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07 settembre 2021

Il volto attuale del diritto penale economico - del prof. Andrea R. Castaldo (*)



In tempi di logica fuzzy le certezze vacillano e la disponibilità al compromesso cresce. Ciò nonostante, individuare le linee portanti del diritto penale dell’economia nell’attualità è impresa difficile. Del resto, tracciare la fisionomia di un volto è complicato se è incerta persino l’identità. Infatti, la definizione tradizionale di diritto penale dell’economia ha un sapore convenzionale che poco si attaglia al dinamismo dei fenomeni che pretende di governare. Un adulto impacciato da movimenti di bambino. Diritto penale societario, bancario, fallimentare, tributario si reggono sulla premessa che lo strumento più invasivo per natura debba intervenire in funzione di monito per prevenire l’aggressione a beni giuridici primari e di sanzione per reprimere l’offesa agli stessi. Senonché, questa condivisibile impostazione a livello teorico ha finito per smarrirsi pressoché completamente nella prassi per una serie concomitante di fattori. 

In ordine sparso: gli interventi random nelle varie macroaree, senza reale collante e uniformità di impostazione; l’influenza del diritto comunitario e le regole internazionali di soft law; le prescrizioni stringenti delle autorità regolatorie europee; la spinta politico-demagogica di consolidati gruppi di pressione. Non da ultimo, la promozione di circuiti di virtuosismo alimentata dalla convinzione che l’eticizzazione del settore passi e si confonda con lo strumento penale. Ecco allora la trasformazione dei tratti comuni. Innanzitutto, l’autore del reato: sempre più spersonalizzato, con l’erosione costante del soggetto in favore dell’organizzazione, non necessariamente costituita in forma societaria. E anche quando permane la fisicità, la responsabilità si costruisce su un modello di difettosa, insufficiente vigilanza. Dunque, la seconda rivoluzione: lo schema classico dell’imputazione dolosa attiva si inverte in quella colposa omissiva. Punisco il risultato per l’inazione, colposa per la violazione di una regola cautelare a finalità preventiva. Un risultato che si identifica non nell’evento, ma nel pericolo, concetto più duttile e servente (nella sua ontologica indeterminatezza facilitatrice della prova). L’arretramento della soglia di punibilità gioca pertanto un ruolo predominante nella costruzione del rischio e nella correlata esigenza di abbatterlo attraverso lo stigma penale. Sonda i rischi, attìvati per eliminarli per non pagarne le conseguenze! Non esiste una data di nascita ufficiale di questa tendenza politico-criminale, ma gli albori possono agevolmente rintracciarsi, da un lato, nell’ormai famoso D.lgs. 231/2001, dall’altro nella strategia antiriciclaggio e anticorruzione. Il modulo, infatti, è abbastanza identico e asimmetrico nel rapporto di forza con l’antagonista-destinatario. Cioè, individuare nella realtà di riferimento i settori critici per la commissione di gruppi di reato ‘tipici’, mapparne i rischi, istituire un organismo di primo livello incaricato di vigilare sulla corretta osservanza di un momento prevenzionale costruito ad hoc, prevedere un’autorità centralizzata con il compito di vagliare in seconda istanza potenziali condotte illecite penalmente. In caso di inadempimento, una sanzione di tipo patrimoniale-interdittivo. Il riferimento ovvio è agli obblighi di collaborazione attiva, tra cui la segnalazione di operazioni sospette all’UIF, la compliance rafforzata nel settore pubblico e privato e il flusso informativo all’ANAC. Ma questo trend inarrestabile e seducente si espone a una triplice critica.

Prima: la prevenzione per essere efficace e credibile deve innestarsi in un terreno di regole chiare nel contenuto, precise quanto a destinatari. Se la complessità e l’oscurità non possono costituire un alibi per l’impunità della trasgressione, tuttavia rappresentano una perdita di fiducia per l’operatore e di credibilità del target da raggiungere. E i rami del diritto penale economico sono intrecciati, appuntiti, simili a rovi da estirpare o almeno da potare. Seconda: gli obblighi posti a carico dell’imprenditore hanno un costo non trascurabile, richiedono investimenti e uscite costanti e prolungate. Occorrerebbe pensare a una defiscalizzazione, magari parziale, per stimolare l’appetibilità. Senza contare le perplessità che genera la discutibile prassi di traslare dal pubblico al privato compiti di controllo e di rispetto della legalità di appannaggio del primo. Terza: la politica criminale non può affidarsi all’idea esclusiva dello stick senza bilanciamento con la carrot. Vale a dire, l’adempimento puntuale delle prescrizioni, di per sé non agevole e allettante per le ragioni spiegate, va accompagnato e gestito, secondo una scala crescente, da meccanismi di qualificazione del rating e dello standing reputazionale, da forme di accesso privilegiato a procedure negoziali con la P.A., fino all’ingresso di attenuanti specifiche e a cause di non punibilità. I timidi interventi in tale direzione (specie nel passato; dalle false comunicazioni sociali ai reati tributari) sono stati oggetto di censure strumentali e in gran parte ideologiche, che hanno provocato l’imbarazzante stasi in un settore dove dinamismo E innovazione rappresentano al contrario il dna in grado di alimentare il tessuto linfatico vitale.


(*) Andrea R. Castaldo: è 
Professore Ordinario di Diritto Penale nell'Università degli Studi di Salerno