), ciò implica l’esistenza di altri tipi di risposta, appunto meno gravi. Un rilievo del genere, tuttavia, viene inesorabilmente formulato quasi soltanto da noi avvocati (v. ad esempio, Caiazza, L’abuso d’ufficio ma non solo. Riequilibrare i poteri del PM non è un sacrilegio, su Il foglio del 17 giugno 2023), e così, “per attrazione”, fatalmente assegnato alle posizioni “garantiste”. Il panpenalismo, purtroppo, è un fattore pericolosamente inquinante della cultura civica di un popolo, perché porta istintivamente a credere che se una condotta non integri un reato, allora essa è legittima alla stregua di tutto l’ordinamento. Vale la pena di ribattere che è vero esattamente (e solo) il contrario: se una condotta è legittima alla strega di un altro settore dell’ordinamento, non può mai integrare un reato. 

[8] Purtroppo, convincono ancora meno i ben più numerosi esempi proposti da Donini (op. cit.), e su cui però non mi posso qui soffermare, per come meriterebbero. Mi tocca limitarmi a rilevare che sono tutti casi o punibili in forza di altre norme (negare deliberatamente e ingiustamente al carcerato i suoi diritti (art. 608 c.p.), compiere abusi terapeutici nei confronti di un ricoverato (art. 582 c.p.), demansionare il medico che non si presti a dirottare pazienti verso la clinica privata del primario (art. 317 c.p.), abusare da parte di un poliziotto nei comportamenti rivolti verso determinate categorie di persone controllate (artt. 581 o 582 c.p., ecc.), assegnazione di incarichi peritali da parte di un magistrato a persone a sé legate (artt. 319 e 319-bis c.p.), o che neanche in forza dell’attuale art. 323 c.p. integrerebbero un abuso d’ufficio (favoritismi del professore universitario nella valutazione dei suoi allievi), o infine la cui concreta probabilità che si verifichino può dirsi assolutamente trascurabile (avvio da parte del PM di un procedimento a carico di una persona a lui invisa: nessun PM può aprire un procedimento se non in base ad una notizia di reato, non acquisita direttamente).

[9] Così, tra gli altri, Gatta, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, in Sistema penale, 5/2023; oppure Balsamo, Abolire l’abuso d’ufficio avrà effetti criminogeni, intervista rilasciata a La Stampa, il 19 giugno 2023.

[10] In questo senso, ben più solida sotto il profilo logico mi sembra la posizione che ha preferito assumere, ad esempio, il Procuratore della Repubblica di Palermo, dott. De Lucia (in Giustizia insieme, 8 settembre 2023), limitatosi invero a rilevare che l’abuso d’ufficio “non si può abrogare in quanto esso è espressamente contemplato dall’art. 19 della Convenzione ONU contro la corruzione…”, senza minimamente invocare possibili interventi ripristinatori da parte della Corte Costituzionale, e segnalando appunto la mera esistenza di un obbligo (per lo Stato) contrario. In realtà, ma la questione diventa di merito, tale assunta impossibilità non è affatto scontata, perché bisogna ancora vedere se si possa o non si possa espungere dal nostro ordinamento il solo art. 323 c.p. senza violare l’art. 19 della l. n. 116/2009.

[11] V., tra gli altri, Gatta, op ult. cit.

[12] V., sul punto, il commento di Enrico Novi (Le presunzioni UE: prima d’innocenza, poi di colpevolezza…”) su Il dubbio del 20 luglio 2023 È di questi giorni la notizia, inoltre, che il Parlamento italiano avrebbe impegnato il nostro Governo a non appoggiare in sede europea la proposta di direttiva in parola.

[13] Ha segnalato prontamente il prof. Gatta (Concorsi pubblici “turbati”: per la Cassazione è configurabile l’abuso d’ufficio ma non la turbativa d’asta: un esemplare caso di vuoto di tutela che si prospetta con l’abrogazione dell’art. 323 c.p., in Sistema penale, 19 giugno 2023) il caso del favoritismo verso candidati in concorsi pubblici: queste procedure – secondo un recentissimo (ma ovvio) arresto della Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione (sent. 10 maggio 2023, n. 26225) – non sono infatti equiparabili alle “gare”, cui invece soltanto si riferisce l’art. 353 c.p., dacché esse comportano valutazioni comparative (dei candidati), e non già modalità acquisitive di beni e servizi; perciò, si deduce, ove venisse meno il reato di abuso d’ufficio simili favoritismi non potrebbero essere puniti penalmente. Va però precisato – come non manca di precisare invero lo stesso autore – che il vuoto si verrebbe a determinare solo con riguardo all’ipotesi in cui il componente della commissione esaminatrice avrebbe avuto l’obbligo di astenersi nella valutazione di un certo candidato, perché a lui legato per ragioni di parentela o per altra cointeressenza. Al di fuori delle ipotesi di obbligatoria astensione, infatti, verrebbe difficile in casi del genere, pur secondo l’attuale testo dell’art. 323 c.p., individuare la regola senza margini di discrezionalità violata dal funzionario pubblico nel preferire un determinato candidato ad un altro. Invece, al candidato ingiustamente pregiudicato sarebbe sempre possibile rivolgersi al tribunale amministrativo, il quale potrebbe annullare l’aggiudicazione illegittima ove la trovasse non sorretta da adeguata motivazione, comparativa appunto, oppure minata in partenza dall’omissione dell’obbligo di astensione. Perciò è di nuovo il postulato iniziale ad essere una petizione di principio: ossia, che condotte del genere di quelle esemplificate meritino “obiettivamente” (o per chissà quale regola morale imposta dall’alto) una risposta penale. La quale a dire il vero, non sembrerebbe proprio essere la più efficace o esaustiva giusto in casi di questo tipo: al candidato illegittimamente pretermesso interessa il posto per cui ha concorso, ma il giudice che condannasse penalmente il docente non potrebbe darglielo. Il TAR, si. 

[14] Ancora, Gatta, L’annunciata riforma…, cit.

[15] Così espressamente Nordio, intervistato da SkyTG24 il 15 giugno 2023, che ha definito anche tale assunto “un principio elementare della divisione dei poteri”.

[16] Non che non rilevi, naturalmente, che un Ministro veicoli in televisione un messaggio in cui deliberatamente equipara le leggi, che deve approvare il Parlamento, alle proposte di legge di iniziativa governativa.

[17] Non è mai superfluo ribadirlo, credo, specie nei (decadenti) tempi in cui viviamo. Non tollera il dissenso, come diceva un filosofo, solo chi teme di non saper argomentare e spiegare bene la propria tesi. Sulla possibilità di esprimere (e sul dovere di tenere conto di) un dissenso si basa non solo una democrazia, ma più in generale il progresso scientifico dell’uomo: se in tempi ben più bui di questi il pensiero critico non fosse stato esercitato, Galilei non avrebbe potuto scoprire ad esempio come in effetti si muovono, rispettivamente fra loro, la Terra ed il Sole.

[18] Per un rilievo del genere v., ad es., Armando Spataro, intervenuto in varie trasmissioni televisive, ed in specie a “L’aria che tira”, andata in onda su La7 il 23 giugno 2023.

(*) Luigi Tramontano:  avvocato del Foro di Palermo dal 1998, iscritto all’Albo dei Cassazionisti dal 2010 e socio di Camera Penale di Trapani, ha collaborato, per diversi anni, con la rivista “Il Foro Italiano”, sezione penale, sotto la direzione del Prof. Giovanni Fiandaca, pubblicando diverse note a sentenze e
una decina di articoli.
Dal 1993 al 1998 ha svolto le funzioni di Vice Pretore Onorario presso la Pretura di Palermo. Dal 1998 al 2007, oltre ad esercitare la professione di avvocato, ha insegnato diritto penale – per singoli temi – presso la Scuola di Perfezionamento delle discipline giuridiche dell’Università di Palermo, diretta dal Prof. Galasso.
Ha svolto le funzioni di relatore in diversi convegni, tra i quali, da ultimo quello organizzato dall’associazione Logos e Ius, e tenutosi a Palermo presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, il 23 ottobre 2019, dal titolo “La prescrizione non è una cura”, e quello tenutosi presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo il 29 marzo 2019, dal titolo “Tutela dei migranti e libertà fondamentali. Lo Stato di diritto e la vicenda Diciotti”.