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29 settembre 2022

E se il divieto di reformatio in peius non avesse raison d’être nel nostro ordinamento?- di Fabrizio Guercio*


                                                

La distinzione tra ‘‘de iure condito’’ e ‘‘de iure condendo’’ è una delle prime nozioni che si apprendono all’Università, ma – se mi si chiede di svestire per un giorno i panni (recte, la toga) di Giudice e indossare idealmente quelli del Legislatore – non posso non rappresentare le mie perplessità in ordine alla permanenza, nel nostro ordinamento giuridico, del ‘‘divieto di reformatio in peius’’.

Com’è noto, tale istituto di tradizione secolare[1] – il cui addentellato normativo risiede oggi nell’art. 597 co. 3 c.p.p. – preclude al Giudice dell’Appello, nelle ipotesi di impugnazione esperita dal solo imputato, di riformare in senso peggiorativo per quest’ultimo la sentenza di primo grado, impedendogli, in particolare, di irrogare una pena più grave per specie e/o quantità, applicare una nuova o più grave misura di sicurezza, revocare i benefici di legge concessi dal Giudice di prime cure e persino prosciogliere l’imputato con una formula meno favorevole di quella enunciata nella sentenza oggetto di gravame.

Peraltro, come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass. Pen., SS.U.U., n. 40919/2005 e Cass. Pen., Sez. V, n. 14353/2019), tale principio si riferisce a tutti gli elementi di cui si compone il trattamento sanzionatorio: pertanto, nelle ipotesi di reati circostanziati e  di reati concorrenti ex art. 81 c.p., il Giudice di secondo grado non può modificare in senso deteriore né la pena base del reato né le riduzioni per le circostanze attenuanti o gli aumenti per le aggravanti o per il reato concorrente, neppure nel caso in cui pervenga comunque ad una riduzione della pena complessivamente inflitta, stante il persistente interesse dell’imputato ad una maggiore riduzione o a un minore aumento per i singoli elementi circostanziali del reato o per il ‘‘reato satellite’’. Ne consegue che, in caso di accoglimento dell’appello proposto dall’imputato, la pena irrogata con la sentenza impugnata dev’essere necessariamente ridotta, come peraltro enunciato expressis verbis dal comma 4 della disposizione in commento[2], a tenore del quale, anche nell’ipotesi di impugnazione da parte del Pubblico Ministero («in ogni caso»), «se è accolto l'appello dell'imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita».

Al Giudice del gravame, per contro, è concessa la facoltà di riqualificare il fatto di reato in termini di maggiore gravità (in ossequio al principio iura novit curia), purché non venga comunque superata la competenza del giudice di primo grado. Inoltre – secondo una condivisa e condivisibile opinione dottrinale – è concessa al Giudice dell’Appello la possibilità di ‘‘aggravare’’ l’apparato motivazionale della sentenza impugnata, dovendosi ritenere che il divieto di reformatio in peius incida sul solo dispositivo e, nello specifico, sulle statuizioni penali in esso contenute.

Prima di esaminare nel dettaglio le ragioni a sostegno dell’abolizione di tale istituto, giova ripercorrere brevemente il travagliato iter parlamentare che ha condotto alla sua introduzione nel vigente codice di rito: è infatti sufficiente una veloce lettura dei lavori preparatori al codice di procedura penale – il cui progetto preliminare non contemplava il divieto di reformatio in peius[3] ­­– per accorgersi che la sua previsione è stato il frutto di un ‘‘compromesso politico’’, per effetto del quale è stato introdotto nel nostro ordinamento, quale vero e proprio argine delle «temerarietà degli imputati», l’istituto dell’appello incidentale del Pubblico Ministero[4], recentemente abolito dal D.lgs. n. 11/2018, che ha radicalmente riscritto l’art. 595 c.p.p. 

Tutto ciò premesso, l’istituto de quo mal si concilia – a parere dello scrivente – con la matrice ‘‘tendenzialmente’’ accusatoria del processo penale disegnato dal ‘‘nuovo’’ codice di rito.

A tal proposito, appare opportuno rilevare che, in un ipotetico sistema processuale accusatorio ‘‘puro’’, il processo è governato dal principio dispositivo[5], sicché sono rimessi all’iniziativa di parte la sua instaurazione, il suo svolgimento e l’acquisizione dei mezzi di prova: ne consegue che il Giudice, assolvendo esclusivamente alla funzione di ‘‘garante delle regole del gioco’’, decide la controversia sulla base dei fatti “allegati” e “provati” dalle parti («iudex iuxta alligata et probata iudicare debet»), giacché «quod non est in actis non est in mundo».

Per contro, in un sistema processuale come il nostro, ‘‘solo’’ tendenzialmente accusatorio, il Giudice costituisce un soggetto istituzionalizzato, distinto e distante (rectius, equidistante) dalle parti[6], preposto a decidere una controversia sulla base delle sole prove «legittimamente acquisite[7]», su iniziativa di parte o d’ufficio, e sottoposte al vaglio della dialettica processuale.

Infatti, nella prospettiva del processo come «actus trium personarum»[8], il Giudice è un garante dell’ordinamento giuridico (da intendersi come ‘‘ordine’’ delle relazioni intersoggettive[9]) e, di conseguenza, arbitro dei rapporti umani (giacché ne garantisce l’‘‘ordinato’’ svolgimento), il cui compito precipuo è quello di giudicare di un ‘‘fatto’’, ossia un’azione passata[10], al quale non ha fisiologicamente assistito[11]: per potere assolvere al proprio munus, dunque, il Decidente deve ricostruire la vicenda particolare e concreta sottoposta al suo vaglio alla luce delle prospettazioni delle parti, ma nella misura più aderente possibile alla “verità storica”, cioè al modo in cui tali fatti si sono svolti nella realtà.

E invero, il nostro sistema processuale ‘‘si nutre’’ della contrapposizione dialettica delle parti, sul presupposto che «la confrontazione è la pietra di paragone della verità»[12], il cui accertamento costituisce la precondizione di una sentenza ‘‘giusta’’.

 Basti rammentare, in tal senso, che è obbligo del testimone «rispondere secondo verità»[13] ed è compito dell’interprete e del perito «far conoscere la verità» all’Autorità Giudiziaria[14]. Ma soprattutto, occorre ricordare che il Giudice può «indicare alle parti temi di prova nuovi o più ampi»[15], nonché, ove risulti «assolutamente necessario ai fini del decidere», disporre ex officio «l’assunzione di nuovi mezzi di prova» ovvero «l’assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento» con l’accordo delle parti[16].

Appare tuttavia opportuno precisare che la ‘‘verità’’ cui si fa riferimento in questa sede è quella ‘‘processuale’’, che scaturisce dal giudizio e si cristallizza nella res iudicata, non già quella – di inquisitoria memoria – ‘‘oggettiva’’ o ‘‘immutabile’’, preesistente al iudicium ed esterna ad esso[17]: in altre parole, la “verità processuale” non è che una «verità probabile», sebbene «autoritativamente certificata»[18].

Ciò posto, non si comprende per quale ragione, in un sistema preordinato all’accertamento della verità (processuale) attraverso il metodo del contraddittorio[19], debba negarsi al Giudice del gravame, ove investito della ‘‘questione’’ dal solo imputato, il potere di riformare una pronuncia di primo grado reputata erronea.

In termini più esplicativi, se la ratio della previsione di un secondo grado di giudizio è quella di consentire un ‘‘controllo’’ endoprocessuale sull’operato del Giudice di prime cure, ancorché limitatamente ai ‘‘capi’’ e ‘‘punti’’ della sentenza costituenti oggetto di impugnazione (in ossequio alla natura devolutiva del giudizio di appello, compendiata nel brocardo «tantum devolutum quantum appellatum»), non vi è motivo di limitarne il sindacato in senso esclusivamente favorevole al reo, atteso che, per effetto di tale istituto, nell’ipotesi di appello da parte del solo imputato si determina un incomprensibile squilibrio tra i poteri cognitivi del Giudice di secondo grado e i suoi poteri decisionali: detto altrimenti, rispetto al punto della sentenza devoluto alla sua cognizione dall’imputato appellante, il Giudice dell’Appello non gode di un pieno potere decisorio, poiché non può aggravare il complessivo trattamento sanzionatorio irrogato dal precedente Decidente.

Peraltro, la (fisiologica) fallibilità del Giudice inteso come persona fisica non può neppure essere assunta come argomento a favore del divieto di reformatio in peius, per due ordini di ragioni: in primo luogo, perché, muovendo da tale presupposto, l’ordinamento processuale ha (correttamente) predisposto dei meccanismi di controllo delle decisioni giudiziarie, quali l’obbligo di motivazione e – per quel che qui rileva – la previsione di un secondo grado di giudizio; inoltre, perché – accantonate le elucubrazioni mentali ed esaminati i ‘‘numeri’’ delle impugnazioni e dei loro esiti – i giudici di primo grado commettono meno errori di quelli che, prima facie, si potrebbero immaginare.

E invero, analizzando nel dettaglio i dati statistici illustrati nella ‘‘Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021’’ redatta dalla Corte di Appello di Palermo lo scorso 22 gennaio[20], appare evidente che nel precedente anno giudiziario, all’interno del distretto giudiziario palermitano, soltanto il 36% delle sentenze impugnate è stato riformato, in toto o in parte, e che – a fronte di una quasi totalità di impugnazioni avverso sentenze di condanne – soltanto il 16% dei procedimenti pendenti dinanzi la Corte di Appello si è concluso con un’assoluzione, a dimostrazione della ridotta percentuale di errore in cui incorrono i Giudici dei Tribunali del Distretto (e non solo)[21].

Peraltro, in un’ottica di ‘‘fair play processuale’’ e ‘‘parità delle armi’’ (‘‘equality of arms’’), sarebbe corretto – a parere dello scrivente – far gravare sull’imputato unico appellante il ‘‘rischio’’ di una pronuncia di appello più sfavorevole.

Di certo, l’abolizione di tale divieto costituirebbe un formidabile disincentivo alla proposizione di impugnazioni non sorrette da solide argomentazioni giuridiche, il cui unico è effetto è quello di ingolfare la Giustizia.

Con riferimento a quest’ultimo profilo, appare infatti inevitabile, in un sistema nel quale l’imputato non ha ‘‘nulla da perdere’’ e ‘‘tutto da guadagnare’’, che un buon numero di impugnazioni siano pretestuose o, quantomeno, dilatorie. Oppure semplicemente affidate all’alea: come se prevedere un secondo grado di giudizio fosse eguale a concedere all’imputato un secondo tentativo nel gioco dei dadi, ma con la garanzia che il nuovo lancio darà un esito migliore di quello precedente, o comunque non peggiore.

Tali perplessità, del resto, erano già state esternate, in illo tempore, dall’allora Guardasigilli Rocco, secondo il quale «conviene togliere all'imputato la facoltà di appellare senza alcun rischio, anzi col vantaggio, nella peggiore delle ipotesi, di differire il momento dell'esecuzione della condanna. Così facendo si ridurrà il numero degli appelli a quei soli casi che veramente possono apparire meritevoli di riesame, perché l'imputato, conscio della possibilità della reformatio in peius, si guarderà bene dal proporre l'impugnazione, quando non abbia la coscienza di meritare l'assoluzione o quanto meno una diminuzione di pena. Se egli reclama un nuovo giudizio, deve assoggettarvisi completamente; se non vuole correre alcun rischio si accontenti della pena»[22].

Orbene, si potrebbe obiettare a quanto testé rappresentato che la previsione di più gradi di giudizio risponde esclusivamente alla necessità di accordare un ‘‘rimedio’’ all’imputato che ritenga di aver subito un ingiusto nocumento dalla pronuncia di primo grado, di guisa che non vi sarebbe motivo di far gravare sul medesimo il rischio di un trattamento sanzionatorio deteriore.

Sennonché tali conclusioni risultano smentite dalla finalità ultima del processo penale delineato dal Legislatore, ossia – come anzidetto – l’accertamento della verità processuale.

Peraltro, depone nella medesima direzione la coesistenza, nel giudizio penale, di interessi diversi e ulteriori rispetto a quello di cui è portatore l’imputato: e invero, oltre al suo sacro e inviolabile diritto alla libertà individuale, scolpito a chiare lettere nell’articolo 13 della Carta costituzionale, vengono in rilievo e necessitano di un accurato ‘‘bilanciamento’’ col primo gli interessi della persona offesa dal reato, nonché quello dello Stato ad una pronta ed efficace repressione della condotta penalmente rilevante (tanto più se idonea a generare un allarme sociale e a minare la pax sociale). 

Come su accennato, inoltre, la quasi totalità delle sentenze appellate è costituita da pronunce di condanna: per gli imputati, infatti, non vi è alcun ‘‘disincentivo’’ a proporre impugnazione (soprattutto se beneficiano del patrocinio a Spese dello Stato) ed è loro precipuo interesse devolvere alla cognizione del Giudice di Appello l’intero thema decidendum, appellando tutti i punti e tutti i capi della sentenza.

L’effetto – com’è evidente – è quello di ‘‘replicare’’ il giudizio di primo grado, dilatando inutilmente i tempi di definizione del giudizio, con tutto ciò che ne consegue (soprattutto, in termini di costi per lo Stato).

Di riflesso, questo straordinario strumento di civiltà giuridica che è il giudizio di Appello finisce spesso col diventare un espedente dilatorio che mal si concilia con le esigenze di efficienza del sistema e, nello specifico, con quell’esigenza di «ragionevole durata» dei processi invocata a gran voce –com’è giusto che sia – dagli operatori del diritto e, soprattutto, dai cittadini.

Ovviamente, l’anelata efficienza del sistema non deve risolversi a detrimento dell’imputato: a questo punto, però, conviene chiedersi quale sarebbe la «raison d’être» del divieto di reformatio in peius.

A tal riguardo, non meritano accoglimento – a parere dello scrivente – le tesi secondo cui l’istituto de quo trova il proprio fondamento logico-giuridico nel principio del ‘‘favor rei’’ o nel diritto di difesa dell’imputato[23].

Con riguardo alla prima, giova innanzitutto rilevare che il principio del favor rei costituisce, per un verso, un criterio ermeneutico alla stregua del quale, a fronte di plurime interpretazioni possibili, deve privilegiarsi quella più favorevole all’imputato e, per altro verso, il principio ispiratore di alcuni istituti processuali la cui ratio è quella di porre rimedio ad ‘‘errori giudiziari’’ o a ‘‘condanne ingiuste’’ (si pensi, a titolo esemplificativo, al giudizio di revisione o alla rescissione del giudicato): ciò posto, non si capisce in che misura il favor rei – inteso come criterio interpretativo oppure come ‘‘principio-guida’’ dell’ordinamento processuale – possa giustificare il divieto di reformatio in peius, precludendo al Giudice dell’Appello di modificare, in senso deteriore per l’imputato, una sentenza ritenuta ingiusta (ancorché in bonam partem).

E allora più che di favor rei sarebbe corretto parlare di privilegium rei: un privilegio tanto risalente nel tempo quanto ingiustificato e ingiustificabile.

Quanto invece alla tesi che ne ravvisa il fondamento nell’inalienabile diritto di difesa dell’imputato, di cui all’articolo 24 della Carta fondamentale, non è dato comprendere in che modo l’abolizione di tale divieto possa incidere su questo diritto costituzionalmente garantito.

E invero, quand’anche lo si eliminasse, l’imputato che ritenga di essere stato ingiustamente condannato o di avere subito un trattamento sanzionatorio iniquo potrebbe comunque impugnare la pronuncia a lui sfavorevole: tuttavia, dovrebbe ponderare con maggiore attenzione la propria decisione, non godendo più di alcuna ‘‘immunità’’ contro una modifica in senso peggiorativo della sentenza di primo grado.

Si tratta in altri termini di ‘‘responsabilizzare’’ l’imputato, senza conculcarne, per contro, il diritto di ‘‘difendersi impugnando’’: d’altronde, questo suo ‘‘diritto’’ non può trasmodare in un ‘‘privilegio’’ di cui (anche) lo scrivente fatica a ravvisare la ratio.

Infatti, la circostanza che il Pubblico Ministero non abbia manifestato interesse a proporre un’impugnazione non consente, per ciò solo, di giustificare un’evidente limitazione della funzione giurisdizionale, preordinata all’accertamento della verità (processuale).

A tal proposito, peraltro, occorre rammentare che la legittimazione del Pubblico Ministero a proporre appello è limitata a poche ipotesi tassativamente previste dal codice di rito e che – come sopra anticipato – è stato recentemente espunto dal nostro ordinamento l’istituto dell’appello incidentale del Pubblico Ministero, congegnato ab origine come naturale deterrente delle impugnazioni pretestuose o dilatorie. 

Ma vi è di più: gli attuali carichi di lavoro di molte Procure della Repubblica spesso non consentono agli organi requirenti neppure di valutare funditus l’opportunità di proporre appello avverso le sentenze di primo grado (quantomeno avuto riguardo alle pronunce monocratiche aventi ad oggetto fattispecie di reato bagatellari o non particolarmente gravi).

Che non sia forse giunta l’ora, alla luce delle suesposte considerazioni, di calare il sipario su questo tralaticio istituto giuridico?



[1] Se ne rinviene traccia, oltre che nei codici di procedura penale del 1865 (art. 419 co. 3) e del 1913 (art. 480 co. 2), anche nelle codificazioni pre-unitarie (cfr., sul punto, G. SPANGHER, Reformatio in Peius (divieto di) (dir. proc. pen.), in Enc. Dir. XXXIX, 1988, pag. 273, nota n. 4).

[2] Introdotto al fine precipuo di porre fine a quell’orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale il divieto in questione era riferibile alla sola pena complessivamente inflitta.

[3] «Quando il rapporto processuale venga mantenuto in vita mediante un atto del solo imputato, il giudice assume e mantiene il potere-dovere di conoscere e di decidere, senza che alcuno possa limitarglielo o privarnelo, fuori dei casi eccezionalmente consentiti dalla legge»: cfr. ROCCO A., Progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale con la relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, 1929, vol. VIII, p. 103.

[4] «In questo modo le temerarietà degli imputati rimangono frenate dalla possibilità dell’appello incidentale del pubblico ministero e si conserva il divieto della riforma in peggio in quei casi in cui, essendo stato proposto l’appello dal solo imputato, il pubblico ministero non abbia ritenuto che mettesse conto d'appellare a sua volta»: cfr. Ibidem, p. 74.

[5] Magistralmente compendiato nei brocardi «ne procedat iudex ex officio» (o «nemo iudex sine auctore») e «iudex non potest de facto supplere».

[6] ‘‘Parti’’ rispetto all’ordinamento tout court e, dunque, espressione di un punto di vista parziale: cfr. TRUJILLO I., Imparzialità, in D'Agostino F. – Viola F. (a cura di), Recta Ratio.Testi e Studi di Filosofia del Diritto, Giappichelli, Torino, 2003, p. 52, secondo cui la parola ‘‘parziale’’ deriva dall’etimo sanscrito par o prnati, il cui significato è ‘‘ciò che si dà o si assegna’’ a completamento dell’intero.

[7] A mente dell’art. 526 co. 1 c.p.p., infatti, «il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento». Inoltre, in base all’art. 111 della Costituzione, «Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. (…) La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita».

[8] Cfr. BULGARO, De iudiciis, § 8, secondo cui «processus est actus trium personarum, actoris, rei, iudicis».

[9] Nella prospettiva dell’insigne giurista palermitano Santi Romano, le relazioni umane sono l’elemento costitutivo dell’esperienza giuridica: «ubi homo, ibi societas; ubi societas, ibi ius; ergo, ubi homo, ibi ius».

[10] Non a caso, il sintagma ‘‘fatto’’ deriva dal latino ‘‘factum’’, participio passato di facere («fare»).

[11] Diversamente, infatti, non sarebbe un soggetto ‘‘terzo’’, bensì un testimone.

[12] Cfr. PAGANO F. M., Opere Filosofico-Politiche ed estetiche, Sapienza, Università di Roma, 1837, p. 472, nonché MACIOCE F., Il principio di lealtà, nella prassi processuale e nei rapporti fra poteri, Relazione al corso di formazione per magistrati della Corte dei Conti, Roma, 2010, pp. 3 e 4, secondo cui «il processo (…) come luogo istituzionale del confronto tra le pretese soggettive, e dunque del riconoscimento della parità dell’altro, non può che veicolarsi attraverso una comunicazione su un piano di parità (…) È una modalità di risoluzione delle controversie che si fonda sull’istituzionalizzazione di un'interazione dialogica».

[13] Cfr. art. 198 co. 1 c.p.p.

[14] Cfr., rispettivamente, artt. 146 co. 2 e 226 co. 1 c.p.p.

[15] Così recita l’art. 506 c.p.p., rubricato ‘‘Poteri del presidente in ordine all’esame dei testimoni e delle parti private’’.

[16] Ai sensi dell’art. 507 c.p.p., «1. Terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova. 1-bis. Il giudice può disporre a norma del comma 1 anche l’assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento a norma degli articoli 431, comma 2, e 493, comma 3». Una norma di analogo tenore è dettata, in materia di giudizio abbreviato, dall’art. 441 co. 5 c.p.p.: «Quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d'ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione. Resta salva in tale caso l’applicabilità dell’articolo 423».

[17] Il ‘‘Giudice inquisitore’’, preposto ad accertare la Verità (in senso ‘‘assoluto’’), gode del potere di attivarsi ex officio per la repressione di un fatto di reato e per l’acquisizione delle relative prove: in particolare, dispone di pieni poteri coercitivi e di una illimitata discrezionalità in tema di ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della prova.

Per una più puntuale ricostruzione dei due modelli processuali, v. TONINI P., Manuale di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 4-27 e AA.VV., Diritto processuale penale, Vol.1, cit., pp. 37-41.

[18] Cfr. BANKOWSKI Z., citato in D. Canale, Il ragionamento giuridico, in Pino G. – Schiavello A. – Villa V. (a cura di), Filosofia del diritto: introduzione critica al pensiero giuridico e al diritto positivo, Giappichelli, Torino, 2013, p. 346.

[19] Il termine ‘‘contraddittorio’’ deriva dal latino ‘‘contra dicere” («contraddire»), da intendersi come «dicere (aliquid) contra (aliquem)», ossia «dire (qualcosa) di fronte (a qualcuno)». Nella specie, «dicere (aliquid) contra (iudicem)», contrastando le argomentazioni della controparte e offrendo ragioni a sostegno delle proprie pretese: cfr. TRANCHINA G., Il processo penale e le sue caratteristiche, in Siracusano D. – Galati A. – Tranchina G. – Zappalà E. (a cura di), Diritto processuale penale, Vol.1, Giuffrè, Milano, 2011, p. 33.

Merita altresì di essere rilevato che, nella sua ‘‘versione debole’’, il principio del contraddittorio coincide col “right to a hearing” di matrice anglosassone, ovverosia il diritto di essere ascoltati prima di subire un provvedimento giudiziario potenzialmente lesivo della propria sfera giuridica; inteso ‘‘in senso forte’’ (come nel caso di specie), invece, il contraddittorio concerne il ‘‘metodo’’ di formazione della prova, cui le parti contribuiscono in posizione fra loro paritetica (in tal senso, un illustre Autore ha parlato di contraddittorio «per la prova», per distinguerlo dal contraddittorio «sulla prova», che attiene alla fase processuale in cui le parti medesime avanzano le proprie le richieste istruttorie: cfr. SIRACUSANO D., citato in Tonini P., Manuale di procedurara penale, cit., p. 242).

 [20] Cfr. pp. 89-93.

[21] Per completezza espositiva, merita di essere segnalato che l’87% delle pronunce emesse dalla Corte di Appello di Palermo sono state confermate in Cassazione (a livello nazionale, invece, è stato registrato un indice di stabilità delle pronunce di secondo grado pari all’82%).

[22] Cfr. ROCCO A., Progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale con la relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, 1929, vol. VIII, p. 103.

[23] Si rinvia, a tal riguardo, a PAULESU P.P., ‘‘Il divieto di reformatio in peius: note a margine di una garanzia controversa’’, in Archivio Penale 2020 n. 1, par. 2, pp. 4 e ss.

 (*) Fabrizio Guercio: è Magistrato Ordinario con funzioni giudicanti penali presso il Tribunale di Marsala dal novembre del 2020. Laureato nel marzo del 2014 nell’Università degli studi di Palermo con il massimo dei voti in tutte le discipline e con la valutazione finale di 110/110, con lode, menzione al curriculum studiorum, nonché alla tesi di laurea, redigendo un elaborato di tipo sperimentale, nelle discipline della deontologia del diritto e del diritto processuale penale, dal titolo ‘‘L’imparzialità come virtù del giudice: un approccio all’etica professionale nella prospettiva dell’agente e delle sue qualità’’. Nel corso dell’anno accademico 2012/2013 ha svolto, nell’ambito del progetto ‘‘Erasmus’’, un periodo di studi della durata di alcuni mesi presso la ‘‘Kozminski University’’ di Varsavia (Polonia).