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30 settembre 2022

Quale processo vorrei mantenendo il divieto di reformatio in pejus. Diversamente si esporrebbe l'inerme cittadino alla forza punitiva dello Stato - di Marco Siragusa



Quando a Daniele Livreri è venuta l'idea di aprire su questo blog un dibattito sulla Riforma che vorrei (link) ho subito pensato che nessuno – tra avvocati e magistrati – fosse soddisfatto della Riforma Cartabia (ex Bonafede) della quale ci siamo qui ampiamente occupati (link) mentre attendiamo la pubblicazione in G.U. dei decreti legislativi (link), ormai approvati dal CDM (link).

Un po' ingenuamente – lo ammetto – penso che la polifonia alla quale aspira questo blog (che il prossimo 3 ottobre compirà due anni) sia un terreno franco e neutro per discutere aperta...mente e al di fuori dagli schemi rigidi che contrappongono l'associazione sindacale dei magistrati (ANM) e quella politica dei penalisti italiani (UCPI). Con questo spirito mi accingo quindi a dire la mia sul commento (E se il divieto di reformatio in peius non avesse raison d’être nel nostro ordinamento? al link) del dott. Fabrizio Guercio, giovane e valente giudice del tribunale di Marsala, molto attivo su questo blog con commenti spesso pertinenti e densi (blog del quale il dott. Guercio è anche componente del comitato di "redazione", link).

Dirò sin da subito la Riforma che vorrei così da rendere poi più agevole la lettura – dal mio punto di vista critico – al pensiero del dott. Guercio sull'auspicata abolizione del divieto di riforma peggiorativa (un'idea che considero una pericolosissima iattura del prossimo futuro).

Vorrei un processo di parti nel quale le indagini siano preliminari cioè brevi e destinate alle sole determinazioni sull'azione anziché alla formazione di una prova lontano dal giudice della decisione.

Vorrei un processo nel quale il dibattimento sia il centro di gravità permanente; il luogo dove due parti, sedute sullo stesso piano e con l'attore separato dalla colleganza con l'arbitro, si confrontino su tesi e antitesi; un processo nel quale cioè l'arbitro non senta di appartenere al medesimo ordine del collega dell'accusa e non abbia l'ansia (umana) di colmarne le carenze investigative disponendo legittimamente (nel sistema attuale) sulla e della prova. Vorrei, insomma, un arbitro alla maniera di quello civile, che sanziona le deficienze allegative dell'attore con la massima sanzione processuale: actore non probante reo absolvitur. Un arbitro che si quieta davanti allo stallo probatorio, perch'è chiamato soltanto a ricondurre a sintesi le tesi contrapposte senza concorrere alla creazione delle informazioni probatorie. Un arbitro al quale viene affidato il compito di temperare con la Costituzione – alludo alla presunzione di non colpevolezza – lo squilibrio tra la forza (teoricamente illimitata) di mezzi a disposizione dell'attore e la limitatezza di quelli del cittadino accusato dallo Stato (squilibrio che rimarrà anche quando l'attore sarà separato dall'arbitro). Confesso: credo poco al processo come luogo di ricerca della verità (ch'è verità umana e dunque, per fortuna, è fallibile). Il processo è l'insieme di regole per la ricostruzione di un fatto del passato; quanto più le regole sono eque e garantiste - e lo sono, in precondizione, se le parti stanno equidistanti dall'arbitro - tanto più quella "verità umana e fallibile" sarà accettata dai consociati nel cui nome la giustizia è amministrata così da ricomporre la pace sociale compromessa.

Vorrei un processo nel quale quel cittadino che Ettore Randazzo definiva il malcapitato arrivi al giudizio dell'arbitro senza aver sofferto la centralità delle indagini preliminari e la forza coercitiva e pregiudicante della cautela, magari accompagnate da una diffusa campagna mediatica orientata a presentarlo come colpevole con il chiaro obiettivo di condizionare il giudizio degli uomini che saranno gli arbitri della sua storia processuale (o della sua vita). 
È nelle sale in questi giorni il Signore delle Formiche, il film di Gianni Amelio sulla condanna penale dell'omosessualità. Un illecito che non poteva essere codificato dal Legislatore fascista, e nemmeno dall'ideologia del regime: l'italico discendente della romana progenie è maschio e non “invertito” (per citare il passo del film che, qui sono critico verso la pellicola, viene guarda caso messo in bocca ad uno stolto che riveste il ruolo di avvocato …). Dunque il delitto di omosessualità non aveva cittadinanza. Ma Braibanti viene condannato da un giudice che, quando lo interroga, ha già deciso di avallare la “costruzione fittizia” del collega dell'accusa (il reato di plagio); un giudice che orienta le sue domande non alla comprensione e al vaglio critico dell'ipotesi, ma cerca conferme al pregiudizio indotto dal processo inquisitorio e mediatico. Pensate siano storie del passato? Ma quando mai! Quanti processi abbiamo vissuto nel recente passato e incentrati su costruzioni ardite di ipotesi accusatorie oppure su contestazioni inesistenti (il famigerato art. 7) deputate solo a scartare il processo sul binario (doppio) dell'accertamento meno garantista? E quante di queste costruzioni “temerarie” hanno ricevuto la sanzione del giudice sin dall'udienza preliminare, magari soltanto con l'esclusione dell'aggravante contestata? Si citi un precedente, uno solo, e sarò pronto a ricredermi.

Vorrei un processo nel quale un fascicolo a Modello 21 non abbia oltre cinquanta (malcontati) diversi sbocchi; sbocchi dietro i quali s'annida l'errore che reca la contestazione (l'impugnazione) legittima, il ritardo e, alla fine, l'allungamento dei tempi.

Vorrei un processo penale nel quale il giudizio dell'udienza preliminare non funzioni al contrario, con il dubbio che è il carburante dell'azione.

Vorrei un processo (recte un diritto) penale minimo, con un'ampia depenalizzazione del bagatellare, per il quale si possono immaginare modelli di accertamento meno “garantisti” di quelli assicurati dalla formazione dibattimentale della prova, senza che si tenga ipocritamente insieme il medesimo modello di accertamento per la pesca da frodo e l'omicidio.

Vorrei un processo penale senza le metastasi del doppio e triplo binario. Sì, ho parlato di metastasi, ché questi sono i modelli di accertamento che costringono il medesimo essere umano a ragionare nel medesimo giorno secondo diverse procedure di ricostruzione del fatto, con la naturale conseguenza di “portare” la procedura più semplice, veloce e meno garantista, verso quella “ordinaria”.

Vorrei un processo (recte un sistema) penale liberato e che non sia il luogo di vendetta che oramai rappresenta, soprattutto in materia di prevenzione. Ho detto luogo di vendetta non a caso e mi smentisca chi può dire che la metastasi della prevenzione, cioè il suo modello di accertamento, affascina ed espande il suo terreno d'azione divenendo il campo nel quale l'accertamento di non colpevolezza su "non fatti" o su "fatti magmatici" viene ribaltato; il principio dell'azione viene ribaltato con l'inversione dell'onere della prova; il sospetto indiziario viene elevato ad ipoteca di giudizio.

Vorrei un processo penale che non tenda – com'è quello attuale e come, di recente, ci ha ricordato un luminare [1] – verso una soave inquisizione. Tanto varrebbe, per dirla alla romanesca, implorare un “aridatece il giudice istruttore”, ch'era un magistrato lontano – per ruolo, se non per ideologia - dagli organi di polizia e dai servizi informativi.

Vorrei un processo penale nel quale sia data la possibilità al cittadino accusato di difendersi compensando lo strapotere di chi lo accusa “concedendogli” la gratuità delle copie del suo fascicolo, anziché pretenderne il pagamento e le immani difficoltà di estrazione da un sistema informatico inaccettabile per come mal funziona (ne riparleremo lunedì 3 ottobre con l'incredibile caso della burocrazia informatica link).

Vorrei un processo penale nel quale sempre per il medesimo meccanismo compensativo le formalità siano bandite, com'era previsto dall'originaria legge delega del nuovo codice di procedura penale, anziché un processo nel quale si sanziona con la inammissibilità la mancata firma digitale di un allegato …

Potrei continuare, ma mi fermo qui nella speranza che il messaggio sia arrivato.

Solo allora, cioè solo alle condizioni di garanzia e di buon senso che ho in maniera random fin qui elencato, potrei finanche concordare con il pensiero del dott. Guercio: s'elimini il divieto di riforma peggiorativa in appello! Anzi, dico di più: si riduca l'appello; lo si trasformi alla maniera anglosassone nella semplice apposizione di un timbro: “non rilevante”.

Ma fino ad allora, finché cioè non ci saremo liberati da questa intollerabile “soave inquisizione”, che è talvolta è mascherata dalla citazione del principio della ragionevole durata, nessuna delle ragioni a sostegno dell'eliminazione del divieto saranno ricevibili e proverò, adesso, a spiegarne le motivazioni.

Le riflessioni del dott. Guercio sono dichiaratamente de iure condendo ed esprimono il punto di vista della magistratura associata sul tema del confronto (l'abolizione del divieto di reformatio in pejus) sin da quel documento “Statuto” che l'ANM licenziò il 10 novembre 2018 (link).

A leggere quel documento a distanza di quasi quattro anni emerge un dato: tutte le teorizzazioni riformistiche lì esposte hanno avuto realizzazione, fatta eccezione per il divieto di riforma peggiorativa del quale discutiamo qui.

Ora, poiché ho profonda stima nelle capacità culturali della magistratura associata, ma al tempo stesso nutro altrettanta preoccupazione per le capacità politiche della stessa – recte per la capacità di penetrazione della politica -, ho il timore che non tarderà il giorno che quell'idea diventerà legge. Per inciso e con franchezza: molte delle riforme recenti, delle quali tutti ci lamentiamo, sono state scritte dagli uffici legislativi dei ministeri cioè da magistrati fuori ruolo che sono deputati (non nel senso parlamentare del termine) a lavorare a stretto contatto con la politica, per così dire in secondo piano, ma da una prospettiva ben più efficace e capace di determinare le scelte legislative. È il male atavico di questo nostro disgraziato paese, dove i rappresentanti del popolo (a scanso di equivoci parlo dei politici) sono pochi oligarchi, leaderini di partiti che gestiscono nomine, che sono protesi solo alla ribalta social e televisiva confezionata con quegli slogan che il mercato dell'opinione pubblica richiede (spazzacorrotti, manette agli evasori, certezza della pena, per stare agli slogan più famosi). La debolezza della politica ha alterato, sin da mani pulite, gli equilibri tra i poteri dello Stato (legislativo, giudiziario ed esecutivo) e, si sa, in politica funziona così: gli spazi vuoti vengono colmati. Un Parlamento di nominati è chiamato ad obliterare con la fiducia le scelte legislative dell'esecutivo, scelte che sono “confezionate” dagli appartenenti ad un altro potere dello Stato (quello giudiziario) collocati fuori ruolo a supporto dei ministeri.

Quando la corda viene tirata troppo in là e si riesce a contenere l'esondazione fioriscono norme piene di “avverbi e periodi subordinati” con l'effetto di “calmierare” le riforme auspicate e animate dalla visione “inquisitoria” del processo. Tuttavia, quando non si riesce per via legislativa, l'obiettivo inquisitorio è raggiunto per via interpretativa: con un autentico cortocircuito, il giudice soggetto alla legge (art. 101 Cost.) ne diviene “creatore” coprendo la sua “creatura” sotto usbergo dell'interpretazione a Sezioni Unite, già rafforzata dalla ottenuta codificazione della nomofilachia forte. Accade poi che quel soffermo “unito” trovi ricetto nel codice. E il cerchio è chiuso.

Volete una dimostrazione? L'art. 525 c.p.p. in virtù di un'interpretazione a Sezioni Unite (Bajrami) è ormai disapplicato e il meccanismo che ho appena descritto ha contenuto il recupero di garanzia che costituiva una delle poche cose buone della Riforma Cartabia: la videoregistrazione delle sommarie informazioni sarà facoltativa e a richiesta della persona informata sui fatti, salvo che non vi siano carenze di mezzi.
Ci vuol molto a prevedere che si tratta di una riforma “canzonatoria”? o qualcuno è disponibile a credere che i testimoni opporranno agli investigatori un orgoglioso rifiuto in assenza di videoregistrazione? e se per ipotesi accadrà, ci vuol molto a prevedere che non vi sarà disponibilità di mezzi?

Come si vede uno dei punti qualificanti del programma politico sul processo penale dell'ANM (il citato documento del 10.11.2018) è “legge” ed ha resistito ai venti riformatori. Con buona pace del metodo epistemologico più affidabile al quale tutti teniamo …, ma solo a parole, avendo, come diceva un altro luminare del diritto processuale, “l'accusatorio sulle labbra e l'inquisitorio nel cuore”.

L'ultimo approdo è dunque il divieto di riforma peggiorativa, ottenuto il quale il progetto politico avrà avuto piena realizzazione. 
Invertendo l'ordine (ho prima trattato la pars costruens), proverò ora a dire perché non condivido le argomentazioni del dott. Guercio a sostegno dell'eliminazione del divieto (la pars destruens).

Prima, però, un inciso: se un principio è scritto nella Carta a garanzia del cittadino – mi riferisco alla ragionevole durata – non si vede come si possa (e avviene troppo spesso, per la verità) richiamarlo per sottrarre al beneficiario le garanzie “conquistate” nella Costituzione. Temo che questa tecnica argomentativa, che spesso si legge nei documenti dell'ANM, sconti un riflesso pavloviano legato alla più grande battaglia politica vinta nell'interesse di tutti i cittadini (anche dei magistrati) dall'Unione delle Camere Penali Italiane: l'art. 111 della Costituzione e la costituzionalizzazione del giusto ed equo processo.

Veniamo al dunque. 
In sintesi, secondo il pensiero del dott. Guercio, il divieto di riforma peggiorativa andrebbe eliminato perch'é iniquo che sia concessa al condannato la possibilità di dolersi senza alcun rischio (id est: senza il rischio di vedere aggravata la propria condanna). Confesso che questa prospettiva m'inquieta e nessuna delle dotte argomentazioni a sostegno mi persuade.

Spero di sbagliarmi, ma ho come la sensazione che s'intenda affermare che il condannato in primo grado è tale (colpevole!); è inutile che egli si dolga in appello perché sottrae risorse, anche economiche, al sistema.

Quest'idea della inutilità dell'appello in un sistema che – credo di aver dimostrato in premessa – non è affatto garantista in primo grado, non è neppure giustificata dalle statistiche che sono state citate, sia pure limitatamente al Distretto di Palermo. Infatti, se anche il Distretto fosse indicativo di un trend nazionale (e non lo è, perché a livello nazionale i numeri ci dicono che quasi una sentenza su due è riformata in appello), rimane che il 36% delle decisioni di prime cure ha subito modifiche in appello. Né mi pare sia decisivo l’argomento che solo il 16% di quelle pronunce abbia avuto un ribaltamento integrale (assoluzione vs condanna) perché ingiusta è anche quella decisione che irroga una pena (ad una condanna) eccessiva.

Si obietterà che nelle statistiche che ho citato (quasi il 50% delle decisioni è riformato in appello) incide anche la riforma per intervenuta prescrizione.

Questo mi pare sia il punto per affrontare il tema dell'eliminazione del divieto di riforma peggiorativa.
Al fondo delle critiche leggo un ripetuto riferimento alla dilatorietà dell'appello come tattica per postergare l'esito condannatorio. 
Lo dico con franchezza: mi pare un'argomentazione datata
Un tempo, a prescrizione vigente, la tattica dilatoria poteva anche funzionare; essa sfruttava legittimamente le inefficienze del sistema (che però non possono imputarsi a chi si difende, ma a chi lo amministra, ndr). Ma oggi, con l'abolizione dell'istituto della prescrizione e la creazione giurisprudenziale della fluida regola di inammissibilità in Cassazione, la prescrizione è una chimera. 

Insomma, non parliamo più di tattiche dilatorie ..., ché non è più tempo.

Mi pare che “attaccare” il divieto su questo campo - dandogli una impropria, a mio avviso, copertura costituzionale con la regola di garanzia per l'imputato circa la ragionevole durata del suo processo - si risolva in una argomentazione fallace.

Trovo invece suggestiva l'argomentazione a sostegno dello scopo del processo, che può così essere sintetizzata: dal momento che, piaccia o no, il nostro sistema processuale è un accusatorio “misto” nel quale l'obiettivo del giudice è la ricerca della verità, obiettivo che il giudicante persegue anche disponendo le prove, sarebbe irragionevole sottrarre al “ricercatore della verità” il potere di sanzionare più duramente l'appellante, condannandolo ad una pena maggiore di quella comminatagli dal primo (e troppo mite) giudice.

Anche in questo caso, la tesi si riduce ad un assioma elevato a totem: “il processo cerca la verità” (?). Un'affermazione che contesto come ho già detto, poiché ritengo, al contrario, che il processo serva solo a scegliere quale tra le due tesi in “singolar tenzone” appaia più verosimile alla ricostruzione di un accadimento del passato. Una ricostruzione nella quale l'improprio (nel sistema accusatorio) potere di disporre la prova affidato all'arbitro dovrebbe essere utilizzato con parsimonia e con il solo fine di risolvere il (suo) dubbio nel giudizio. Tanto è vero che disposta la prova senza che il dubbio sia stato dipanato, all'arbitro soccorre la regola di garanzia del favor per il cittadino accusato (espressione che preferisco a quella di reo, che costituisce un pregiudizio ideologico). Insomma: l'arma per dipanare il dubbio, cioè il potere officioso del giudice, è l'ultima concessione all'inquisitorietà del nostro sistema accusatorio. Ma essa è un potere che va visto in via di eccezione e, come tale, non può diventare la leva per eliminare una regola di garanzia qual è quella del divieto di riforma peggiorativa (e così, in effetti, funziona secondo la regola Dasgupta).

Del resto, storicamente, neppure il Legislatore fascista eliminò il divieto. Come a dire che finanche in un diritto penale illiberale - e il nostro lo è per molte ragioni perché da lì origina e perché negli anni è stato alimentato con le regole dell'automatismo sanzionatorio e con il continua aumento delle pene edittali – pose un argine alla forza punitiva dello Stato.

Non vale, infine, richiamare la soppressione dell'istituto dell'appello incidentale, facoltà che nel codice del 1930 era stata riconosciuta esclusivamente al pubblico ministero, sul rilievo che il rischio di una riforma peggiorativa costituisce un meccanismo “compensativo” al divieto della reformatio in pejus e, in corollario, un ampliamento della cognizione del giudice di secondo grado. Proprio le ragioni ideologiche che ne avevano determinato l’assetto, portarono alla declaratoria di illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della carta fondamentale, attesa l’evidente disparità di trattamento tra le parti. Ma fu il denunciato contrasto con il principio della obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) a giocare un ruolo determinante nella declaratoria di incostituzionalità. Ad avviso della Consulta, infatti, il potere di impugnazione era estrinsecazione dell’azione penale e costituiva pertanto “un atto dovuto, che si concreta nella richiesta al giudice superiore di emettere una diversa decisione”, sicché all’organo dell’accusa ne sarebbe precluso l’esercizio in via eventuale ed incidentale. Tuttavia, come si dirà da qui a poco, l’arresto del 1971 fu oggetto di un ripensamento da parte della stessa Corte Costituzionale in seguito all’entrata in vigore del nuovo codice. Infatti, con la sentenza n. 280/1995 la Consulta, in linea con l’aspirazione accusatoria del nuovo processo penale, negò la sussistenza di un nesso tra l’obbligatorietà dell’azione penale e il potere di impugnazione sia in virtù di una lettura “storica” della carta costituzionale (i cui lavori preparatori non segnalavano la connessione) sia in virtù del nuovo statuto delle impugnazioni [2].

Io credo, per dirla con Cordero, che “sotto l’effetto cosmetico, [l’appello incidentale] rimane[va] quel deterrente che era (meno truculento rispetto allo stile Rocco-Manzini) – sicché esso – ... appartiene al côté reazionario” [3]. E' dunque sacrosanta la sua eliminazione.


Non mi pare superfluo ricordare, sempre di Francesco Cordero [4]: <<Viene utile uno sguardo retrospettivo: l'appello era puro gravame, inteso a nuove decisioni sull'intera causa; poi muta configurazione, assumendone una simile alle “Anfechtungsklagen” miranti all'annullamento della sentenza affetta da anomalie; l'appellante le deduce nei motivi. Questa metamorfosi appare chiara dall'art 376 cod. del Regno d'Italia (1807), a proposito del “ricorso d'appello” ancora detto “gravame”: “se risguardi il giudizio del fatto l'appellante deve specificare ...fatto o... circostanza rapporto a cui pretende che la sentenza sia erronea”; quanto poi al diritto, “debb'esprimere o la forma che pretende essere stata violata od omessa, o la legge che crede essere stata o male applicata o trasgredita”. L'istituto rimane ibrido: mira a giudizi sul merito e la nuova decisione sostituisce l'appellata, sciogliendo l'alternativa conferma-riforma, ma occorrono dei motivi; i “punti” così individuati misurano l'effetto devolutivo; con due deroghe pro reo, l'organo ad quem giudica in tali limiti>>.

Già le recenti riforme hanno “limitato” il ricorso all'appello e, sebbene sia naufragato (ma solo per il momento, temo) il tentativo di renderlo assimilabile al ricorso per cassazione cioè ad un mezzo di impugnazione a critica vincolata, sarebbe forse il caso di attendere che vadano a regime le novità legislative sopravvenuteNon vorrei che si scoprisse che non è affatto vero il mantra che vorrebbe le Corti d'appello ingolfate (le statistiche dicono l'esatto contrario), come pure dimostra che in tutti i distretti la nuova regola di improcedibilità non incide negativamente. Fanno eccezione Roma e Napoli, che non a caso sono state “utilizzate” come “patologie” per ampliare il termine della nuova regola unitamente alla (falsa) cassa di risonanza alimentata con riferimento ai rischi per i processi di criminalità organizzata (falsa perché anche i bambini sanno che la celerità è garantita dalla scadenza dei termini delle misure cautelari che sempre accompagnano quei processi).

L'ultima, credo risolutiva, considerazione sulla impossibilità di eliminare il divieto di riforma peggiorativa.

Qualunque processo vive sulla domanda; il giudice conosce ciò che gli è stato chiesto e sul domandato può e deve pronunciare, pena l'ultra petita.
Analogamente il giudice di appello conosce sulla domanda dell'appellante: come potrebbe sanzionare in senso peggiorativo senza la domanda dell’accusa? Che poi la domanda dell'accusa può essere introdotta: il ricorso per cassazione del pubblico ministero e la sua conversione in appello!
Anche per quest’ultima ragione, auspico che si desista dal chiedere ancora l’abolizione del divieto di riforma peggiorativa.


[1] G. Spangher, Il Processo tra soave inquisizione processuale e mitezza sanzionatoria - Il Dubbio
[2] A. Lazzoni e M. Siragusa, Le Trappole dell'appello Penale, Milano 2014
[3] F. Cordero, Procedura Penale, 3 ed., 968.
[4] F. Cordero, Procedura Penale, ed. 2012, p. 1059