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12 maggio 2021

La tipicità del reato di associazione di tipo mafioso e l’applicabilità della fattispecie alle “nuove mafie” - di Mariangela Miceli (*)



Il principio di legalità e tipicità della fattispecie penale ha da sempre caratterizzato la legislazione in tema di fattispecie penale.

Tali principi trovano una loro materiale giuridica concretizzazione all’interno non solo del codice penale ma anche della Costituzione, non appare superfluo, infatti, ricordare che le norme di cui agli artt. 1 cp. e art. 25, della Costituzione, esprimano in modo chiaro e puntuale come il fatto di reato debba necessariamente essere previsto da una legge. 

Il richiamo alla legge, come noto, sancisce come corollario un principio di tipicità e sufficiente determinatezza della norma penale tale per cui, i confini del fatto di reato debbano essere richiamati e determinati in modo chiaro dalla norma, senza nessuna possibile arbitraria interpretazione estensiva della fattispecie, con il rischio, poi, di uno sconfinamento nell’analogia. 

Il rischio è, infatti, di una non consentita e trasfigurazione del delitto e di una mancata individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma stessa. 

Per quanto attiene il tema della tipicità del reato di associazione di tipo mafioso e l’applicabilità della fattispecie alle “nuove mafie”, è bene precisare che, l’associazione di tipo mafioso è regolata all’interno del codice penale all’art. 416 bis, con dei parametri e limiti per determinati che consentono all’interprete di valutarne i confini e l’applicazione dello stesso. 

La fattispecie in commento, è venuta a trovarsi negli anni in un terreno poco perimetrato da consentirne la deriva interpretativa addirittura verso la corruzione, mediante lo sviluppo di un modello connotato da una elevata fluidità nelle relazioni economiche, da una assenza di regole organizzative rigide in grado di operare indistintamente tra la criminalità e la sfera imprenditoriale .

Ciò che si mostra, dunque, è un nuovo modello caratterizzato da un sistematico ricorso alle intese corruttive, finalizzato a conseguire il pieno controllo delle attività della pubblica Amministrazione, condizionandone le procedure ed i correlativi meccanismi decisionali.

E’ bene precisare però, che nel caso di fenomeni corruttivi ci si trova davanti a eventi fondati sulla realizzazione dell’intimidazione attraverso la corruzione, strutturalmente caratterizzata dalla parità tra le parti.

Orbene, riconducendo l’analisi alle “nuove mafie”, il dibattito giurisprudenziale ha potuto veder un orientamento minoritario che ha sancito una sorta di reato a “geometria variabile” che ha, più o meno, esteso i confini del reato, ed un secondo orientamento, sancito dalla sentenza “Mafia Capitale” che ha, invece, collocato il reato all’interno di un ristretto campo, eliminando ogni possibile interpretazione in peius della normativa di cui si tratta. 

L’art. 416 bis cp. ha, infatti, all’interno del proprio dato letterale alcuni elementi che consentono di determinarne la portata della sua applicazione, uno di questi è riferibile certamente alla “alla forza di intimidazione del vincolo associativo”.

Tale elemento è stato voluto dal legislatore del 1980, proprio in forza dell’assetto organizzativo della mafie cc.dd. “tradizionali”, le quali radicate nel territorio hanno certamente una “forza” tale da influenzare il comportamento di chi, anche solo in via potenziale, possa subirne l’influenza.

Il dettato normativo di cui all’art. 416 bis cp., se da una parte richiama certamente il “vincolo mafioso” quale elemento del “sodalizio” e della fattispecie in esame, dall’altra parte, non individua in modo preciso il bene giuridico protetto dalla norma, tanto che, è stato rilevato, in senso critico, come la norma non indichi né il bene giuridico tutelato, né un evento in grado di incorporarne univocamente l’offesa. 

La mancanza di una individuazione precisa del bene giuridico protetto dalla norma ha comportato, quindi, una prospettiva del delitto da un carattere monoffensivo a tutela dell’ordine pubblico in generale, ad una prospettazione plurioffensiva. Tale incertezza teleologica ha certamente comportato una espansione della disposizione a rischio anche, di non rispettare gli stessi principi di legalità e di tipicità della norma penale. 

E’ bene precisare che i confini poco chiari della norma di cui all’art. 416 bis hanno comportato uno sbilanciamento nell’interpretazione della norma stessa anche in ragione della nascita, nel panorama criminologico, delle c.d. “nuove mafie”. 

Vale la pena chiedersi, infatti, se le c.d. “nuove mafie” possano effettivamente rientrare nel novero di quanto disciplinato dall’art. 416 bis cp., poiché, tale ultimo articolo richiama proprio al terzo comma, non solo il “vincolo associativo” ma anche condizioni di “assoggettamento” di “omertà” al fine di “acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche” et simila. 

A dare maggiore chiarezza al contenuto della norma di cui si discute, è intervenuta la sentenza su “Mafia Capitale” che pur non scomodando le Sezioni Unite, ha messo un punto decisivo sulla questione delle “nuove mafie”. 

La vessata queastio su cui si è pronunciata la predetta sentenza, riguarda, in particolare la possibilità di ampliare i limiti di applicabilità della norma incriminatrice, senza peraltro travalicare i limiti di una analogia in malam partem, vietata ex lege dall’art 25 della Costituzione.

La norma d’altra parte dovrebbe essere riletta alla luce dell’infiltrazione mafiosa nei sistemi economici, secondo anche la lettura data dalla giurisprudenza di legittimità in merito al “messaggio intimidatorio”. 

Un primo orientamento restrittivo, indica come carica effettiva e concreta idonea a determinare uno stato di reale compromissione della libertà di autodeterminazione, la carica intimidatoria anche solo allo stato generico o potenziale, riconducibile ai sottotipi delle cc.dd. nuove e piccole mafie.

Si è giunti, quindi, ad una concezione debole, estensiva, del medesimo requisito, prospettabile anche solo a livello potenziale, privo, dunque, di effettiva concretezza.

Un affievolimento del requisito tipico che sembra collidere con lo stesso significato letterale del termine “assoggettamento”.




Nel complesso, dunque, si è assistito ad una metamorfosi della fattispecie conseguente ad un progressivo allontanamento dell’interpretazione, dal significato letterale della disposizione.

L’art. 416-bis c.p., infatti, nonostante si presenti come fattispecie aperta e recepisca in termini giuridici un fenomeno sociologico assai complesso, risulta connotato da specifici indici strutturali espressi nel terzo comma, da intendersi chiaramente come norma definitoria.

Nonostante ciò, con il passare degli anni, tali indici hanno perso di intensità, ma soprattutto di significato, collidendo con il principio di legalità. 

La Corte su quella sottile linea di confine che divide l’interpretazione estensiva e quella analogica e concerne, in particolare, i confini della semantica ha cercato una maggiore applicazione del “ principio di legalità”.

Tanto che, la Corte è giunta ad alcune conclusioni senza neppure fare riferimento alla prevedibilità convenzionale ex art. 7 CEDU, tesa comunque a contenere il trasformismo giurisprudenziale che destabilizza la certezza del diritto. 

La motivazione offerta dalla Corte, a proposito del requisito strutturale dell’intimidazione, ha deposto per una piena rivalutazione del criterio semantico enucleabile dall’art. 12 disp. prel. c.c., sia pure integrato dalla dimensione teleologica della norma - ricavabile dal richiamo alla carica qualitativa dell’offesa - in un perimetro ermeneutico, dunque, condiviso, equilibrato, all’interno del quale l’interprete può muoversi liberamente.

Si tratta, cosi, di trovare un giusto equilibrio tra dato letterale e dimensione teleologica, dove la prima rimane come un limite invalicabile e la seconda tesa a dare sostanza all’incriminazione.

Così, nello specifico, nell’affrontare il requisito della intimidazione, la Corte ribadisce come quest’ultima debba sussistere e manifestarsi, nel concreto, realmente: o esiste o non esiste, non essendo sufficiente un semplice dolo intenzionale di farvi ricorso.

Occorre che il sodalizio “dimostri” di possedere detta forza e di essersene avvalso.

Ciò non significa, ovviamente, che radicati sodalizi debbano necessariamente manifestare di continuo violenza o minaccia, sia poiché l’intimidazione può manifestarsi anche secondo altre modalità, sia perchè può permanere sul territorio, in determinate situazioni, come un dato acquisito e consolidato, comunque esistente.

Una interpretazione, quest’ultima, assolutamente aderente al dettato letterale della disposizione che nella dizione al presente “si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo” esprime una condotta effettiva e reale.

Medesime considerazioni per i termini assoggettamento – che non indica solo un possibile piegamento della libertà di autodeterminazione – ed omertà, che non esprime un semplice silenzio.

Da qui, la conseguente natura di reato di pericolo concreto, assolutamente distante da quelle configurazioni di pericolo astratto o presunto che ritenevano sufficiente per la configurabilità del reato una intimidazione anche allo stato potenziale, racchiuso in quella c.d. riserva di violenza.

La questione interpretativa viene così risolta dalla Corte ricordando che diversamente dall’associazione per delinquere semplice, la associazione mafiosa non è strutturata sulle intenzioni ma su una rete di effettive derivazioni causali.

“Non una associazione per delinquere, ma un’associazione che delinque” con un’effettiva capacità di intimidazione che deve necessariamente manifestarsi all’esterno, sino a determinare quello stato di “succubanza diffusa” tipica dell’indirizzo rigoroso, attento sia alla qualità che alla quantità dell’offesa della norma in esame.

Si tratta di un passaggio essenziale che, ancora una volta, riafferma quella necessaria visione unitaria della fattispecie che costringe l’interprete a non muoversi dalla stretta tipicità della norma, qualunque connotazione abbia il sodalizio, anche nei c.d. “sottotipi applicati”, in altri termini: i requisiti tipici non variano.

La Corte ha, infatti, chiarito come la tipicità della fattispecie associativa è sempre la stessa, anche per le c.d. nuove mafie, di cui all’art.416-bis.

Nell’ottica, quindi, del rispetto dei principi costituzionali e del codice penale in materia di legalità e tipicità, con riferimento al dettato normativo ci cui all’art. 416 bis cp, atteso anche, il mutamento fenomenologico delle attività di mafia, è necessaria una rilettura del requisito della forza intimidatoria, quale richiesto dalla norma presa in esame, posto che, ad oggi, la questione così prospettata ha fatto sorgere, un contrasto in seno alle Sezioni semplici del Supremo Consesso, tanto da rendersi necessario l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite. 

Infatti, con ordinanza 28 gennaio - 9 febbraio 2021, n. 5071, la Sezione prima della Corte di Cassazione ha adito le Sezioni Unite, formulando il seguente quesito: “Se la mera affiliazione ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso c.d. storica, nella specie ‘Ndrangheta, effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416 bis c.p. e della struttura del reato dalla norma previsto”.



(*) Mariangela Miceli: Avvocato del Foro di Trapani. Dottoranda di ricerca in diritto commerciale e docente a contratto presso l´Università di Roma Unitelma Sapienza. 

Autrice di pubblicazioni scientifiche.  Contributor per il blog Econopoly24 del Sole24ore