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28 ottobre 2020

L'insostenibile leggerezza della nomopoiesi, di Mario Tasquier



La recrudescenza del virus, nelle ultime settimane, ha portato in auge diatribe mai sopite, dubbi di costituzionalità ancora irrisolti, esponendo nuovamente i cittadini a una selva di stratificazioni normative di non immediata interpretazione e dal contenuto spesso incerto.
Se possiamo accogliere favorevolmente il tentativo dell’Ufficio della Presidenza del Consiglio dei Ministri di disciplinare, con il provvedimento (DPCM) del 24 ottobre 2020, obblighi e prescrizioni in una sorta di Testo Unico dei DPCM, al fine di facilitare l’intellegibilità delle norme e di ricucire un tessuto normativo che appariva ormai sfaldato da novelle quasi settimanali, non altrettanto bonariamente si può recepire la tecnica degli interventi normativi che, condizionata dalla situazione emergenziale in atto, lascia spazio a inopportune ambiguità interpretative.
La prescrizione di “forti raccomandazioni” che seguono le “raccomandazioni” semplici dei precedenti DPCM, è solo la punta dell’iceberg delle difficoltà nomopoietiche: se certo è che le condotte violative del nuovo istituto giuridico della raccomandazione non possono di per sé essere oggetto di sanzione, è pur vero che potrebbero tuttavia rilevare in termini di contestazione all’agente di profili di imprudenza se non già di negligenza, finendo con il fondare la possibile imputabilità di condotte colpose.
Perplessità ancora maggiori emergono dalla constatazione che talune raccomandazioni (sia semplici che forti) siano rivolte a datori di lavoro e ad attività professionali, finendo con il sovrapporsi agli specifici protocolli già attivati, o talaltre attengano invece agli spostamenti delle sole persone “fisiche”, lasciando intendere che non si estendano alle esigenze di mobilità di società, enti e altre persone giuridiche.
Evidente frutto di mediazione tra diverse sensibilità politiche in sede al Governo, le raccomandazioni del Presidente del Consiglio scoprono un nervo dell’ordinamento tutto nuovo e sconosciuto, introducendo un ulteriore elemento di incertezza di cui, in questo momento così difficile, avremmo volentieri fatto a meno. 
Al ritorno dell’ipertrofica proliferazione dei DPCM si è accompagnata altresì la reviviscenza delle “autodichiarazioni”, altra invenzione normativa dei tempi del COVID destinata a trovare un posto di riguardo tra la burocrazia futuribile di questo Paese (ne sia indizio l’entusiasmo con il quale è stata accolta e riproposta da solerti pubbliche amministrazioni).
Più facile comprendere cosa NON sia l’autodichiarazione: non una dichiarazione sostitutiva di certificazione ai sensi dell’art.46 DPR 445/2000 (c.d. autocertificazione, a cui si può fare ricorso solo in ipotesi tipiche); non una dichiarazione sostitutiva di atto notorio ai sensi dell’art.47 DPR 445/2000 (che riguarda stati, qualità o fatti – già avvenuti – che siano a conoscenza della persona). È legittimo pensare che possa quindi trattarsi di una semplice dichiarazione, a cui è stato aggiunto maliziosamente il prefisso “auto” per riecheggiarne una comune matrice con l’autocertificazione: quell’auto appare un prefisso quantomeno tautologico, poiché una dichiarazione proviene sempre e per definizione dal dichiarante, non essendone ontologicamente concepibile un’eterogenesi.
Prescindendo da ogni considerazione in ordine alla legittimità di un obbligo di “autoincriminazione”, così come alla difficile tenuta costituzionale della prescrizione di un obbligo di rendere note al pubblico ufficiale, in definitiva, le circostanze più intime della propria vita privata (vieppiù in assenza di una norma incriminatrice di natura penale che si presuma violata dall’autodichiarante), si ritiene che l’eventuale mendacio in autodichiarazione non sia comunque idoneo a fondare una valutazione affermativa di responsabilità ai sensi dell’art. 483 c.p
Per immutata giurisprudenza del Giudice di legittimità, tale delitto si configura quando una norma giuridica obbliga il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente. La condotta di cui all’art. 483 c.p. riguarda pertanto solo attestazioni del privato che il pubblico ufficiale ha il dovere di documentare in un atto che sia destinato a provare la verità dei fatti narrati, sicché non pare ne ricorrano i requisiti in occasione di falsità in autodichiarazione, alla quale certamente tale funzione difetta (a meno che il mendacio non riguardi le generalità del dichiarante, nel qual caso troverà invece applicazione l’art.495 c.p.).
L’eventuale agente rimarrà quindi, a mio avviso, esposto alle sole sanzioni amministrative introdotte dall’art. 4 D.L. 19/2020 nel caso in cui la circolazione sia avvenuta in assenza di valida giustificazione, ma non per il fatto in sé di aver addotto una giustificazione insussistente.
Lungi dal voler istigare al mendacio, eticamente deplorevole soprattutto nella attuale emergenza epidemiologica, si vuole significare in questa sede come il Legislatore abbia frettolosamente utilizzato fonti normative secondarie rifuggendo la possibilità di ricorrere a strumenti legislativi più idonei a sostenere, adeguatamente e coerentemente, le finalità di circoscrizione dell’epidemia, magari mediante l’introduzione di peculiari sanzioni penali, ove se ne fosse riscontrata l’opportunità.
Il D.L. 6/2020 e ss.mm., nel legittimare il ricorso ai DPCM come strumento agile di gestione della crisi sanitaria, ha altresì all’art.3 co.2 autorizzato i Presidenti regionali e i sindaci a esercitare il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti in materia sanitaria, estendendo ad esse le sanzioni amministrative previste per la violazione dei precetti introdotti con DPCM.
La ripetuta sovrapposizione di norme statali e regionali, talvolta contraddittorie ed emanate a pochi giorni – se non ore – l’una dall’altra, completa in questo modo il nodo gordiano di precetti, obblighi, divieti e raccomandazioni tra i quali cittadini, professionisti, imprenditori quotidianamente devono districarsi.
Il D.L. n. 6/2020 aveva provato a precisare la gerarchia delle fonti della gestione dell’epidemia prescrivendo che gli enti locali potessero emanare provvedimenti emergenziali solamente “nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri”, con l’ovvia finalità di evitare il rischio che i DPCM fossero stravolti, senza coordinamento e controllo, dalle ordinanze contingibili e urgenti delle Regioni e dei Comuni.
Gli argini tracciati dall’art. 3, co. 2, del DL n. 6/2020 non hanno retto al profluvio di ordinanze regionali e comunali di variegato contenuto, talché il Legislatore è dovuto nuovamente intervenire in merito prima introducendo con il DL n.19/2020 limiti stringenti al potere di adottare ordinanze regionali e comunali (sempre limitate temporalmente all’adozione di successivi DPCM), poi definitivamente abdicando la propria competenza esclusiva in favore del potere regionale con il DL n. 33/2020 e con il DL n. 125/2020, in dipendenza dei quali, al fine di garantire lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali, alle Regioni è data facoltà di introdurre ulteriori misure restrittive tra quelle prescrivibili con DPCM.
Alle Regioni è così stata concessa una competenza normativa propria, per certi aspetti addirittura sovraordinata a quella statale, nella misura in cui a un successivo DPCM più permissivo non è attribuito alcun potere derogatorio rispetto agli eventuali provvedimenti regionali maggiormente restrittivi.
È quanto è successo negli ultimi giorni: il DPCM del 24 ottobre 2020 non ha infatti in alcun modo derogato ai c.d. “coprifuochini” introdotti dai Presidenti di Regione e tra essi, in particolare dall’ordinanza n.51 del 24 ottobre 2020 emanata dal Presidente della Regione Siciliana, la quale continuerà ad applicarsi nella parte in cui prevede prescrizioni più restrittive rispetto a quelle statali.
Il nuovo discrimen tra la competenza normativa regionale e statale, pertanto, non è più devoluto alla gerarchia costituzionale delle fonti e all’attribuzione di specifiche competenze per materia, ma al grado di compressione delle libertà del cittadino, per quanto finalizzata al contenimento dell’epidemia, facendo così prevalere non la norma più liberale e garantista, ma quella più rigorosa e oppressiva delle libertà fondamentali.