Prosegue sul nostro blog il dibattito sulla Riforma Cartabia (il piano completo al link). Dopo gli interventi di Giorgio Spangher (link), Bartolomeo Romano (link), Paolo Ferrua (link), il confronto tra Cataldo Intrieri (link) e Marco Siragusa (link), e gli interventi di Daniele Livreri (link) Michele Passione (link), Daniele Carra (link) di Filippo Giunchedi (link), di Aldo Casalinuovo (link), ospitiamo con vero piacere l'intervento del socio di questa Camera penale, Luigi Tramontano.
La salute dello stato di diritto viene severamente compromessa, come si sa, dal proliferare di virus estremamente contagiosi ed aggressivi come l’emergenza, la necessità, l’urgenza, tutti agenti patogeni che fagocitano in poco tempo le norme di legge, attaccandone il fondamento e la logica e giustapponendo, a libertà e diritti, doveri ed obblighi non più giuridici, ma morali, di buon senso, o di opportunità, in ogni caso indiretti e non scritti.
La deriva del contenuto della legalità in un senso sempre più sostanziale, e patologico, ha già stravolto ad esempio – senza abrogarlo – l’istituto della prescrizione penale. È un fenomeno inesorabile lo scorrere del tempo tra la commissione di un reato e il suo accertamento definitivo. La prescrizione in materia criminale regola semplicemente le conseguenze di tale decorso, per la ragione naturale e umana che una punizione è avvertita sempre meno giusta quanto più si allontani dal fatto da punire. Ora, che si condivida o meno tale fondamento, una volta che sia maturato il relativo termine la prescrizione è ancora prevista nel nostro ordinamento come diritto di ogni accusato, tant’è che l’art. 157 c.p. contempla la possibilità di rinunziarvi. E non si equivochi: parlo appunto del diritto che sorge a prescrizione avvenuta, non del diritto a puntare alla estinzione del reato per decorso del tempo (ogni accusato avendo semmai diritto ad essere giudicato nel merito mediante un processo, come più volte ha dovuto chiarire la Suprema Corte).
Quanto avvenuto a scapito del diritto alla
prescrizione è ben noto. Complice una martellante campagna di
(dis-)informazione, nella concezione diffusa esso ha del tutto perduto la sua
natura, per assumere le forme di una vergogna. La rinuncia dello Stato alla
punizione – che, passato un certo tempo dal fatto, segna uno dei tipici momenti
di equilibrio tra autorità e libertà in un dato ordinamento – è stata invero
considerata ad un certo punto moralmente inaccettabile, sulla scorta del
duplice argomento – talmente erroneo in diritto da risultare persino falso –
che ad essa vi si giungerebbe a causa delle tattiche dilatorie dell’imputato
(non dunque per una vera scelta dello Stato), e che essa sarebbe un danno (o
una beffa) per le parti offese.
Ovviamente,
non è la prescrizione in sé il vulnus del sistema, ma piuttosto il
numero troppo alto di prescrizioni che quotidianamente vengono dichiarate dai
nostri tribunali, ossia il fatto che i nostri processi penali hanno una durata
eccessiva.
Ma il diritto, e la logica, appunto, non hanno contato più. Vale allora la pena di ricordare, oggi, quanto fin da subito segnalato da diversi esponenti dell’avvocatura al riguardo. Ossia, che il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, proprio perché non accorcia la durata dei procedimenti ma li allunga, consente di conseguenza alla pubblica accusa, una volta esercitata l’azione penale, di ottenere il risultato che l’accusato rimanga sotto processo per un tempo assai più esteso. Dacché, non decorrendo più la prescrizione dopo la sentenza di prime cure (anche se di assoluzione, non si dimentichi), l’imputato dovrà attendere in ogni caso una pronuncia nel merito, con carattere definitivo. Questo, invero, l’effetto oggettivo che la crociata anti prescrizione – in buona o in mala fede, non importa più accertarlo – ha comportato. Ecco perché valuto con favore, sia pur estremamente cauto, quanto si è verificato in questi ultimissimi mesi. Gli equilibri delle forze politiche attualmente alla maggioranza non permettevano, com’è evidente, di ritornare d’èmblée all’istituto della prescrizione ante riforma Bonafede, o addirittura di recuperarne l’originario e autentico significato. E allora, facendo uso proprio delle stesse armi brandite da chi si è tanto impegnato per togliere di mezzo la prescrizione (un diritto), additandola quale male in sé (una vergogna), si è usato il trucco di cambiare nome a quest’ultima, chiamandola improcedibilità. Chi di spada ferisce, di spada perisce, verrebbe da dire. In tale maniera si è riusciti però, quanto meno, a contenere di molto gli effetti nefasti e innaturali che quella mistificatoria operazione avrebbe potuto da qui a poco tempo generare. Il “correttivo” così congegnato pone di nuovo un limite, infatti, al potere della pubblica accusa – vero disequilibrio del sistema – di mantenere sotto processo l’accusato ad libitum o comunque per un tempo abbastanza lungo da sottrarlo, senza possibilità di ritorno, dal contesto sociale o politico in cui era inserito; in quanto, pur dopo il congelamento della prescrizione con la pronuncia di primo grado, il processo dovrà comunque terminare in appello e/o in cassazione – salve le disuguaglianze aggiunte nel corso dei lavori – entro un termine tutto sommato ristretto, altrimenti si estingue.
Non mi si equivochi: il mezzo di giocare con
le parole non mi piace, perché provoca solo pasticci, e genera a sua volta
incertezza. Vero è pure, però, che il nuovo termine (improcedibilità) assunto
in sostituzione del primo (prescrizione) non è intrinsecamente falso. In tanti
ordinamenti europei – ad esempio, giusto in Francia – ciò che si prescrive è
proprio l’azione di accusa, non il reato. E, del resto, pure da noi alla causa
processuale della sospensione si è fatto ampiamente e direi anche fin troppo
abbondantemente ricorso, finora, giusto per contraddire il senso stesso della
prescrizione. Mentre nel nuovo progetto un istituto di carattere processuale
viene introdotto, all’opposto, per far rivivere proprio l’effetto estintivo
connesso all’inutile decorso del tempo.
Ora, nella stessa direzione – ed anzi ancora più a fondo – mi pare converga un’altra importante novità prospettata dal progetto Lattanzi/Cartabia, sulla quale (per fortuna) i crociati della imprescrittibilità a tutti i costi non si sono punto concentrati, prigionieri essi stessi del demone cornuto da combattere che avevano creato, e che ormai unicamente vedono i loro occhi.
Mi riferisco alla norma che muta la regola
valevole per archiviare un procedimento. Non sarà più una prognosi di
non potere efficacemente sostenere l’accusa in giudizio, bensì la diagnosi
che il materiale probatorio raccolto al termine delle indagini preliminari non
abbia buone probabilità di condurre ad una condanna, in prosieguo.
Poter fondatamente sostenere l’accusa in
giudizio è all’evidenza compito ben meno impegnativo di quello di raccogliere
elementi tali da poter giungere con buone probabilità ad una condanna. Nel
primo caso, infatti, bastano degli indizi, che rimangono con ogni fondamento
cavalcabili da chi accusa fino a quando non smontati o contraddetti da altri
elementi di prova (introdotti dalla difesa, o acquisiti d’ufficio). Di solito,
quindi, ex post, ossia al dibattimento o comunque nel giudizio di
merito.
Non può quindi negarsi che il restringere il
potere/dovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale nei soli
casi in cui tale azione possa assai ragionevolmente condurre alla condanna
dell’accusato, si muova lungo la stessa direttrice della riaffermata
preclusione che l’accertamento giudiziario penale duri senza limiti di tempo.
La nuova regola, infatti, fissando in modo più restrittivo le condizioni per
cui l’azione penale possa dirsi doverosamente esercitata, circoscrive già alla
base il potere delle Procure di sottoporre un cittadino a processo e può quindi
contribuire a togliere finalmente di mezzo quell’altro dannoso fraintendimento
che ha preso purtroppo piede fin dall’entrata in vigore del codice Vassalli:
non è infatti l’avvio e il mantenimento di un procedimento penale ad essere
obbligatorio a norma dell’art. 112 Cost. – se pure l’iscrizione di ogni notitia
criminis nel registro delle notizie di reato sia anch’esso atto dovuto, per
come impone l’art. 335 c.p.p. – bensì appunto, e soltanto, l’esercizio
dell’azione penale, ossia la contestazione formale di un’accusa.
L’obbligatorietà costituzionale non può invero che riferirsi ad un’azione
penale che in tanto può dirsi doverosa in quanto più che probabilmente fondata,
solo questa potendo concepirsi rientrare nella funzione primaria dello Stato di
rendere giustizia.
Come già segnalato da diversi appassionati
del diritto in queste stesse pagine, però, l’innovazione in parola meriterebbe
di essere più compiutamente strutturata, perché così com’è nella legge di
delega approvata da un ramo del Parlamento pare possedere ancora un respiro
troppo corto. Da più parti si teme, infatti, che la nuova regola verrà comunque
interpretata nella prassi come la precedente, continuandosi cioè ad esercitare
l’azione penale (rectius: a non chiedersi l’archiviazione) anche
in presenza di elementi già in partenza contraddittori (ad esempio due versioni
contrastanti sulla verità di una testimonianza) o insufficienti (per esempio,
una sola chiamata di correo) e ciò quanto meno tutte le volte in cui non appaia
di tutto principio esclusa la possibilità di risolvere le antinomie o di
colmare le lacune, in seguito. Timore, questo, certamente condivisibile, che
invero non pare potersi sgombrare per il solo fatto che la riforma abbia
previsto di estendere il controllo giurisdizionale circa il rispetto della
nuova regola anche a tutti i reati per cui debba procedersi a citazione
diretta, attraverso la cosiddetta udienza predibattimentale, di nuovo conio (v.
art. 6, lett. d, del disegno di legge in parola), che andrà ad
aggiungersi, per gli altri reati, all’udienza preliminare.
Ora, il motivo per cui l’udienza preliminare
non ha di fatto mai funzionato è noto a tutti. Risiede non solo, o non tanto,
nel carattere tutto sommato evanescente del criterio decisionale assegnato al
GUP, quanto, a monte, nel fatto che quest’ultimo non deve motivare il decreto
che dispone il giudizio, essendo tenuto a giustificare invece la sentenza di
proscioglimento che rigetti la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal
pubblico ministero. Differente disciplina dei due possibili esiti dell’udienza
che, com’è altrettanto noto, il codice del 1988 ha previsto in nome del
carattere eminentemente accusatorio che si voleva contrassegnasse la fase del
dibattimento, dato che un provvedimento scritto in cui un giudice precedente
avesse motivato perché l’imputato meritasse di andare a giudizio avrebbe potuto
influenzare il giudice successivo. Ciò ha però comportato, paradossalmente, la
previsione di un momento processuale ad equilibrio distorto perché, pur essendo
a contraddittorio necessario, la difesa dell’imputato non ha in effetti, in
esso, alcun diritto ad una risposta motivata del giudice sul non accoglimento
della propria richiesta di non luogo a procedere, neppure laddove oltre ad
averla semplicemente avanzata la abbia anche (più o meno compiutamente)
argomentata o addirittura basata su prove documentali tempestivamente
depositate. Qui, a mio sommesso parere, il vulnus decisivo della fase in
parola, che ha finito per impedire, nella prassi applicativa, che essa
funzionasse effettivamente da filtro dei processi che non vi sarebbe stato
alcun bisogno di celebrare, come pure si sarebbe voluto.
Lo stesso elemento di debolezza presenta, di
conseguenza, la modifica di cui sto parlando. Lasciare la scelta se chiedere o
no l’archiviazione per improbabilità di una condanna al solo pubblico ministero
rischia invero di vanificare gli scopi della riforma, così com’è
indiscutibilmente avvenuto per l’udienza filtro preliminare.
Se si è d’accordo sul fatto che sia stata
proprio la diseguaglianza tra le facoltà di richiesta dell’accusa e della
difesa ad aver fatto sì che l’udienza preliminare mancasse al proprio compito,
varrebbe allora davvero la pena di spendersi affinché, in attuazione della
delega, il Governo non reiteri questo stesso errore nel disciplinare il momento
di valutazione del “nuovo” criterio di archiviazione.
Posso immaginare, così su due piedi, una
soluzione del genere. Prevedere un incidente processuale, al posto dell’udienza
preliminare e della (programmata) udienza predibattimentale (che potrebbero
eliminarsi del tutto), da innescare eventualmente, e solo, subito dopo la
conclusione delle indagini preliminari. Dal relativo avviso, potrebbe infatti
stabilirsi un termine di decadenza entro il quale la difesa, ove lo ritenga,
possa formalmente chiedere l’archiviazione del procedimento per una delle
ragioni previste dal codice, compresa naturalmente quella, di nuova
introduzione, per cui gli elementi raccolti dall’accusa non consentano
ragionevolmente di giungere all’affermazione della responsabilità penale
dell’imputato, anche e soprattutto alla luce della condizione comunque
invalicabile posta dall’art. 533, comma 1, c.p.p. Sulla relativa richiesta il
giudice chiamato a pronunciarsi – che dovrà essere ovviamente diverso da quello
a cui potrebbe essere assegnato il successivo eventuale giudizio – sarà quindi
tenuto a motivare tanto l’accoglimento quanto il rigetto della archiviazione
invocata dalla difesa.
Quest’ultima valuterà con ogni prudenza il
rischio di una simile iniziativa. Perché, almeno emotivamente, è chiaro che
l’eventuale rigetto (motivato) della sua richiesta di archiviazione per addotta
improbabilità di condanna peserà non poco nel prosieguo del giudizio. Tale
effetto – sia pur solo giuridicamente – potrebbe invero contenersi sol
disponendo che la pronuncia del giudice sulla richiesta di archiviazione
avanzata o dalla difesa o dall’accusa (sotto questo profilo l’identità del
richiedente risulta invero indifferente) non possa mai entrare a far parte del
fascicolo del dibattimento, salvo che lo chiedano concordemente le parti. Ma va
pure considerato che la questione della possibile influenzabilità del giudice
successivo è forse meno rilevante di quanto appaia a prima vista, perché un
rigetto del genere produrrebbe semmai, nella più parte dei casi, un
significativo – ma corretto – impulso deflattivo, in quanto, secondo logica,
dovrebbe indurre di solito la difesa a indirizzarsi subito dopo, ove possibile,
verso un rito alternativo al dibattimento.
Mi preoccupa non poco, infine, la progettata
modifica del modus procedendi ordinario nei giudizi di impugnazione, da
orale a cartolare. È un fatto che la comprensione di un ragionamento altrui
risulta assai più impegnativa dalla sola lettura di ciò che abbia scritto
piuttosto che dall’ascolto diretto. Soprattutto se, come inevitabilmente accade
a tutti i nostri giudici, si hanno migliaia di carte da leggere in poco tempo.
Sfido chiunque di noi avvocati ad affermare che ogni volta si sia imbattuto in
una sentenza la abbia immancabilmente e dettagliatamente compresa alla prima
lettura. Lo stesso, credo, non potrà onestamente sostenere un giudice con
riguardo ad ogni atto di appello o ricorso per cassazione che abbia letto. Il
tema meriterebbe evidentemente maggiore approfondimento, tuttavia, andando
subito al nocciolo, non credo sia discutibile che un giudizio cartolare
comporti minori garanzie per le parti rispetto a quello orale.
Auspico, dunque, che la scelta di non
discutere l’impugnazione sia lasciata esclusivamente alla parte che abbia
proposto l’impugnazione medesima. In molti casi la discussione può risultare
effettivamente superflua, e chi ha predisposto il gravame lo sa. Allora sarà
lui stesso a rinunciarvi. Del resto, proprio in questo senso è la prassi
(virtuosa) che in molte corti di appello e in Cassazione si è radicata da più
di qualche anno: all’inizio dell’udienza il presidente chiede chi, tra i
diversi appellanti o ricorrenti, intenda semplicemente insistere sui motivi e
chiama subito il relativo processo mettendolo in decisione. La progettata
novella, invertendo questo rapporto, capovolge pericolosamente il principio che
vi sta alla base: dovrà essere l’appellante o il ricorrente a chiedere
espressamente, ed eccezionalmente, la discussione orale, e quindi svolgerla
sostenendo in qualche modo che quanto i giudici avrebbero prima facie colto
dal suo scritto non è esattamente ciò che egli avrebbe voluto dire. Il che
significa, in buona sostanza, lasciare intendere che i giudici siano stati
eventualmente poco attenti o superficiali lettori. Non scommetterei che molti
di loro sarebbero sempre pronti ad accettarlo. Io non lo accetterei. Ma proprio
per niente. E per chi deve essere ascoltato, le conseguenze di porsi subito
male nei confronti di chi lo debba ascoltare mi paiono del tutto evidenti.
una decina di articoli.
Dal 1993 al 1998 ha svolto le funzioni di Vice Pretore Onorario presso la Pretura di Palermo. Dal 1998 al 2007, oltre ad esercitare la professione di avvocato, ha insegnato diritto penale – per singoli temi – presso la Scuola di Perfezionamento delle discipline giuridiche dell’Università di Palermo, diretta dal Prof. Galasso.
Ha svolto le funzioni di relatore in diversi convegni, tra i quali, da ultimo
quello organizzato dall’associazione Logos e Ius, e tenutosi a Palermo presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, il 23 ottobre 2019, dal titolo “La prescrizione non è una cura”, e quello tenutosi presso la facolta di giurisprudenza dell’Università di Palermo il 29 marzo 2019, dal titolo “Tutela dei migranti e libertà fondamentali. Lo Stato di diritto e la vicenda Diciotti”.