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02 ottobre 2024

Trascrizione convegno "L'imputazione in cerca di una fisionomia"


Riportiamo gli interventi svolti (e poi rivisti, secondo le modalità che hanno ritenuto più opportune)  dai relatori, Professor Simone LONATI e Professore Daniele NEGRI, al Convegno della Camera penale di Trapani del 13.12.2023 dal titolo  “L’imputazione in cerca di una fisionomia”.  

Avv. Daniele Livreri (moderatore):  buon pomeriggio a tutti coloro che hanno deciso di impiegare parte del loro tempo per ascoltare questo webinar. Ringrazio anche a nome del Presidente della Camera Penale di Trapani, Avv. Marco Siragusa, che purtroppo per esigenze professionali non si può collegare tempestivamente, i nostri relatori. Per esigenze anche di tempistica cedo immediatamente la parola al Presidente del Consiglio dell’Ordine di Trapani. l’Avv. Salvatore Longo, per portare i saluti del C.O.A. Riprenderò poi la parola per una breve introduzione ai nostri ottimi relatori.  

Avv. Salvatore Longo (presidente COA Trapani): sì, buon pomeriggio, ringrazio Marco Siragusa, il direttivo di Camera Penale Trapani, te Daniele, e chiaramente i relatori per il contributo che date alla formazione, non solo del nostro Foro, ma di tutti coloro che ci seguono online. Porto naturalmente i saluti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trapani e ripeto, ringrazio la Camera Penale perché a me piace dire sempre, ma non per una questione di maniera, ma perché ne sono convinto, che l’associazionismo Forense costituisce il sale, un po’ del nostro Foro perché contribuisce con eventi di grande qualità e di assoluto interesse, come quello di oggi, alla formazione di un’avvocatura moderna e consapevole. La Riforma Cartabia costituisce una riforma di sistema, una riforma epocale che ha stravolto tante regole e tante prassi a cui eravamo abituati ormai negli anni e devo dire che uno dei temi, che a mio modesto avviso è effettivamente di maggior interesse, è quello di cui si discute oggi, perché tanti processi tutti noi abbiamo fatto con imputazioni sconnesse, con imputazioni, uso un’espressione semi dialettale “ad entra ed esci”, cioè imputazioni in cui c’era tutto e il contrario di tutto, poi magari si cambiava la contestazione in corso di dibattimento con ricadute assolutamente negative sul diritto di difesa, salvo qualche Giudice illuminato che probabilmente rimetteva in termini la parte per chiedere un rito alternativo, per chiedere una controprova. Io ritengo che proprio le regole introdotte dalla Riforma Cartabia se effettivamente dovessero trovare un compiuto adempimento in sede processuale, possono costituire un vero e proprio spartiacque rispetto a queste cattive pratiche del passato perché bisogna andare in dibattimento con un’imputazione certa, con chiari confini sull’imputazione, e non si può consentire effettivamente al Pubblico Ministero di iniziare l’azione penale in un modo e proseguirla in altro. Tante volte ci siamo trovati a impugnare sentenze in cui non vi era una correlazione tra l’imputazione e poi la sentenza. Io mi auguro che la Riforma Cartabia in questo senso possa darci un momento di novità, e possa darci un momento di stabilità sotto questo aspetto. Quindi sono molto curioso di ascoltare i relatori che ringrazio ancora una volta, ai quali rinnovo l’impegno che ci siamo dati dietro le quinte, di ripetere l’evento non online, ma di ripeterlo in presenza per poter accoppiarlo a un momento culinario e un momento insomma di confronto in presenza e di incontro soprattutto in presenza che rappresenta uno degli aspetti belli della nostra, delle nostre attività, delle nostre professioni, perché, un momento di incontro, i rapporti personali a mio modo di vedere costituiscono sempre un punto importante delle nostre professioni, delle nostre attività. Quindi non voglio rubare altro tempo ai relatori e auguro a tutti buon lavoro e buon pomeriggio.

Avv. Daniele Livreri (moderatore): grazie Presidente. Adesso procedo a quella che mi pare una opportuna, per quanto breve, introduzione al tema odierno, anche perché qualcuno mi ha chiesto, e qualcuno si è chiesto, quale sia il senso dello stesso titolo del webinar odierno. Un titolo che in qualche modo può apparire ermetico, per certi versi anche pirandelliano. Allora, a me pare che l’imputazione in questi anni sia stata oggetto di dibattito, soprattutto in connessione all’esito del processo: poche condanne, dunque c'è un problema in ordine alla formulazione dell’imputazione. Questo è un approccio che dal punto di vista difensivo induce a qualche perplessità. Anche perché, come avremo sicuramente modo, attraverso i nostri ottimi relatori, di cogliere nella odierna sessione, i problemi dell’imputazione probabilmente si collocano ben altrove. Mi pare in particolare che il taglio della connessione, tra l’esito processuale e imputazione, emerga palesemente da una relazione del primo Presidente della Suprema Corte, del gennaio 2022. All’epoca, sostanzialmente, il primo Presidente della Corte rilevò come c’era un numero assai significativo di assoluzioni e per altro ingravescenti, un numero che aveva superato il 50% degli esiti processuali e che poi nell’ultima relazione del Presidente si era attestato al 55%. Sulla scorta di quel dato statistico, nel gennaio del 2022, il vertice della Cassazione aveva in qualche modo auspicato una serie di provvedimenti riformatori, che poi hanno trovato la loro consacrazione nella riforma Cartabia, cioè si auspicava una maggiore completezza delle indagini, e soprattutto la riforma dei poteri del Giudice dell’Udienza Preliminare, nel filtro, nonché l’estensione del medesimo filtro, attraverso l’introduzione di quella che poi sarà l’udienza predibattimentale, anche al Monocratico. Ora, io credo che anche per una sorta di onestà intellettuale, vada dato atto che questo approccio è stato soggetto a una qualche critica da parte della Procura Generale presso la Corte della Cassazione, la quale ha revocato in dubbio lo stesso momento statistico di quei dati, cioè il Procuratore Generale, contrappose una visione disaggregata dei dati. In realtà il termine “assoluzioni”, sarebbe termine, ad avviso del Procuratore generale dell'epoca, di sintesi che farebbe riferimento a tutta una serie di esiti processuali alternativi alla condanna. Quindi dalla remissione della querela, alla messa alla prova. E si coglie bene che se riletto così, il dato può indurre a una riflessione ben diversa da quella sottolineata dal vertice della Cassazione. In  particolare l’allora Procuratore Generale presso la Corte ottenne una relazione dalla DGSTAT, dalla Direzione Generale Statistica del Ministero, ricavando che in realtà il dato delle assoluzioni reali, come le definisce il Procuratore Generale, è intorno al 21-22% e per altro quel dato contiene anche, se letto nella sua statistica complessiva, un ulteriore elemento che a mio avviso poteva indurre magari a delle riflessioni diverse. Infatti se noi sottoponiamo a confronto le condanne innanzi al Collegio, le condanne innanzi al Monocratico, le assoluzioni davanti all’uno e all’altro, cogliamo che le assoluzioni davanti al Collegio, assoluzioni reali per riprendere la locuzione cara al Procuratore Generale, sono superiori, aumentano anche le condanne, quello che invece radicalmente si riduce innanzi al Collegio è l’esito prescrittivo, perché sottolineo che aumentano le condanne, ma anche le assoluzioni, davanti al Collegio. Allora forse si poteva anche cogliere un aspetto diverso, cioè i processi innanzi al Collegio sono sempre preceduti dall’Udienza Preliminare e ciò significa che se aumentano, sebbene di due, tre punti percentuali, gli esiti assolutori innanzi al Collegio,  il filtro dell’Udienza Preliminare, non funzionava bene.. Ma ormai tutto questo in qualche modo appartiene al passato. Ormai la riforma si è mossa con quello sfondo, con quella cornice, sui rimedi e sui controlli che attengono all’imputazione, sicuramente ci offrirà degli spunti pregevoli, come tutti i suoi interventi, il professore e amico Simone Lonati. E però noi ci siamo posti un problema che sta ancora più a monte, cioè qual è in questa cornice di controlli, il rapporto tra il Giudice e il Pubblico Ministero. Con la sua acutezza il professor Lonati sicuramente riuscirà a cogliere che c’è una qualche problematicità che noi avvertiamo nel potere di rimodulazione, nell’invito meglio, alla rimodulazione da parte del Giudice nei confronti del PM, nell’invito alle necessarie precisazioni, mi pare che il Codice Novellato si esprima proprio così. Qual è la visione del rapporto che si ha tra le due figure istituzionali del processo, tra i due attori e quindi in ultima analisi qual è anche la visione della difesa nel processo. Ma c’è ancora un passo ulteriore, e lì sicuramente meglio di chiunque altro lo farà il professor Negri: che cos’è l’imputazione? Cioè noi abbiamo un quid da controllare, ma che cos’è questo quid che controlliamo? Perché il senso del controllo non si può cogliere se non precisiamo prima che cosa dobbiamo controllare, e quali ne sono i confini, come si atteggia tutto ciò rispetto a una giurisprudenza che talvolta è riuscita a vedere l’imputazione, per cos' dire, allo stato diffuso del processo, con riferimento agli atti del processo, al giudizio nel suo complesso. Quasi che l’esercizio dell’Azione Penale fosse giusto un’occasione del processo. E allora questo coacervo di temi che sta a nostro avviso  a monte di tutto ciò. Ecco dunque ciò che ci ha indotto a un titolo che ci sembrava tener presente, nei limiti, come dire, della fantasia di un leguleio palermitano, tutti questi aspetti. Ma ora ovviamente non voglio tediare più di tanto chi si è iscritto e che si è iscritto sicuramente non per ascoltare me, e cedo subito la parola al professor Lonati, grazie Simone.

Prof. Avv. Simone Lonati (relatore):Grazie a te Daniele, grazie alla Camera Penale di Trapani, grazie all’Ordine degli Avvocati, e al Consiglio dell’Ordine Avvocati di Trapani per questo invito. 

In realtà il mio compito è sicuramente più semplice rispetto a quello del professor Negri, perché mi è stato chiesto di descrivere il quadro controlli che la riforma Cartabia ha attribuito al Giudice per poter assicurare la precisione dell’accusa e la corrispondenza agli atti della imputazione. Caratteristiche, queste indispensabili per individuare correttamente il tema probandum e per consentire quindi un effettivo e concreto esercizio del diritto di difesa.

Del resto, la previa conoscenza dell’accusa oltre ad essere un connotato fondamentale dell’equità processuale, è anche un diritto sancito in maniera esplicita dall’art. 111 comma 3 della Costituzione, nonché dall’art. 6 paragrafo 3 lettera a della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo. Essa, inoltre, è ribadita anche dall’art. 6 paragrafo 3 della direttiva 2012 numero 13 sul diritto all’informazione nei procedimenti penali in forza della quale proprio gli Stati membri sono tenuti a garantire al più tardi, al momento in cui il merito dell’accusa è sottoposto all’esame di una autorità giudiziaria, che siano fornite le informazioni dettagliate sulla accusa, sulla natura e la qualificazione giuridica del reato.

In questo quadro, è chiaro che le imputazioni formulate in modo generico, rappresentano una stortura, non permettendo alla difesa di poter esercitare in maniera concreta, effettiva, come richiede la Convenzione Europea, il proprio mandato. 

La riforma Cartabia ha tentato di rimediare a queste situazioni con la previsione di un controllo preventivo, svolto d’ufficio dal Giudice dell’Udienza Preliminare o dal Giudice dell’Udienza predibattimentale, mirato proprio a stimolare una correzione immediata dell’imputazione, là dove l’accusa dovesse risultare non corrispondente ai requisiti previsti dall’art. 417, oppure non coerente con quanto emerge dagli atti del fascicolo. In altre parole bisogna garantire il più possibile che l’accusa sia precisa già prima dell’inizio dell'istruttoria dibattimentale, evitando quindi di arrivare a dichiarare una nullità per imprecisione della imputazione. Del resto, se andiamo a vedere la relazione illustrativa della riforma, questi interventi in merito ai poteri di controllo del Giudice sulla imputazione, sono pensati proprio per assicurare una più celere definizione dei procedimenti, in quanto la completezza della imputazione consente, da una parte, il più rapido superamento dei casi problematici e, dall’altra, facilita anche l’accesso ai riti alternativi che potrebbero essere preclusi proprio dalla qualificazione giuridica o in ogni caso scoraggiati da fatti mal descritti e da qualificazioni errate nella imputazione.

La soluzione adottata dalla riforma dovrebbe, infine, ridurre il rischio, tanto di istruttorie inutili, quanto di modifiche o di retrocessioni nel corso del dibattimento, o addirittura in esito ad esso.

Prima di arrivare a descrivere quali sono le tipologie di controlli introdotti dalla riforma, forse bisogna ricordare in estrema sintesi la forte contrapposizione fra dottrina e giurisprudenza in tema di genericità, imprecisione e incompletezza del capo d’imputazione formulato dal Pubblico Ministero nella richiesta di rinvio a giudizio.

Come sappiamo, l’assenza di un’esplicita previsione di invalidità dei requisiti enunciati dall’art. 417 c.p.p., non ha mai rappresentato per la dottrina un limite all’accertamento del vizio dell’imputazione generica o carente rispetto agli atti di indagine. La disciplina generale c’era: secondo alcuni rilevava l’art. 178 c.p.p. sotto il profilo della lettera C, quindi un regime di rilevabilità intermedio.

Secondo altri, sotto il profilo della lettera B, quindi l’iniziativa del Pubblico Ministero nell’esercizio dell’azione penale con un regime di rilevabilità assoluto.

La giurisprudenza invece ha sempre escluso la sussistenza di una invalidità. Sappiamo tutti come si è risolta questa contrapposizione con le Sezioni Unite Battistella. Sentenza che arriva addirittura a considerare abnorme l’atto con il quale il Giudice dell’Udienza Preliminare, rilevata la violazione dell’art. 417 lettera B, restituisce gli atti al pubblico ministero per la riformulazione dell’imputazione, senza previo invito a quest’ultimo alla modifica della medesima. Ecco, soluzione quella delle Sezioni Unite, che come sappiamo, trovava già eco in alcune sentenze della Corte Costituzionale. Infatti, ad avviso della Corte, non sussiste violazioni dei parametri costituzionali, in quanto al Giudice dell’Udienza Preliminare è comunque attribuita la facoltà di sollecitare il Pubblico Ministero alle precisazioni necessarie per la regolarità del contraddittorio. La sentenza Battistella parte da due presupposti. Il primo: il Giudice dell’Udienza Preliminare non si pronuncia sulla colpevolezza dell’imputato. Il secondo: l’udienza preliminare si atteggia proprio come luogo di cristallizzazione di una imputazione ancora fluida. In base, a questi due presupposti, le Sezioni Unite ritengono legittimato il Giudice, a effettuare questo invito al Pubblico Ministero, a modificare l’imputazione direttamente in udienza. Quindi non solo quando occorre adeguarne il contenuto fattuale in coerenza con quello che emerge dagli atti, ma addirittura anche quando occorre colmare un’imputazione genericamente enunciata. Solo a seguito dell’indolenza del Pubblico Ministero, sempre secondo le Sezioni Unite, il Giudice potrà, al momento della conclusione dell’udienza, attestare il difetto dell’imputazione e restituire con ordinanza gli atti al Pubblico Ministero, invitandolo a riformulare la stessa, senza poter pronunciare sentenza di non luogo a procedere.

Abbiamo parlato della sentenza Battistella delle Sezioni Unite perché? Perché la soluzione emersa già nella proposta Lattanzi e poi trasfusa nel decreto legislativo 150 del 2022, rappresenta comunque una sintesi di questa posizione. Il legislatore fa proprio quanto già la giurisprudenza aveva ritenuto di poter ricavare dai principi che allora erano vigenti.

Ecco allora che la riforma sostanzialmente pone in luce due doveri del Pubblico Ministero. Il primo: descrivere con chiarezza e precisione il fatto contestato. Il secondo: contestare un fatto la cui enunciazione corrisponda a quello emergente nel fascicolo. A fronte di questi due doveri, il vaglio giurisdizionale non può che svolgersi logicamente prima ancora che metodologicamente, in due momenti distinti; il secondo di questi momenti postula naturalmente il superamento positivo del primo, e allora abbiamo due controlli; uno come abbiamo detto sulla imputazione generica, quindi violazione dei requisiti previsti dall’art.417; l’altro l’imputazione non corrispondente, non coerente con quanto emerge dagli atti del fascicolo e allora abbiamo la nuova formulazione dell’art. 421 primo comma, che consente quindi al GUP in caso di violazione della disposizione relativa ai requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio, sentite le parti, di sollecitare il Pubblico Ministero a riformulare l’imputazione e ove il Pubblico Ministero, ottemperi correttamente all’invito del Giudice, l’imputazione modificata, sarà poi inserita nel verbale d’udienza e contestata all’imputato se presente, altrimenti in conseguenza delle modifiche apportate in tema di processo in assenza, il Giudice dovrà disporre necessariamente il rinvio ad una nuova udienza, disponendo la notifica del verbale all’imputato entro un termine non inferiore a 10 giorni dalla data della nuova udienza. Ecco la precisazione del comma 1 bis dell’art. 421 c.p.p., precisazione non certamente superflua, poiché non potrebbe trovare qui piena e diretta attuazione la nuova disciplina prevista dall’art. 420 c.p.p., forza del quale, tutti sanno che si debbano ritenere presenti all’udienza anche coloro che abbiano depositato richiesta di rito alternativo formulata per iscritto o mezzo di procuratore speciale. Ecco che l’opportunità di riformulare o annullare la richiesta di rito speciale già presentata e ora espressamente prevista dall’art. 420 come equipollente alla presenza impone quindi all’imputato di poter poi effettivamente effettuare una scelta diversa rispetto ad una imputazione che è stata modificata e ad una qualificazione giuridica del reato contestato che magari è stata meglio precisata. Naturalmente tutto ciò se il Pubblico Ministero accoglie l’invito del Giudice, perché se l'organo dell'accusa non ottempera, allora non potendo dare corso alla discussione, in assenza proprio di un’imputazione espressa in forma chiara e precisa, il Giudice dovrà dichiarare anche d’Ufficio la nullità e disporre la restituzione degli atti. La natura di questa nullità è un altro aspetto che riemerge dal contrasto logico già denunciato dalla dottrina con riguardo al protocollo creato dalle Sezioni Unite con la sentenza Battistella. Si è parlato di una previsione speciale soggetta ai più ristretti termini di rilevabilità previsti dall’art. 181. Il fatto però che sia rilevabile anche di ufficio, sia pure a seguito della mancata riformulazione dell’accusa da parte del Pubblico Ministero, permette di ritenere che rientri nelle nullità intermedie di ordine generale ex art. 178 lettera C, quindi venendo in gioco la violazione attinente al diritto di difesa, si può concludere addirittura per una nullità assoluta, per violazione delle norme concernenti l’iniziativa del Pubblico Ministero nell’esercizio dell’azione penale ex art.179. Vedremo come verrà considerata dalla giurisprudenza la natura di questa nullità.

L’altro controllo che la riforma attribuisce al Giudice dell’Udienza Preliminare o dell’udienza predibattimentale, una volta superato in maniera positiva il primo controllo, quello previsto dall’art. 421, riguarda la mancata corrispondenza tra le risultanze degli atti e l’imputazione. L’imputazione potrebbe infatti essere formulata in termini estremamente puntuali, quindi secondo tutti i requisiti previsti dall’art. 417, però bisogna ancora verificare se il fatto, la definizione giuridica, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, siano indicate in termini corrispondenti a quanto emerge dagli atti. Abbiamo allora questa nuova disciplina inserita nel comma 1 bis dell’art. 423 e nel comma 6 dell’art. 554 bis, per quanto riguarda l’udienza predibattimentale. Si consente al Giudice di disporre, anche d'ufficio, la restituzione degli atti al Pubblico Ministero affinché il fatto, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misura di sicurezza, nonché i relativi articoli di legge, siano indicati in termini corrispondenti a quanto emerge dagli atti. E’ chiaro che il rimedio qua è volto a prevenire la necessità di intervenire sull’imputazione nel corso dell’Udienza Preliminare o nel corso dell’istruzione dibattimentale, per l’emersione di un fatto diverso o addirittura nuovo, in modo da prevenire proprio una nullità della sentenza per difetto di contestazione, art. 522. Si risponde così anche all’esigenza di offrire all’imputato la possibilità di difendersi in merito alla nuova qualificazione penale già nel giudizio di primo grado, evitando che l’individuazione del titolo di reato più corretto avvenga solo al momento della deliberazione della sentenza. Potremmo parlare quindi di un duplice momento di controllo giurisdizionale: il primo volto a suggerire interventi che intercettino vizi evidenti dell’imputazione, tutti interni alla richiesta di rinvio a giudizio; il secondo, incentrato invece credo meglio, sugli esiti della discussione in Udienza Preliminare e raffronto con gli atti contenuti del fascicolo che possono mettere in luce, grazie proprio al contraddittorio delle parti, a priori sfuggite al vaglio iniziale della imputazione. Quindi se la nuova formulazione dell’art. 421 primo comma, il controllo sulla specificità dell’imputazione è solo implicitamente legato gli atti contenuti nel fascicolo, nel nuovo coma 1 bis dell’art. 423 l’aggancio agli atti contenuti nel fascicolo è esplicito, con la conseguenza di consacrare la necessaria corrispondenza dell’imputazione che esce dal filtro dell’Udienza Preliminare al contenuto degli atti raccolti. Quindi, in estrema sintesi, un doppio canale di controllo: analisi in entrata dei possibili vizi della richiesta di rinvio a giudizio, il tentativo è quello, di neutralizzarli attraverso l’intervento correttivo del Giudice o attraverso la dichiarazione di nullità e la susseguente regressione alla fase delle indagini preliminari. Analisi in uscita dell’imputazione che rifluirà, nell’eventuale decreto che dispone il giudizio, alla luce degli elementi emersi durante la discussione, attraverso il suggerimento del Giudice, oppure la regressione nella fase precedente, ecco qui la regressione, non si basa su un vizio dell’atto di esercizio dell’azione penale, poiché l’incongruenza fra atti e imputazione, emerge sulla base dell’esame degli atti contenuti nel fascicolo e all’esito della discussione avvenuta durante l’udienza. Ecco anche la modifica dell’art. 423, almeno nell’intenzione del legislatore dovrebbe incoraggiare le richieste di riti speciali, rimanendo le parti legittimate alla domanda di rito speciale fino alla presentazione delle proprie conclusioni, gli effetti positivi del controllo giurisdizionale sull’imputazione, e quindi anche sulla corretta qualificazione giuridica, dovrebbero tradursi in una razionalizzazione delle richieste di rito alternativo. Altro effetto che si impone il legislatore con questa modifica, quella dell’art. 423, è impedire che dalla discrasia tra l’imputazione passata al vaglio dell’Udienza Preliminare e gli atti delle investigazioni, possano emergere a giudizio contestazioni suppletive, cosiddette patologiche. Ricordiamo che su questo tema la giurisprudenza ha sempre riconosciuto, non solo la piena autonomia del Pubblico Ministero nel determinarsi, tra imputazione singola o cumulativa, ma anche il ricorso alle nuove contestazioni dibattimentali, concepite dal legislatore con altre finalità, non già sulla base dell’evolversi delle risultanze dell’istruzione probatoria, bensì sulla base degli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari al momento originario della contestazione, Sempre secondo il legislatore questa prassi sarà resa impossibile dalla nuova formulazione, sia dell’art. 421, sia dalla nuova formulazione del comma 1 bis dell’art. 423 che impone il controllo giurisdizionale sulla completezza e la precisione dell’imputazione, da misurarsi in relazione al contenuto fin lì acquisito del fascicolo. Ecco, un aspetto che secondo me dovrebbe essere evidenziato, e forse oggetto anche di discussione. Chiedersi se a seguito della regressione del procedimento alla fase dell’Indagini Preliminare, per la formulazione della richiesta di rinvio e giudizio, la modificata imputazione in termini di chiarezza o di precisione determini una situazione di incompatibilità alla celebrazione dell’udienza da parte del GUP che ha dichiarato la nullità dell’atto, no? La soluzione va trovata a mio parere nel rinvio in via analogica alla Sentenza della Corte Costituzionale 21 gennaio 2022 numero 16, in merito l’art. 34 comma 2, là dove non contempla l’incompatibilità del Giudice a pronunciarsi su una richiesta riformulata. Secondo la Corte Costituzionale, come sappiamo, l’incompatibilità dovrebbe sussistere in tutti i casi in cui l’attività del Giudice si configuri come oggettivamente sostitutiva del potere, dovere, di iniziativa del Pubblico Ministero, ed è determinata da valutazioni di merito, circa l’idoneità delle risultanze probatorie a fondare un giudizio di responsabilità dell’imputato, il GUP annullando la richiesta di rinvio a giudizio pone in essere un’attività sostitutiva del potere, dovere di iniziativa del Pubblico Ministero, con conseguente commistione di ruoli atta a minare la sua stessa imparzialità. Si applica quella che viene chiamata una forma di incompatibilità orizzontale, quindi finalizzate ad evitare una situazione condizionata dalla forza della prevenzione, ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto a seguito di precedenti valutazioni del Giudice. Di qui l’esigenza che la nuova udienza preliminare sia attribuita alla cognizione di altro Giudice. Io ho trovato una Sentenza recente, abbastanza recente, della III° Sezione della Cassazione, che magari qualcuno di voi conosce, sicuramente alcuni la conoscono, 28 giugno 2023, la numero 28037.

La Corte di Cassazione in questa sentenza ha preso atto di due orientamenti. Si ritiene che l’orientamento volto a consentire in caso di genericità o indeterminatezza del fatto descritto nel capo d’imputazione al Giudice del dibattimento, di dichiarare la nullità del decreto che dispone il giudizio, senza alcuna previa sollecitazione rivolta al Pubblico Ministero, a integrare o precisare la contestazione, sia l’orientamento preferibile. Ecco quindi, secondo questa Sentenza, in dibattimento non vale il meccanismo correttivo che consente al GUP di sollecitare il Pubblico Ministero alle opportune precisazioni di fatto e alle ragioni giuridiche alla base del difetto d’imputazione. Quali sono gli argomenti che nella Sentenza vengono evidenziati per preferire questo modo di procedere? Da una parte questa lettura che non permette al Giudice del dibattimento di sollecitare il PM a modificare l’imputazione, può essere giustificata dal fatto che la fluidità della imputazione tipica di snodi procedimentali, come quella dell’Udienza Preliminare o dell’udienza predibattimentale, non si riscontra nel corso del dibattimento. dei quesiti, però ecco mi sembra che lo stato di conoscenza che abbiamo della disciplina, non possa permettere diciamo ulteriori valutazioni, se non questi quesiti che almeno io sono stato in grado di rapportarvi.

La Cassazione fa proprio riferimento alla riforma e alla nuova versione dell’art. 421 primo comma. E' la nuova versione dell’art. 421 a legittimare questa impostazione, la circostanza che il legislatore di fronte ad una situazione di incertezza applicativa abbia inteso disciplinare la descritta fattispecie, con esclusivo riferimento alla fase dell’Udienza Preliminare, rende ancora più evidente la riferibilità del meccanismo processuale solo e soltanto a tali ipotesi, e non anche al processo dibattimentale, apparendo diversamente, sto leggendo il testo, apparendo diversamente inspiegabile ove si fosse voluto estendere il meccanismo di necessaria interlocuzione, anche alla fase dibattimentale, l’inerzia del legislatore in ordine a tale altro momento processuale. Quindi proprio la scelta legislativa impatta positivamente su questa lettura. Ecco qualche considerazione di sintesi e proprio per richiamarmi anche a quanto diceva il collega Daniele all’inizio e all’introduzione... mi si chiedeva il rapporto tra Giudice e Pubblico Ministero che esce fuori da questa, da questa riforma, forse proprio come diceva il Presidente Longo all’inizio speriamo, tutti sperano, che questo duplice controllo del Giudice possa effettivamente avere tutti quei benefici che abbiamo detto prima, arrivare a dibattimento avendo un oggetto certo, suscettibile di essere modificato soltanto dalle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, e non da altro... però alcuni dati proprio sul rapporto fra Giudice e Pubblico Ministero... questo meccanismo li evidenzia, e quali sono? Forse si è persa l’occasione di sottrarre al Giudice il ruolo innaturale assegnatogli dalla prassi di supplenza del Pubblico Ministero. Altro aspetto, io ritengo che sia davvero difficile pensare che il Giudice si impegni alla costruzione dell’imputazione, se non nella prospettiva del rinvio a giudizio. Mi si dice che questa riforma dovrebbe incentivare l’imputato a optare per un rito alternativo, potrebbe anche essere esattamente il contrario, l’imputato resta disincentivato a optare per un rito alternativo dinanzi ad un Giudice che ha sensibilmente contribuito a plasmare l’oggetto del giudizio. E poi da ultimo, questi controlli attribuiti al Giudice, soprattutto il secondo, quello relativo alla coerenza fra l’imputazione e ciò che è presente negli atti di indagine siamo sicuri che possano essere effettivamente portati avanti dal Giudice dell’Udienza Preliminare con i carichi di lavoro che hanno i Giudici dell’Udienza Preliminare? Io devo dirvi, ho parlato con alcuni Giudici qua a Milano, e tutti quelli che ho sentito, non sono un numero significativo, quindi contano quello che contano, che possono valere, ma tutti quelli che ho sentito, vi assicuro, mi hanno garantito che questo controllo è impossibile, che questo controllo di coerenza dell’imputazione con quanto emerge dagli atti del fascicolo, è impossibile, soprattutto d’Ufficio soprattutto se non c'è una sollecitazione da parte della difesa. Mi rendo conto di aver concluso, lasciandovi più delle domande, dei quesiti, però ecco mi sembra che lo stato di conoscenza che abbiamo della disciplina, non possa permettere diciamo ulteriori valutazioni, se non questi quesiti che almeno io sono stato in grado di rapportarvi. 

Avv. Daniele Livreri (moderatore): grazie Simone, grazie per questa relazione che ci ha consentito di svolgere già degli illuminanti approfondimenti su questa nuova disciplina. Emerge effettivamente un pessimismo credo, se posso permettermi in qualche modo di tradurre, sullo sfondo, ma,  ora non vorrei sbagliare, io ricordo che quando noi abbiamo introdotto l’Udienza Preliminare qualche autore americano disse, a proposito del loro meccanismo analogo, che già non funzionava da loro, che ne hanno una lunga tradizione. Io credo che forse, come dire, da pratico del diritto, l’esperienza dei filtri, e quindi la capacità del Giudice dell’Udienza Preliminare di accentuare il controllo, perché questo vorrebbe in fondo la riforma, forse è un po’ velleitario come in qualche modo sottolineavi nel tuo intervento, peraltro mi rimane anche piuttosto oscuro in tutto questo, il ruolo della difesa, cioè mentre mi è chiara l’interlocuzione, mi è chiara e mi lascia un po’ perplesso, tra Giudice e Pubblico Ministero nel contribuire, mettiamola così, a definire l’imputazione, quale che ne sia il deficit., un po’ meno chiara è la locuzione “sentite le parti” rispetto al difensore. Non capisco benissimo quale sia l’apporto che la difesa dovrebbe o avrebbe interesse ad apportare. Diciamo siamo davanti a un legislatore, se mi consentite, un cattivo latino, caratterizzato da un horror regressionis, però se c’è una regressione, nel senso che la difesa lamenta una nullità, e quella nullità conduce a restituire gli atti al PM che nella sua stanza rimedita l’imputazione, beh, quello mi era chiaro come schema, oggi che cosa io dovrei dire rispetto all’infedeltà agli atti? E dire a un GUP “bene, reimpostiamola così”, ora francamente, come dire, ho la sensazione che, ecco difetti l’esperienza del rapporto minimo con un cliente, scusate se forse abbasso e di gran lunga il livello delle relazioni, ma insomma, se un mio cliente poi fosse condannato sulla scorta di un’imputazione che in qualche modo io ho potuto contribuire a definire, magari alla sua presenza, in udienza preliminare, vi assicuro che avrei pure qualche difficoltà, onestamente, capisco che sono osservazioni, terra a terra, di un pratico del diritto che magari ha la sventura di frequentare un po’ le aule, ma non ho sicuramente gli orizzonti né del professor Lonati, nè del professore Negri, cui cedo immediatamente la parola, sperando che, ecco ci possa aiutare a cogliere a questo punto qual è sostanzialmente l’oggetto del controllo che si devolve al Giudice già da un punto di vista, come posso dire, astratto, questa imputazione da controllare, la sua fluidità, i suoi limiti, la tenuta, in fondo di questa riforma, secondo me, appunto già a livello astratto, rischia di essere pregiudicata da soluzioni giurisprudenziali che in realtà finiscono per ampliare i confini della imputazione, alcune volte sino a renderle, come dire, un quid piuttosto evanescente. Professor Negri , a questo punto a te la parola, spero tu possa rimediare ai miei errori.

Professor Daniele Negri  (relatore): L’imputazione, come noto, è il mezzo che fissa l’oggetto principale di prova e delimita il thema probandum. Attorno alle vicende modificative dell’imputazione e al suo rapporto con il contenuto della sentenza (principio di correlazione), siamo di fronte – da tempo forse immemorabile, ma certamente con un’escalation negli ultimi decenni – ad un’antitesi, che si traduce in un conflitto di concezioni e in un conflitto di mondi e di modi di concepire il diritto e il processo penale.

Da un lato si ha l’accezione formale, per cui l’imputazione è essenzialmente il contenuto di un atto, ovverosia l’atto d’accusa. Per chi accede a questa concezione sorge la necessità che tale passaggio rivesta un carattere formale, sia dal punto di vista del rispetto dei limiti della fattispecie incriminatrice, sia, per ciò che ci interessa, dell’osservanza delle norme processuali che presidiano il momento di individuazione dell’accusa.

Dall’altro lato, invece, si ha la flessibilità, il funzionalismo e gli scopi che, via via, la giurisprudenza ha introdotto come strumenti attraverso i quali eludere, fino a disgregarle, le forme del processo intorno al problema dei limiti contenitivi dell’accusa e dei presìdi (le invalidità) nel caso di trasgressione di questi stessi limiti. Pertanto, vi sono due modi di concepire l’imputazione: quello del limite, della delimitazione, delle forme e quello della flessibilità, del funzionalismo, dello scopo.

Di recente, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 146 del 2022, ha parlato di un principio di fluidità dell’imputazione, un dato caratterizzante del nostro sistema processuale, anche in sede dibattimentale. Tale concetto deve poi essere adeguato al diritto di difesa, quale principio supremo dell’ordinamento costituzionale. Già nel modo di impostare, anche soltanto sintatticamente il problema, ci si trova però dinnanzi a una logica di recupero a posteriori del diritto di difesa. Si lasciano, infatti, ampi margini di elasticità nella modifica dell’accusa durante il processo, anziché – tornando al metodo individuato in precedenza – irrigidire la struttura dell’imputazione ovvero il modo in cui l’accusa deve essere formulata, ergendolo ad autentico limite del thema decidendum. Così la difesa si potrà recuperare, è un principio supremo, sì, ma attenzione, c’è una fluidità dell’imputazione. Questo lo si sostiene appoggiandosi all’idea del processo accusatorio, il quale, fondato sull’istruzione dibattimentale, non può che prevedere che l’accusa sia modificabile, in quanto a renderlo necessario è la prova che, via via, si forma durante il dibattimento. Tuttavia, un conto è prevedere una sia pure limitata, circoscritta, relativa flessibilità nella contestazione da parte del pubblico ministero in dibattimento, altro è questo principio di fluidità lasciato correre, che evoca scenari assai differenti.

Il sistema accusatorio prende il nome proprio dal fatto che dovremmo avere un accusatore (il pubblico ministero), organo diverso dal giudice, che formula in maniera chiara e solenne l’accusa, in una specifica classe di atti. Il thema decidendum del giudice si deve ritrovare in un atto che ha un nome preciso ed è deputato a tale scopo. Questo atto è quello che contiene l’imputazione, cui spetta il compito di mediare tra la figura astratta del reato (la norma incriminatrice) e l’accadimento storico. Il passo decisivo, in ogni caso, non è tanto questo. A un livello elementare, si rinviene l’esigenza di dare concretezza alla fattispecie penale astratta e di mediare, attraverso la formulazione dell’imputazione, tra i due piani dell’astratto e del successivo accertamento in concreto. Il passo decisivo è munire l’imputazione, dal punto di vista della legge processuale, di fattispecie che mutuino a loro volta gli elementi strutturali dello schema della norma incriminatrice sul piano processuale. Il modo di scrivere e di redigere l’imputazione secondo le prescrizioni della legge processuale deve essere legato, vincolato, alla struttura della fattispecie incriminatrice. Non solo, ma nel caso in cui tale struttura non sia rispettata, dunque il vincolo non sia osservato, dovrebbe esservi la conseguenza immancabile della invalidità, sub specie di nullità. Se non è chiaro questo, del processo accusatorio rimane poco.

Non è meramente un affare di norme incriminatrici più o meno determinate, tassative, ma è anche, per quanto concerne l’emisfero processuale, un problema di griglia normativa che imbrigli l’operato del pubblico ministero, allorquando formula l’imputazione. Molto vicine a questa idea rigorosa sono le disposizioni di cui agli artt. 417 e 429 c.p.p., per come il legislatore, soprattutto dopo la riforma del 1999 (legge n. 479/1999) le ha concepite, richiedendo, cioè, una qualità nella stesura dell’imputazione, là dove prescrive che l’enunciazione del fatto debba essere chiara e precisa.

Per quel che riguarda la chiarezza, questo elemento si incarica di tradurre sul piano processuale i caratteri macroscopici dell’imputazione. Chiara è quell’imputazione la quale contenga tutti gli elementi della fattispecie penale tipica. Al contrario, è un’imputazione mancante sotto il profilo della chiarezza quella che non si incarichi di dar conto di ciascuno degli elementi costitutivi del reato: quando manca anche solo una di queste particelle, l’imputazione dovrebbe essere nulla per mancanza.

Mentre a livello macroscopico il discorso è facile, più difficile è dare significato all’altro requisito, quello della precisione. È noto che, sul piano del grado di approfondimento descrittivo interno a ciascuno dei riquadri che debbono dare corpo agli elementi costitutivi dell’illecito, il discorso si complica, si fa più concreto: dipende, cioè, da caso a caso. Senza dubbio, sono da evitare le imputazioni generiche, meramente riproduttive, o poco di più, del dato normativo. Così come, sul versante esattamente opposto, le imputazioni cosiddette narrative o “monstre”, gonfie di dettagli, troppo minuziose, perché scendono a considerare e a seguire rivoli magari superflui, con il rischio di diventare dispersive e di far perdere l’imputazione di precisione e di analiticità.

L’opera del pubblico ministero di individuazione dell’imputazione è, indubbiamente, in molti casi – sebbene non sempre – difficile. Si pensi alla scelta della norma incriminatrice alla quale dare rilevanza quando si ha a che fare con il concorso apparente di norme, oppure a un diritto penale che non è più frammentario e, di conseguenza, non lascia congrui spazi vuoti tra l’una fattispecie e l’altra. In queste ipotesi è più facile che il pubblico ministero si trovi a ritagliare una porzione, un brano di vita, una situazione di fatto che può ricadere, anche alternativamente, nell’una o nell’altra norma incriminatrice.

Certamente difettosa, però, è quell’imputazione che, anziché limitarsi alle note essenziali del fatto tipico, riversa al proprio interno elementi appartenenti al corredo probatorio. Questo determina che vi sia più facilmente un’eccedenza di materia rispetto a quella che dovrebbe essere essenziale. Questo eccesso, derivante dall’inosservanza dello schema della fattispecie penale, si traduce poi in una serie di conseguenze a cascata, di strategie, di escamotage, di forme, cioè, che tendono, se non a eludere, a rendere più complicato il quadro nel momento in cui occorre capire da che cosa ci si difende.

Se si prende come esempio, fra i tantissimi altri, una sentenza del 2017 della Cassazione, ricorrente Golfarini, lì troviamo scritto che «è esclusa la necessità di modificare l’imputazione, qualora nell’imputazione figurino elementi di fatto sovrabbondanti rispetto al paradigma della norma incriminatrice, che rendono prevedibile la diversa qualificazione giuridica». Non è necessario, quindi, che il pubblico ministero adegui formalmente l’imputazione, perché è rispettata la correlazione tra accusa e sentenza anche in mancanza di questo passaggio intermedio della contestazione di un’accusa modificata. La materia sovrabbondante può stare nella qualificazione giuridica primaria individuata dal pubblico ministero, ma potrebbe anche segnalare, in termini di prevedibilità, che altra fattispecie penale è, invero, quella contestata sotto il profilo del nomen iuris.

Dunque, la prassi, confortata da questo genere di pronunce della Corte di legittimità, ci mostra il fenomeno patologico di una regiudicanda, di un oggetto del processo, che è mantenuto aperto dall’inizio alla fine dell’itinerario processuale. Un processo lasciato, direi più propriamente, programmaticamente instabile dal pubblico ministero, per intuitive ragioni strategiche. Il magistrato dell’accusa non tanto trascura di adeguare la fisionomia dell’addebito, perché gli sfugge l’emersione di dati probatori convergenti su una certa fattispecie penale, quanto comincia con la ricostruzione dell’episodio criminoso nei termini più gravi, per lui più convenienti a vari fini. Il giudice ben potrebbe ritenere che sia integrata proprio quella fattispecie maggiore, ma se la prova fallisse su quella prima fattispecie, su connotati strutturali utili a questa precaria “iper-qualificazione” dell’illecito, potrà trovare il giudice disponibile alla condanna dell’imputato almeno per un tipo di illecito di minore disvalore, se soltanto questo esibisce qualche tratto comune con quello contestato. Pertanto, rapidamente, senza dilungarsi su questo aspetto, si pensi alle ipotesi riconducibili alla figura giuridica della progressione criminosa, al rapporto di specie a genere tra l’una fattispecie e l’altra, al rapporto di continenza tra l’una fattispecie e l’altra, fino al caso in cui i rispettivi nuclei essenziali della condotta  e dell’elemento soggettivo  si pongono in relazione di radicale alterità l’uno rispetto all’altro: da concorso in estorsione a favoreggiamento personale, da furto a ricettazione, da concussione a corruzione, da dolo a colpa, o nell’ambito della colpa, alla variazione della norma cautelare di riferimento trasgredita all’interno di un addebito più generale a titolo colposo. Sono tutti esempi agilmente rinvenibili nei repertori giurisprudenziali, ove non si ha nessuna cura di affermare che servisse una modifica della contestazione e che, benché questa non sia intervenuta, il principio di correlazione è rispettato.

Forse non vi è nessun altro settore del processo penale, al pari proprio del gruppo di norme che vanno dall’art. 516 all’art. 522 c.p.p., dove le cause di invalidità, le nullità programmate dalla legge, siano smentite in modo plateale e sistematico dalla giurisprudenza, tanto che possiamo formulare una diagnosi sulle ragioni e sulle tecniche di questa pervicace tendenza a disconoscere le imperfezioni degli atti di imputazione e a negare che fosse necessario un mutamento dell’accusa.

Le ragioni sono presto dette: l’horror regressionis, l’efficienza che domina su tutto, l’economia processuale, in quanto ricominciare il processo sarebbe un danno. La giurisprudenza, ivi comprese le Sezioni unite Battistella, argomenta sulla scorta della ragionevole durata del processo, principio che serve a nobilitare sul piano costituzionale tale invocazione di esigenze eminentemente efficientistiche, del far presto, del non regredire, perché regredire ha un costo. Da questo punto di vista, il migliore insegnamento dovrebbe essere quello di dichiarare la nullità da parte del giudice. Disfunzioni e problemi derivano al giudice stesso, nel momento in cui gli si chiede di scrutinare la corrispondenza dell’imputazione agli atti. Un giudice che dichiara severamente la nullità fa sì che si determini una deterrenza per il pubblico ministero a costruire in maniera generica, criptica, narrativa, o comunque imprecisa, l’imputazione. I pubblici ministeri avrebbero tutto da imparare se venissero dichiarate le nullità, starebbero assai più attenti almeno nel medio-lungo periodo. Ci sarebbe un effetto di carattere, potremmo dire, “disciplinare”, ovverosia del disciplinarli nello stendere correttamente l’imputazione. Al contrario, questi meccanismi, questi protocolli, le Sezioni Unite Battistella ora codificate, non costituiscono che un alibi per il pubblico ministero a redigere l’imputazione in maniera superficiale, poiché egli saprà che ci sarà un giudice il quale gli tenderà la mano e correrà in suo soccorso, sollecitandolo a correggersi tardivamente.

A prescindere da questo, analizziamo quali sono queste tecniche e metodologie, tra di loro fortemente apparentate, attraverso le quali viene totalmente messo da parte il presidio della nullità per difetto di correlazione tra accusa e sentenza.

Innanzitutto, il criterio della diversità del fatto: il fatto è diverso e va contestato solo quando si sia di fronte ad una sua radicale trasformazione. Tra le moltissime, si possono citare, a titolo di esempio, le Sezioni unite del 2010, Carelli, ove si afferma che «l’indagine volta ad accertare la violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza non si esaurisce nel pedissequo e mero confronto, puramente letterale, “fra contestazione e sentenza”». Si precisa tuttavia che «il fatto è diverso solo quando la struttura della imputazione originaria risulta radicalmente trasformata, restando irrilevanti variazioni che non incidono sul nucleo identificativo della condotta contestata». Dunque, non ogni modifica, ogni variazione di anche uno soltanto degli elementi costitutivi dell’illecito – ossia la macrostruttura dell’imputazione citata in precedenza – rispetto al fatto reato, ma solo una porzione isolata di quel fatto è il nucleo intorno al quale tutto il resto può cambiare, senza necessità di previa contestazione e nel conseguente rispetto del principio di correlazione.

Secondo criterio: il pregiudizio effettivo della difesa. Qui si è in pieno funzionalismo e in piena concezione teleologica del fatto: «l’obbligo di correlazione tra accuse e sentenze è violato non da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione del fatto dedotto nell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato». A questo primo livello – vi sono sul punto molteplici pronunce della Cassazione – si rinviene ancora un minimo di scrupolo nel dire che, oltre a un certo grado e a una data soglia, la modifica del fatto pregiudica la possibilità di difesa dell’imputato. Talvolta, questo criterio è comunque talmente spinto all’eccesso che viene declinato in modo da determinare una sorta di completa inversione dei piani: è la ratio del principio di correlazione, cioè la tutela del diritto di difesa, che si sostituisce all’esigenza di mantenere inalterato il fatto. Il punto di partenza dovrebbe essere che il fatto va formalmente modificato per tutelare la difesa. Rovesciando i piani, se l’imputato ha potuto difendersi, il fatto non andava modificato e la correlazione è rispettata. Per esempio, Cassazione 2013, Crescioli, Cassazione 2008, Pirrello: sono molte le pronunce che indulgono a questa idea. Tanto che qualche sentenza ha bisogno di arginare questa tendenza a prescindere in toto dall’entità della trasformazione del fatto, poiché in questa prospettiva qualunque sia il livello di modifica, avendo la difesa potuto difendersi, esso non comporta la necessità di modificare il fatto. Qualche pronuncia giurisprudenziale si rende conto che si è dinnanzi alla totale inversione dei piani. Per esempio, Cassazione del 2005, Vignola, ove si afferma che «il criterio teleologico è da ritenere di stretta interpretazione e pertanto non applicabile quando, tra fatto reato contestato e fatto ritenuto in sentenza, vi sia un rapporto di piena e irriducibile alterità, senza una matrice di condotta unitaria». Si torna, infine, al discorso della radicale trasformazione.

Il terzo criterio e metodo, usato dalla giurisprudenza per scardinare le forme e le esigenze sottese al principio di correlazione, è quello dell’imputazione c.d. “sparpagliata”, disseminata lungo l’arco del processo, o contestazione ex actis, una contestazione globale, onnicomprensiva. Si vedano Cassazione del 2013, Lucera, Cassazione del 2008, Fontanesi, tra le altre. Il fatto contestato non è solo quello enunciato nel capo d’imputazione, ma tutto il complesso degli elementi portati a conoscenza dell’imputato, l’imputazione è nelle prove. La contestazione coincide, potremmo dire, con il processo: è il processo che va alla ricerca del fatto di reato, alla maniera inquisitoria, dalla ricerca del corpus delicti, anziché tendere all’accertamento e alla decisione di un fatto predeterminato e previamente contestato. A escludere la modifica dell’accusa è sufficiente che l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi, perché il principio di correlazione possa dirsi salvaguardato.

Cosa ne emerge qui? Cosa ne è della difesa di fronte a tutto questo, come si deve comportare? La difesa e il contraddittorio non sono qui intesi come una replica, un’antitesi, una confutazione rispetto a singoli elementi del fatto penalmente rilevante, schierati davanti alla difesa dall’organo dell’accusa, che ha l’onere di dimostrare ciascuno di questi elementi costitutivi della responsabilità penale. La difesa può certamente mirare a smentire integralmente la ricostruzione del fatto, ma può anche concentrarsi nell’aggredire, in forma puntuale, analitica e mirata, alcune porzioni di fattispecie, attaccarne un singolo elemento, perché le basta suscitare il dubbio ragionevole su qualcuno degli elementi necessari all’affermazione della colpevolezza per ottenere il proscioglimento. La strategia della difesa e il responso sul pregiudizio patito, così spesso invocato dalla giurisprudenza, sono indissolubilmente e anche etimologicamente collegati. Si parla, infatti, di una difesa da un attacco. Pensiamo alle imputazioni alternative: difendersi dall’una scopre il fianco sull’altra. L’argomentazione critica nei confronti di una delle imputazioni alternative finisce per rafforzare l’altra. Ciononostante, il modello dell’imputazione alternativa è ritenuto legittimo pacificamente dalla giurisprudenza, si veda Cassazione del 1999, Arces, tra le tantissime.

Da qui l’importanza fondamentale della concezione formale della contestazione: diverrebbe altrimenti impossibile stabilire, tranne che con un arbitrio del giudice, se, a fronte di un diverso fatto contestato, schierato nell’attacco del pubblico ministero, la strategia sarebbe cambiata e se dalla mancata modifica dell’addebito è derivato o meno un pregiudizio effettivo a fronte della decisione del giudice. Come si può autenticamente dirlo? Emerge, all’opposto, quest’altra concezione della difesa, che non ha bisogno di sapere da dove proviene l’attacco, di conoscere chiaramente qual è il fatto da cui difendersi, e che quindi deve difendersi a tutto campo, in modo radicale, proprio perché non sa da dove promana questo attacco, se tutto è contenuto nel processo. Sul tema dell’imputazione ex actis si veda Cassazione 2007, ricorrente Sartori, ove si afferma che si ha «violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando la struttura dell’imputazione sia stata modificata al punto che, per effetto della divergenza introdotta, la difesa prestata non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità dai fatti criminosi globalmente considerati». Emerge bene questa idea di una difesa che deve difendersi da ogni spunto che venga dalle prove, perché ciascuno di questi spunti forniti dagli elementi probatori, e non da quelli descrittivi del fatto, può essere innalzato a imputazione dal giudice e ritenuto dunque in sentenza, senza previa correlazione.

Essendo l’accusa sparpagliata, non importa neppure chi ne sia l’autore: non occorre che il pubblico ministero prenda posizione. Si veda Cassazione del 2003, Tucciariello, ove si dichiara che «la precisazione dell’accusa è avvenuta in dibattimento ad opera della persona offesa in presenza dell’imputato». Come a dire: la precisazione è provenuta in udienza dalla persona offesa, l’imputato non lo sapeva che si doveva difendere? Da dove proviene quest’accusa, ormai? Non è più neppure sufficiente che un atto sia rivolto nei confronti proprio di quell’imputato: l’imputazione contestata all’imputato A può essere integrata con l’imputazione addebitata, nello stesso processo contestualmente, all’imputato B. Passa da B ad A, per traslazione. Fortunatamente, la Cassazione, Sezione II, del 2023, Baglio e altri, se non altro sottolinea come non sia possibile sostenere il rispetto del principio di correlazione, laddove vi sia l’estensione di un’imputazione contestata ad altro imputato.

La giurisprudenza arriva al paradosso, un paradosso coerente, però, con la logica di una contestazione non formale, ma sostanziale, con il Leitmotiv del requisito del pregiudizio effettivo e cioè, in sintesi, con l’auto-contestazione. Quando è la difesa a portare sulla scena un fatto diverso da quello contestato, prospettandolo a propria discolpa, succede che, in questo modo, l’imputato se n’è assunto i rischi. Una volta esercitata a questa stregua la sua difesa, egli non può lamentarsi di una conforme modifica del thema decidendum da parte del giudice, anche se non c’è stata la previa contestazione del pubblico ministero: l’imputato si è fatto automaticamente carico del suo assunto e, in relazione al diverso fatto, ha apprestato la sua difesa. È una concezione collaborativa della difesa, che concorre a costruire il tema dell’accusa; un’inversione dell’ordine dei fattori, la quale ordine poggia l’onere della prova a carico dell’accusa. Occorre sapere cosa va provato, per poter affermare se è rispettato l’onere della prova da parte del pubblico ministero, che deve dimostrare positivamente la responsabilità dell’imputato. Con questa rappresentazione ex actis dell’imputazione non si ha nemmeno più un centro, non si sa neanche a cosa fare riferimento per accertare, ad esempio, se l’onere della prova sia stato rispettato da colui sul quale incombe.

Infine, il grande capitolo in cui la giurisprudenza usa il potere di riqualificazione giuridica del fatto come alibi, come etichetta, per nascondere modificazioni sostanziali del fatto storico e così aggirare i presidi normativi previsti per l’adeguamento del fatto (artt. 516 ss. c.p.p.), giustificando tutto attraverso il principio iura novit curia. Su questo esiste una giurisprudenza europea, ma meriterebbe forse un discorso a sé analizzare cosa accada ai dettami della giurisprudenza di Strasburgo in seguito calati a livello domestico. Certo, esiste, sebbene sia un’ipotesi rara, la mera correzione dell’errore di sussunzione: il fatto rimane immutato, come descritto nell’imputazione, e viene riqualificato giuridicamente in modo corretto. È noto tuttavia che, nel 99% dei casi, la qualificazione giuridica è la conseguenza di una diversa ricostruzione fattuale, perché si dà rilevanza a elementi alternativi, aggiuntivi, rispetto alla fattispecie tipica, inizialmente prescelta e descritta. Oppure, in altri casi, qualche elemento viene sottratto dal delitto consumato o aggiunto al delitto tentato. In altri termini, la riqualificazione giuridica dà rilevanza a elementi esorbitanti dall’originaria descrizione, sostituendosi ad alcuni di essi o eliminandone altri.

Quando sopravviene questa rilevanza, la variante che si opera sposta il fuoco della difesa e del contraddittorio. Si giunge così a considerare da un’altra angolazione, da una nuova luce, anche gli elementi di fattispecie che sono rimasti eventualmente, immutati, fissi, i quali vengono ricolorati. Alla fine dei conti, tutto ciò provoca una reazione a catena tra le componenti strutturali del fatto, arrivando a una sua rilettura complessiva. Questo implica che la difesa abbia la chance di riorientarsi nella propria strategia argomentativa e probatoria, non solo introducendo nuove fonti di prova, ma anche magari conducendo diversamente l’esame di quelle che siano già state assunte: il difensore avrebbe potuto chiedere altro, in modo diverso, se quella fosse la porzione di fatto che non si era ancora attivata e che ora viene in considerazione “a sorpresa” in una sentenza finale.

Cade così la concezione formale e strutturale dell’imputazione. Se rileva tutto quello che è stato reso noto nel processo alla difesa, che in qualunque modo sia apparso sulla scena, ed è diventato oggetto di contestazione, non formale, ma sostanziale, allora, estremizzando, non ci sono fatti – a meno che non siano in nessun modo comparsi nel processo – da cui l’imputato non abbia potuto difendersi. Perciò, è sufficiente che la qualificazione giuridica finale aderisca a qualcuno di questi fatti, per ritenere rispettato il principio di correlazione tra accusa e decisione; afferisce, in definitiva, al criterio iura novit curia una modifica del fatto descritto nell’imputazione, con contestuale mutamento della qualificazione giuridica, operata direttamente in sentenza senza previa contestazione da parte della pubblica accusa.

Ci deve fare carico di questo, alla luce altresì di una giurisprudenza europea che sul punto non è del tutto chiara, poiché lascia molte zone oscure. Si pensi al criterio della prevedibilità della modifica del nomen iuris, di cui subito la giurisprudenza nostrana si appropria, affermando che, proprio nel momento in cui il fatto resta immutato, ovverosia nei casi marginali ove effettivamente il nomen delicti è cambiato senza che ci sia una variazione fattuale, allora era prevedibile che la qualificazione giuridica potesse essere un’altra. Come a dire, sul piano tecnico-giuridico, il difensore doveva saperlo, possedendo la preparazione per avvedersene. Vi sono poi degli slittamenti: si legge, ancora, nella giurisprudenza come non sia necessaria una previa informazione sul mutamento del nomen delicti, anche a seguito della nota sentenza della Corte di Strasburgo nel caso Drassich. Sul punto, la giurisprudenza domestica stabilisce che non vi sia bisogno di questa previa informazione sulla modifica del nomen delicti, qualora la nuova definizione giuridica appaia come «uno dei possibili epiloghi decisori, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile». Ad esempio, in quel caso, da maltrattamenti in famiglia ad abuso dei mezzi correzione. Cambia poco nella ricostruzione del fatto e, dunque, minimi sviluppi interpretativi sul piano giuridico della qualificazione del fatto sono prevedibili. Talvolta, la giurisprudenza avverte la necessità di un limite all’idea della prevedibilità. Si segnala, tra le altre, la Cassazione del 2013, ricorrente Cavallari, ove si dichiara che «è rispettato il diritto all’informazione, grazie alla prevedibilità, quando il fatto storico sia riconducibile a una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui l’eventuale esclusione dell’una comporta inevitabilmente l’applicazione dell’altra».

Il criterio della prevedibilità è il pendant funzionale, teleologico sul versante della qualificazione giuridica, dei criteri della trasformazione radicale, del pregiudizio effettivo, della contestazione ex actis sul versante del fatto storico. Sostituiscono, aggirano, neutralizzano, eludono la necessità propria del sistema accusatorio, della previa contestazione formale del fatto, come del suo nomen iuris, dunque della natura e dei motivi dell’accusa, così come anche l’art. 111, comma 3, Cost., oltre che l’art. 6 della Convenzione Edu, oggi richiede ai fini di assicurare il diritto di difesa e del contraddittorio.

L’imputazione, come noto, è il mezzo che fissa l’oggetto principale di prova e delimita il thema probandum. Attorno alle vicende modificative dell’imputazione e al suo rapporto con il contenuto della sentenza (principio di correlazione), siamo di fronte – da tempo forse immemorabile, ma certamente con un’escalation negli ultimi decenni – ad un’antitesi, che si traduce in un conflitto di concezioni e in un conflitto di mondi e di modi di concepire il diritto e il processo penale.

Da un lato si ha l’accezione formale, per cui l’imputazione è essenzialmente il contenuto di un atto, ovverosia l’atto d’accusa. Per chi accede a questa concezione sorge la necessità che tale passaggio rivesta un carattere formale, sia dal punto di vista del rispetto dei limiti della fattispecie incriminatrice, sia, per ciò che ci interessa, dell’osservanza delle norme processuali che presidiano il momento di individuazione dell’accusa.

Dall’altro lato, invece, si ha la flessibilità, il funzionalismo e gli scopi che, via via, la giurisprudenza ha introdotto come strumenti attraverso i quali eludere, fino a disgregarle, le forme del processo intorno al problema dei limiti contenitivi dell’accusa e dei presìdi (le invalidità) nel caso di trasgressione di questi stessi limiti. Pertanto, vi sono due modi di concepire l’imputazione: quello del limite, della delimitazione, delle forme e quello della flessibilità, del funzionalismo, dello scopo.

Di recente, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 146 del 2022, ha parlato di un principio di fluidità dell’imputazione, un dato caratterizzante del nostro sistema processuale, anche in sede dibattimentale. Tale concetto deve poi essere adeguato al diritto di difesa, quale principio supremo dell’ordinamento costituzionale. Già nel modo di impostare, anche soltanto sintatticamente il problema, ci si trova però dinnanzi a una logica di recupero a posteriori del diritto di difesa. Si lasciano, infatti, ampi margini di elasticità nella modifica dell’accusa durante il processo, anziché – tornando al metodo individuato in precedenza – irrigidire la struttura dell’imputazione ovvero il modo in cui l’accusa deve essere formulata, ergendolo ad autentico limite del thema decidendum. Così la difesa si potrà recuperare, è un principio supremo, sì, ma attenzione, c’è una fluidità dell’imputazione. Questo lo si sostiene appoggiandosi all’idea del processo accusatorio, il quale, fondato sull’istruzione dibattimentale, non può che prevedere che l’accusa sia modificabile, in quanto a renderlo necessario è la prova che, via via, si forma durante il dibattimento. Tuttavia, un conto è prevedere una sia pure limitata, circoscritta, relativa flessibilità nella contestazione da parte del pubblico ministero in dibattimento, altro è questo principio di fluidità lasciato correre, che evoca scenari assai differenti.

Il sistema accusatorio prende il nome proprio dal fatto che dovremmo avere un accusatore (il pubblico ministero), organo diverso dal giudice, che formula in maniera chiara e solenne l’accusa, in una specifica classe di atti. Il thema decidendum del giudice si deve ritrovare in un atto che ha un nome preciso ed è deputato a tale scopo. Questo atto è quello che contiene l’imputazione, cui spetta il compito di mediare tra la figura astratta del reato (la norma incriminatrice) e l’accadimento storico. Il passo decisivo, in ogni caso, non è tanto questo. A un livello elementare, si rinviene l’esigenza di dare concretezza alla fattispecie penale astratta e di mediare, attraverso la formulazione dell’imputazione, tra i due piani dell’astratto e del successivo accertamento in concreto. Il passo decisivo è munire l’imputazione, dal punto di vista della legge processuale, di fattispecie che mutuino a loro volta gli elementi strutturali dello schema della norma incriminatrice sul piano processuale. Il modo di scrivere e di redigere l’imputazione secondo le prescrizioni della legge processuale deve essere legato, vincolato, alla struttura della fattispecie incriminatrice. Non solo, ma nel caso in cui tale struttura non sia rispettata, dunque il vincolo non sia osservato, dovrebbe esservi la conseguenza immancabile della invalidità, sub specie di nullità. Se non è chiaro questo, del processo accusatorio rimane poco.

Non è meramente un affare di norme incriminatrici più o meno determinate, tassative, ma è anche, per quanto concerne l’emisfero processuale, un problema di griglia normativa che imbrigli l’operato del pubblico ministero, allorquando formula l’imputazione. Molto vicine a questa idea rigorosa sono le disposizioni di cui agli artt. 417 e 429 c.p.p., per come il legislatore, soprattutto dopo la riforma del 1999 (legge n. 479/1999) le ha concepite, richiedendo, cioè, una qualità nella stesura dell’imputazione, là dove prescrive che l’enunciazione del fatto debba essere chiara e precisa.

Per quel che riguarda la chiarezza, questo elemento si incarica di tradurre sul piano processuale i caratteri macroscopici dell’imputazione. Chiara è quell’imputazione la quale contenga tutti gli elementi della fattispecie penale tipica. Al contrario, è un’imputazione mancante sotto il profilo della chiarezza quella che non si incarichi di dar conto di ciascuno degli elementi costitutivi del reato: quando manca anche solo una di queste particelle, l’imputazione dovrebbe essere nulla per mancanza.

Mentre a livello macroscopico il discorso è facile, più difficile è dare significato all’altro requisito, quello della precisione. È noto che, sul piano del grado di approfondimento descrittivo interno a ciascuno dei riquadri che debbono dare corpo agli elementi costitutivi dell’illecito, il discorso si complica, si fa più concreto: dipende, cioè, da caso a caso. Senza dubbio, sono da evitare le imputazioni generiche, meramente riproduttive, o poco di più, del dato normativo. Così come, sul versante esattamente opposto, le imputazioni cosiddette narrative o “monstre”, gonfie di dettagli, troppo minuziose, perché scendono a considerare e a seguire rivoli magari superflui, con il rischio di diventare dispersive e di far perdere l’imputazione di precisione e di analiticità.

L’opera del pubblico ministero di individuazione dell’imputazione è, indubbiamente, in molti casi – sebbene non sempre – difficile. Si pensi alla scelta della norma incriminatrice alla quale dare rilevanza quando si ha a che fare con il concorso apparente di norme, oppure a un diritto penale che non è più frammentario e, di conseguenza, non lascia congrui spazi vuoti tra l’una fattispecie e l’altra. In queste ipotesi è più facile che il pubblico ministero si trovi a ritagliare una porzione, un brano di vita, una situazione di fatto che può ricadere, anche alternativamente, nell’una o nell’altra norma incriminatrice.

Certamente difettosa, però, è quell’imputazione che, anziché limitarsi alle note essenziali del fatto tipico, riversa al proprio interno elementi appartenenti al corredo probatorio. Questo determina che vi sia più facilmente un’eccedenza di materia rispetto a quella che dovrebbe essere essenziale. Questo eccesso, derivante dall’inosservanza dello schema della fattispecie penale, si traduce poi in una serie di conseguenze a cascata, di strategie, di escamotage, di forme, cioè, che tendono, se non a eludere, a rendere più complicato il quadro nel momento in cui occorre capire da che cosa ci si difende.

Se si prende come esempio, fra i tantissimi altri, una sentenza del 2017 della Cassazione, ricorrente Golfarini, lì troviamo scritto che «è esclusa la necessità di modificare l’imputazione, qualora nell’imputazione figurino elementi di fatto sovrabbondanti rispetto al paradigma della norma incriminatrice, che rendono prevedibile la diversa qualificazione giuridica». Non è necessario, quindi, che il pubblico ministero adegui formalmente l’imputazione, perché è rispettata la correlazione tra accusa e sentenza anche in mancanza di questo passaggio intermedio della contestazione di un’accusa modificata. La materia sovrabbondante può stare nella qualificazione giuridica primaria individuata dal pubblico ministero, ma potrebbe anche segnalare, in termini di prevedibilità, che altra fattispecie penale è, invero, quella contestata sotto il profilo del nomen iuris.

Dunque, la prassi, confortata da questo genere di pronunce della Corte di legittimità, ci mostra il fenomeno patologico di una regiudicanda, di un oggetto del processo, che è mantenuto aperto dall’inizio alla fine dell’itinerario processuale. Un processo lasciato, direi più propriamente, programmaticamente instabile dal pubblico ministero, per intuitive ragioni strategiche. Il magistrato dell’accusa non tanto trascura di adeguare la fisionomia dell’addebito, perché gli sfugge l’emersione di dati probatori convergenti su una certa fattispecie penale, quanto comincia con la ricostruzione dell’episodio criminoso nei termini più gravi, per lui più convenienti a vari fini. Il giudice ben potrebbe ritenere che sia integrata proprio quella fattispecie maggiore, ma se la prova fallisse su quella prima fattispecie, su connotati strutturali utili a questa precaria “iper-qualificazione” dell’illecito, potrà trovare il giudice disponibile alla condanna dell’imputato almeno per un tipo di illecito di minore disvalore, se soltanto questo esibisce qualche tratto comune con quello contestato. Pertanto, rapidamente, senza dilungarsi su questo aspetto, si pensi alle ipotesi riconducibili alla figura giuridica della progressione criminosa, al rapporto di specie a genere tra l’una fattispecie e l’altra, al rapporto di continenza tra l’una fattispecie e l’altra, fino al caso in cui i rispettivi nuclei essenziali della condotta  e dell’elemento soggettivo  si pongono in relazione di radicale alterità l’uno rispetto all’altro: da concorso in estorsione a favoreggiamento personale, da furto a ricettazione, da concussione a corruzione, da dolo a colpa, o nell’ambito della colpa, alla variazione della norma cautelare di riferimento trasgredita all’interno di un addebito più generale a titolo colposo. Sono tutti esempi agilmente rinvenibili nei repertori giurisprudenziali, ove non si ha nessuna cura di affermare che servisse una modifica della contestazione e che, benché questa non sia intervenuta, il principio di correlazione è rispettato.

Forse non vi è nessun altro settore del processo penale, al pari proprio del gruppo di norme che vanno dall’art. 516 all’art. 522 c.p.p., dove le cause di invalidità, le nullità programmate dalla legge, siano smentite in modo plateale e sistematico dalla giurisprudenza, tanto che possiamo formulare una diagnosi sulle ragioni e sulle tecniche di questa pervicace tendenza a disconoscere le imperfezioni degli atti di imputazione e a negare che fosse necessario un mutamento dell’accusa.

Le ragioni sono presto dette: l’horror regressionis, l’efficienza che domina su tutto, l’economia processuale, in quanto ricominciare il processo sarebbe un danno. La giurisprudenza, ivi comprese le Sezioni unite Battistella, argomenta sulla scorta della ragionevole durata del processo, principio che serve a nobilitare sul piano costituzionale tale invocazione di esigenze eminentemente efficientistiche, del far presto, del non regredire, perché regredire ha un costo. Da questo punto di vista, il migliore insegnamento dovrebbe essere quello di dichiarare la nullità da parte del giudice. Disfunzioni e problemi derivano al giudice stesso, nel momento in cui gli si chiede di scrutinare la corrispondenza dell’imputazione agli atti. Un giudice che dichiara severamente la nullità fa sì che si determini una deterrenza per il pubblico ministero a costruire in maniera generica, criptica, narrativa, o comunque imprecisa, l’imputazione. I pubblici ministeri avrebbero tutto da imparare se venissero dichiarate le nullità, starebbero assai più attenti almeno nel medio-lungo periodo. Ci sarebbe un effetto di carattere, potremmo dire, “disciplinare”, ovverosia del disciplinarli nello stendere correttamente l’imputazione. Al contrario, questi meccanismi, questi protocolli, le Sezioni Unite Battistella ora codificate, non costituiscono che un alibi per il pubblico ministero a redigere l’imputazione in maniera superficiale, poiché egli saprà che ci sarà un giudice il quale gli tenderà la mano e correrà in suo soccorso, sollecitandolo a correggersi tardivamente.

A prescindere da questo, analizziamo quali sono queste tecniche e metodologie, tra di loro fortemente apparentate, attraverso le quali viene totalmente messo da parte il presidio della nullità per difetto di correlazione tra accusa e sentenza.

Innanzitutto, il criterio della diversità del fatto: il fatto è diverso e va contestato solo quando si sia di fronte ad una sua radicale trasformazione. Tra le moltissime, si possono citare, a titolo di esempio, le Sezioni unite del 2010, Carelli, ove si afferma che «l’indagine volta ad accertare la violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza non si esaurisce nel pedissequo e mero confronto, puramente letterale, “fra contestazione e sentenza”». Si precisa tuttavia che «il fatto è diverso solo quando la struttura della imputazione originaria risulta radicalmente trasformata, restando irrilevanti variazioni che non incidono sul nucleo identificativo della condotta contestata». Dunque, non ogni modifica, ogni variazione di anche uno soltanto degli elementi costitutivi dell’illecito – ossia la macrostruttura dell’imputazione citata in precedenza – rispetto al fatto reato, ma solo una porzione isolata di quel fatto è il nucleo intorno al quale tutto il resto può cambiare, senza necessità di previa contestazione e nel conseguente rispetto del principio di correlazione.

Secondo criterio: il pregiudizio effettivo della difesa. Qui si è in pieno funzionalismo e in piena concezione teleologica del fatto: «l’obbligo di correlazione tra accuse e sentenze è violato non da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione del fatto dedotto nell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato». A questo primo livello – vi sono sul punto molteplici pronunce della Cassazione – si rinviene ancora un minimo di scrupolo nel dire che, oltre a un certo grado e a una data soglia, la modifica del fatto pregiudica la possibilità di difesa dell’imputato. Talvolta, questo criterio è comunque talmente spinto all’eccesso che viene declinato in modo da determinare una sorta di completa inversione dei piani: è la ratio del principio di correlazione, cioè la tutela del diritto di difesa, che si sostituisce all’esigenza di mantenere inalterato il fatto. Il punto di partenza dovrebbe essere che il fatto va formalmente modificato per tutelare la difesa. Rovesciando i piani, se l’imputato ha potuto difendersi, il fatto non andava modificato e la correlazione è rispettata. Per esempio, Cassazione 2013, Crescioli, Cassazione 2008, Pirrello: sono molte le pronunce che indulgono a questa idea. Tanto che qualche sentenza ha bisogno di arginare questa tendenza a prescindere in toto dall’entità della trasformazione del fatto, poiché in questa prospettiva qualunque sia il livello di modifica, avendo la difesa potuto difendersi, esso non comporta la necessità di modificare il fatto. Qualche pronuncia giurisprudenziale si rende conto che si è dinnanzi alla totale inversione dei piani. Per esempio, Cassazione del 2005, Vignola, ove si afferma che «il criterio teleologico è da ritenere di stretta interpretazione e pertanto non applicabile quando, tra fatto reato contestato e fatto ritenuto in sentenza, vi sia un rapporto di piena e irriducibile alterità, senza una matrice di condotta unitaria». Si torna, infine, al discorso della radicale trasformazione.

Il terzo criterio e metodo, usato dalla giurisprudenza per scardinare le forme e le esigenze sottese al principio di correlazione, è quello dell’imputazione c.d. “sparpagliata”, disseminata lungo l’arco del processo, o contestazione ex actis, una contestazione globale, onnicomprensiva. Si vedano Cassazione del 2013, Lucera, Cassazione del 2008, Fontanesi, tra le altre. Il fatto contestato non è solo quello enunciato nel capo d’imputazione, ma tutto il complesso degli elementi portati a conoscenza dell’imputato, l’imputazione è nelle prove. La contestazione coincide, potremmo dire, con il processo: è il processo che va alla ricerca del fatto di reato, alla maniera inquisitoria, dalla ricerca del corpus delicti, anziché tendere all’accertamento e alla decisione di un fatto predeterminato e previamente contestato. A escludere la modifica dell’accusa è sufficiente che l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi, perché il principio di correlazione possa dirsi salvaguardato.

Cosa ne emerge qui? Cosa ne è della difesa di fronte a tutto questo, come si deve comportare? La difesa e il contraddittorio non sono qui intesi come una replica, un’antitesi, una confutazione rispetto a singoli elementi del fatto penalmente rilevante, schierati davanti alla difesa dall’organo dell’accusa, che ha l’onere di dimostrare ciascuno di questi elementi costitutivi della responsabilità penale. La difesa può certamente mirare a smentire integralmente la ricostruzione del fatto, ma può anche concentrarsi nell’aggredire, in forma puntuale, analitica e mirata, alcune porzioni di fattispecie, attaccarne un singolo elemento, perché le basta suscitare il dubbio ragionevole su qualcuno degli elementi necessari all’affermazione della colpevolezza per ottenere il proscioglimento. La strategia della difesa e il responso sul pregiudizio patito, così spesso invocato dalla giurisprudenza, sono indissolubilmente e anche etimologicamente collegati. Si parla, infatti, di una difesa da un attacco. Pensiamo alle imputazioni alternative: difendersi dall’una scopre il fianco sull’altra. L’argomentazione critica nei confronti di una delle imputazioni alternative finisce per rafforzare l’altra. Ciononostante, il modello dell’imputazione alternativa è ritenuto legittimo pacificamente dalla giurisprudenza, si veda Cassazione del 1999, Arces, tra le tantissime.

Da qui l’importanza fondamentale della concezione formale della contestazione: diverrebbe altrimenti impossibile stabilire, tranne che con un arbitrio del giudice, se, a fronte di un diverso fatto contestato, schierato nell’attacco del pubblico ministero, la strategia sarebbe cambiata e se dalla mancata modifica dell’addebito è derivato o meno un pregiudizio effettivo a fronte della decisione del giudice. Come si può autenticamente dirlo? Emerge, all’opposto, quest’altra concezione della difesa, che non ha bisogno di sapere da dove proviene l’attacco, di conoscere chiaramente qual è il fatto da cui difendersi, e che quindi deve difendersi a tutto campo, in modo radicale, proprio perché non sa da dove promana questo attacco, se tutto è contenuto nel processo. Sul tema dell’imputazione ex actis si veda Cassazione 2007, ricorrente Sartori, ove si afferma che si ha «violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando la struttura dell’imputazione sia stata modificata al punto che, per effetto della divergenza introdotta, la difesa prestata non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità dai fatti criminosi globalmente considerati». Emerge bene questa idea di una difesa che deve difendersi da ogni spunto che venga dalle prove, perché ciascuno di questi spunti forniti dagli elementi probatori, e non da quelli descrittivi del fatto, può essere innalzato a imputazione dal giudice e ritenuto dunque in sentenza, senza previa correlazione.

Essendo l’accusa sparpagliata, non importa neppure chi ne sia l’autore: non occorre che il pubblico ministero prenda posizione. Si veda Cassazione del 2003, Tucciariello, ove si dichiara che «la precisazione dell’accusa è avvenuta in dibattimento ad opera della persona offesa in presenza dell’imputato». Come a dire: la precisazione è provenuta in udienza dalla persona offesa, l’imputato non lo sapeva che si doveva difendere? Da dove proviene quest’accusa, ormai? Non è più neppure sufficiente che un atto sia rivolto nei confronti proprio di quell’imputato: l’imputazione contestata all’imputato A può essere integrata con l’imputazione addebitata, nello stesso processo contestualmente, all’imputato B. Passa da B ad A, per traslazione. Fortunatamente, la Cassazione, Sezione II, del 2023, Baglio e altri, se non altro sottolinea come non sia possibile sostenere il rispetto del principio di correlazione, laddove vi sia l’estensione di un’imputazione contestata ad altro imputato.

La giurisprudenza arriva al paradosso, un paradosso coerente, però, con la logica di una contestazione non formale, ma sostanziale, con il Leitmotiv del requisito del pregiudizio effettivo e cioè, in sintesi, con l’auto-contestazione. Quando è la difesa a portare sulla scena un fatto diverso da quello contestato, prospettandolo a propria discolpa, succede che, in questo modo, l’imputato se n’è assunto i rischi. Una volta esercitata a questa stregua la sua difesa, egli non può lamentarsi di una conforme modifica del thema decidendum da parte del giudice, anche se non c’è stata la previa contestazione del pubblico ministero: l’imputato si è fatto automaticamente carico del suo assunto e, in relazione al diverso fatto, ha apprestato la sua difesa. È una concezione collaborativa della difesa, che concorre a costruire il tema dell’accusa; un’inversione dell’ordine dei fattori, la quale ordine poggia l’onere della prova a carico dell’accusa. Occorre sapere cosa va provato, per poter affermare se è rispettato l’onere della prova da parte del pubblico ministero, che deve dimostrare positivamente la responsabilità dell’imputato. Con questa rappresentazione ex actis dell’imputazione non si ha nemmeno più un centro, non si sa neanche a cosa fare riferimento per accertare, ad esempio, se l’onere della prova sia stato rispettato da colui sul quale incombe.

Infine, il grande capitolo in cui la giurisprudenza usa il potere di riqualificazione giuridica del fatto come alibi, come etichetta, per nascondere modificazioni sostanziali del fatto storico e così aggirare i presidi normativi previsti per l’adeguamento del fatto (artt. 516 ss. c.p.p.), giustificando tutto attraverso il principio iura novit curia. Su questo esiste una giurisprudenza europea, ma meriterebbe forse un discorso a sé analizzare cosa accada ai dettami della giurisprudenza di Strasburgo in seguito calati a livello domestico. Certo, esiste, sebbene sia un’ipotesi rara, la mera correzione dell’errore di sussunzione: il fatto rimane immutato, come descritto nell’imputazione, e viene riqualificato giuridicamente in modo corretto. È noto tuttavia che, nel 99% dei casi, la qualificazione giuridica è la conseguenza di una diversa ricostruzione fattuale, perché si dà rilevanza a elementi alternativi, aggiuntivi, rispetto alla fattispecie tipica, inizialmente prescelta e descritta. Oppure, in altri casi, qualche elemento viene sottratto dal delitto consumato o aggiunto al delitto tentato. In altri termini, la riqualificazione giuridica dà rilevanza a elementi esorbitanti dall’originaria descrizione, sostituendosi ad alcuni di essi o eliminandone altri.

Quando sopravviene questa rilevanza, la variante che si opera sposta il fuoco della difesa e del contraddittorio. Si giunge così a considerare da un’altra angolazione, da una nuova luce, anche gli elementi di fattispecie che sono rimasti eventualmente, immutati, fissi, i quali vengono ricolorati. Alla fine dei conti, tutto ciò provoca una reazione a catena tra le componenti strutturali del fatto, arrivando a una sua rilettura complessiva. Questo implica che la difesa abbia la chance di riorientarsi nella propria strategia argomentativa e probatoria, non solo introducendo nuove fonti di prova, ma anche magari conducendo diversamente l’esame di quelle che siano già state assunte: il difensore avrebbe potuto chiedere altro, in modo diverso, se quella fosse la porzione di fatto che non si era ancora attivata e che ora viene in considerazione “a sorpresa” in una sentenza finale.

Cade così la concezione formale e strutturale dell’imputazione. Se rileva tutto quello che è stato reso noto nel processo alla difesa, che in qualunque modo sia apparso sulla scena, ed è diventato oggetto di contestazione, non formale, ma sostanziale, allora, estremizzando, non ci sono fatti – a meno che non siano in nessun modo comparsi nel processo – da cui l’imputato non abbia potuto difendersi. Perciò, è sufficiente che la qualificazione giuridica finale aderisca a qualcuno di questi fatti, per ritenere rispettato il principio di correlazione tra accusa e decisione; afferisce, in definitiva, al criterio iura novit curia una modifica del fatto descritto nell’imputazione, con contestuale mutamento della qualificazione giuridica, operata direttamente in sentenza senza previa contestazione da parte della pubblica accusa.

Ci deve fare carico di questo, alla luce altresì di una giurisprudenza europea che sul punto non è del tutto chiara, poiché lascia molte zone oscure. Si pensi al criterio della prevedibilità della modifica del nomen iuris, di cui subito la giurisprudenza nostrana si appropria, affermando che, proprio nel momento in cui il fatto resta immutato, ovverosia nei casi marginali ove effettivamente il nomen delicti è cambiato senza che ci sia una variazione fattuale, allora era prevedibile che la qualificazione giuridica potesse essere un’altra. Come a dire, sul piano tecnico-giuridico, il difensore doveva saperlo, possedendo la preparazione per avvedersene. Vi sono poi degli slittamenti: si legge, ancora, nella giurisprudenza come non sia necessaria una previa informazione sul mutamento del nomen delicti, anche a seguito della nota sentenza della Corte di Strasburgo nel caso Drassich. Sul punto, la giurisprudenza domestica stabilisce che non vi sia bisogno di questa previa informazione sulla modifica del nomen delicti, qualora la nuova definizione giuridica appaia come «uno dei possibili epiloghi decisori, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile». Ad esempio, in quel caso, da maltrattamenti in famiglia ad abuso dei mezzi correzione. Cambia poco nella ricostruzione del fatto e, dunque, minimi sviluppi interpretativi sul piano giuridico della qualificazione del fatto sono prevedibili. Talvolta, la giurisprudenza avverte la necessità di un limite all’idea della prevedibilità. Si segnala, tra le altre, la Cassazione del 2013, ricorrente Cavallari, ove si dichiara che «è rispettato il diritto all’informazione, grazie alla prevedibilità, quando il fatto storico sia riconducibile a una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui l’eventuale esclusione dell’una comporta inevitabilmente l’applicazione dell’altra».

Il criterio della prevedibilità è il pendant funzionale, teleologico sul versante della qualificazione giuridica, dei criteri della trasformazione radicale, del pregiudizio effettivo, della contestazione ex actis sul versante del fatto storico. Sostituiscono, aggirano, neutralizzano, eludono la necessità propria del sistema accusatorio, della previa contestazione formale del fatto, come del suo nomen iuris, dunque della natura e dei motivi dell’accusa, così come anche l’art. 111, comma 3, Cost., oltre che l’art. 6 della Convenzione Edu, oggi richiede ai fini di assicurare il diritto di difesa e del contraddittorio.

 Credo che possiamo ringraziare davvero i nostri relatori. Salutare anche il Presidente, che poi ci ha seguito fino in fondo, evidentemente siamo riusciti ad appassionare in qualche modo a un tema che poteva all’inizio sembrare distante magari dagli aspetti più pratici, ma in realtà si è rivelato assolutamente di tenuta pratica, perché se non sentite una battuta, non ci può essere buona pratica senza buona teoria, spero che in qualche modo oggi i nostri relatori abbiano offerto spunti a tutti i nostri colleghi, non solo di immediata praticità, ma anche di riflessione su quello che è e dovrebbe essere il processo. Credo che possiamo ringraziare, salutare, e se mi consentite anche, augurare buone feste e buon riposo a ciascuno, grazie.

Avv. Daniele Livreri (moderatore): Credo che possiamo ringraziare davvero i nostri relatori. Salutare anche il Presidente del COA, che poi ci ha seguito fino in fondo, evidentemente siamo riusciti ad appassionare in qualche modo a un tema che poteva all’inizio sembrare distante magari dagli aspetti più pratici, ma in realtà si è rivelato assolutamente di tenuta pratica, perché se mi consentite una battuta, non ci può essere buona pratica senza buona teoria, spero che in qualche modo oggi i nostri relatori abbiano offerto spunti a tutti i nostri colleghi, non solo di immediata praticità, ma anche di riflessione su quello che è o dovrebbe essere il processo. Credo che possiamo ringraziare, salutare, e se mi consentite anche, augurare buone feste e buon riposo a ciascuno, grazie.