La distinzione tra ‘‘de iure condito’’ e ‘‘de iure condendo’’ è una delle prime nozioni che si apprendono all’Università, ma – se mi si chiede di svestire per un giorno i panni (recte, la toga) di Giudice e indossare idealmente quelli del Legislatore – non posso non rappresentare le mie perplessità in ordine alla permanenza, nel nostro ordinamento giuridico, del ‘‘divieto di reformatio in peius’’.
Com’è noto, tale istituto di tradizione secolare[1] – il cui addentellato normativo risiede oggi nell’art. 597 co. 3 c.p.p. – preclude al Giudice dell’Appello, nelle ipotesi di impugnazione esperita dal solo imputato, di riformare in senso peggiorativo per quest’ultimo la sentenza di primo grado, impedendogli, in particolare, di irrogare una pena più grave per specie e/o quantità, applicare una nuova o più grave misura di sicurezza, revocare i benefici di legge concessi dal Giudice di prime cure e persino prosciogliere l’imputato con una formula meno favorevole di quella enunciata nella sentenza oggetto di gravame.
Peraltro, come ha avuto modo di
precisare la giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass.
Pen., SS.U.U., n. 40919/2005 e Cass. Pen., Sez. V, n. 14353/2019), tale
principio si riferisce a tutti gli elementi di cui si compone il trattamento
sanzionatorio: pertanto, nelle ipotesi di reati circostanziati e di reati concorrenti ex art. 81 c.p.,
il Giudice di secondo grado non può modificare in senso deteriore né la pena
base del reato né le riduzioni per le circostanze attenuanti o gli aumenti per
le aggravanti o per il reato concorrente, neppure nel caso in cui pervenga
comunque ad una riduzione della pena complessivamente inflitta, stante il
persistente interesse dell’imputato ad una maggiore riduzione o a un minore
aumento per i singoli elementi circostanziali del reato o per il ‘‘reato
satellite’’. Ne consegue che, in caso di accoglimento dell’appello proposto
dall’imputato, la pena irrogata con la sentenza impugnata dev’essere
necessariamente ridotta, come peraltro enunciato expressis verbis dal
comma 4 della disposizione in commento[2],
a tenore del quale, anche nell’ipotesi di impugnazione da parte del Pubblico
Ministero («in
ogni caso»), «se è accolto l'appello
dell'imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati
per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente
diminuita».
Al Giudice del gravame, per contro, è
concessa la facoltà di riqualificare il fatto di reato in termini di maggiore
gravità (in ossequio al principio iura novit curia), purché non venga
comunque superata la competenza del giudice di primo grado. Inoltre – secondo
una condivisa e condivisibile opinione dottrinale – è concessa al Giudice
dell’Appello la possibilità di ‘‘aggravare’’ l’apparato motivazionale della
sentenza impugnata, dovendosi ritenere che il divieto di reformatio in peius
incida sul solo dispositivo e, nello specifico, sulle statuizioni penali in
esso contenute.
Prima di esaminare nel dettaglio le
ragioni a sostegno dell’abolizione di tale istituto, giova ripercorrere
brevemente il travagliato iter parlamentare che ha condotto alla sua
introduzione nel vigente codice di rito: è infatti sufficiente una veloce
lettura dei lavori preparatori al codice di procedura penale – il cui progetto
preliminare non contemplava il divieto di reformatio in peius[3]
– per accorgersi che la sua previsione è stato il frutto di un ‘‘compromesso
politico’’, per effetto del quale è stato introdotto nel nostro ordinamento,
quale vero e proprio argine delle «temerarietà
degli imputati»,
l’istituto dell’appello incidentale del Pubblico Ministero[4],
recentemente abolito dal D.lgs. n. 11/2018, che ha radicalmente riscritto
l’art. 595 c.p.p.
Tutto ciò premesso, l’istituto de quo
mal si concilia – a parere dello scrivente – con la matrice
‘‘tendenzialmente’’ accusatoria del processo penale disegnato dal ‘‘nuovo’’
codice di rito.
A tal proposito, appare opportuno
rilevare che, in un ipotetico sistema processuale accusatorio ‘‘puro’’, il
processo è governato dal principio dispositivo[5],
sicché sono rimessi all’iniziativa di parte la sua instaurazione, il suo
svolgimento e l’acquisizione dei mezzi di prova: ne consegue che il Giudice,
assolvendo esclusivamente alla funzione di ‘‘garante delle regole del gioco’’,
decide la controversia sulla base dei fatti “allegati” e “provati” dalle parti
(«iudex iuxta alligata et probata
iudicare debet»), giacché «quod non est in actis non est in mundo».
Per contro, in un sistema processuale
come il nostro, ‘‘solo’’ tendenzialmente accusatorio, il Giudice costituisce un
soggetto istituzionalizzato, distinto e distante (rectius, equidistante)
dalle parti[6],
preposto a decidere una controversia sulla base delle sole prove «legittimamente acquisite[7]», su iniziativa di parte o
d’ufficio, e sottoposte al vaglio della dialettica processuale.
Infatti,
nella prospettiva del processo come «actus trium personarum»[8], il Giudice è un garante
dell’ordinamento giuridico (da intendersi come ‘‘ordine’’ delle relazioni
intersoggettive[9]) e, di conseguenza, arbitro dei
rapporti umani (giacché ne garantisce l’‘‘ordinato’’ svolgimento), il cui
compito precipuo è quello di giudicare di un ‘‘fatto’’, ossia un’azione passata[10], al quale non ha
fisiologicamente assistito[11]: per potere assolvere al proprio munus,
dunque, il Decidente deve ricostruire la vicenda particolare e concreta
sottoposta al suo vaglio alla luce delle prospettazioni delle parti, ma nella
misura più aderente possibile alla “verità storica”, cioè al modo in cui tali fatti si sono svolti nella realtà.
E
invero, il nostro sistema processuale ‘‘si nutre’’ della contrapposizione
dialettica delle parti, sul presupposto che «la confrontazione è la pietra di
paragone della verità»[12], il cui accertamento costituisce la
precondizione di una sentenza ‘‘giusta’’.
Basti rammentare, in tal senso, che è obbligo
del testimone «rispondere secondo verità»[13] ed è compito dell’interprete e del
perito «far conoscere la verità» all’Autorità Giudiziaria[14]. Ma soprattutto, occorre ricordare che
il Giudice può «indicare alle parti temi di prova
nuovi o più ampi»[15],
nonché, ove
risulti «assolutamente
necessario ai fini del decidere»,
disporre ex officio «l’assunzione
di nuovi mezzi di prova»
ovvero «l’assunzione
di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento»
con l’accordo delle
parti[16].
Appare tuttavia opportuno precisare che
la ‘‘verità’’ cui si fa riferimento in questa sede è quella ‘‘processuale’’,
che scaturisce dal giudizio e si cristallizza nella res iudicata, non
già quella – di inquisitoria memoria – ‘‘oggettiva’’ o ‘‘immutabile’’,
preesistente al iudicium ed esterna ad esso[17]:
in altre parole, la “verità processuale” non è che una «verità probabile», sebbene «autoritativamente
certificata»[18].
Ciò posto, non si comprende per quale
ragione, in un sistema preordinato all’accertamento della verità (processuale)
attraverso il metodo del contraddittorio[19],
debba negarsi al Giudice del gravame, ove investito della ‘‘questione’’ dal
solo imputato, il potere di riformare una pronuncia di primo grado reputata
erronea.
In termini più esplicativi, se la ratio
della previsione di un secondo grado di giudizio è quella di consentire un
‘‘controllo’’ endoprocessuale sull’operato del Giudice di prime cure, ancorché
limitatamente ai ‘‘capi’’ e ‘‘punti’’ della sentenza costituenti oggetto di
impugnazione (in ossequio alla natura devolutiva del giudizio di appello,
compendiata nel brocardo «tantum
devolutum quantum appellatum»),
non vi è motivo di limitarne il sindacato in senso esclusivamente favorevole al
reo, atteso che, per effetto di tale istituto, nell’ipotesi di appello da parte
del solo imputato si determina un incomprensibile squilibrio tra i poteri
cognitivi del Giudice di secondo grado e i suoi poteri decisionali: detto
altrimenti, rispetto al punto della sentenza devoluto alla sua cognizione
dall’imputato appellante, il Giudice dell’Appello non gode di un pieno potere
decisorio, poiché non può aggravare il complessivo trattamento sanzionatorio
irrogato dal precedente Decidente.
Peraltro, la (fisiologica) fallibilità
del Giudice inteso come persona fisica non può neppure essere assunta come
argomento a favore del divieto di reformatio in peius, per due ordini di
ragioni: in primo luogo, perché, muovendo da tale presupposto, l’ordinamento
processuale ha (correttamente) predisposto dei meccanismi di controllo delle
decisioni giudiziarie, quali l’obbligo di motivazione e – per quel che qui
rileva – la previsione di un secondo grado di giudizio; inoltre, perché –
accantonate le elucubrazioni mentali ed esaminati i ‘‘numeri’’ delle
impugnazioni e dei loro esiti – i giudici di primo grado commettono meno errori
di quelli che, prima facie, si potrebbero immaginare.
E invero, analizzando nel dettaglio i
dati statistici illustrati nella ‘‘Relazione sull’amministrazione della
giustizia nell’anno 2021’’ redatta dalla Corte di Appello di Palermo lo scorso
22 gennaio[20],
appare evidente che nel precedente anno giudiziario, all’interno del distretto
giudiziario palermitano, soltanto il 36% delle sentenze impugnate è stato
riformato, in toto o in parte, e che – a fronte di una quasi
totalità di impugnazioni avverso sentenze di condanne – soltanto il 16% dei
procedimenti pendenti dinanzi la Corte di Appello si è concluso con
un’assoluzione, a dimostrazione della ridotta percentuale di errore in cui
incorrono i Giudici dei Tribunali del Distretto (e non solo)[21].
Peraltro, in un’ottica di ‘‘fair play
processuale’’ e ‘‘parità delle armi’’ (‘‘equality of arms’’), sarebbe
corretto – a parere dello scrivente – far gravare sull’imputato unico appellante
il ‘‘rischio’’ di una pronuncia di appello più sfavorevole.
Con
riferimento a quest’ultimo profilo, appare infatti inevitabile, in un sistema
nel quale l’imputato non ha ‘‘nulla da perdere’’ e ‘‘tutto da guadagnare’’, che
un buon numero di impugnazioni siano pretestuose o, quantomeno, dilatorie.
Oppure semplicemente affidate all’alea: come se prevedere un secondo
grado di giudizio fosse eguale a concedere all’imputato un secondo tentativo
nel gioco dei dadi, ma con la garanzia che il nuovo lancio darà un esito
migliore di quello precedente, o comunque non peggiore.
Tali perplessità, del resto, erano già
state esternate, in illo tempore, dall’allora Guardasigilli Rocco,
secondo il quale «conviene
togliere all'imputato la facoltà di appellare senza alcun rischio, anzi col
vantaggio, nella peggiore delle ipotesi, di differire il momento
dell'esecuzione della condanna. Così facendo si ridurrà il numero degli appelli
a quei soli casi che veramente possono apparire meritevoli di riesame, perché
l'imputato, conscio della possibilità della reformatio in peius, si
guarderà bene dal proporre l'impugnazione, quando non abbia la coscienza di
meritare l'assoluzione o quanto meno una diminuzione di pena. Se egli reclama
un nuovo giudizio, deve assoggettarvisi completamente; se non vuole correre
alcun rischio si accontenti della pena»[22].
Orbene, si potrebbe obiettare a quanto
testé rappresentato che la previsione
di più gradi di giudizio risponde esclusivamente alla necessità di accordare un
‘‘rimedio’’ all’imputato che ritenga di aver subito un ingiusto nocumento dalla
pronuncia di primo grado, di guisa che non vi sarebbe motivo di far gravare sul
medesimo il rischio di un trattamento sanzionatorio deteriore.
Sennonché
tali conclusioni risultano smentite dalla finalità ultima del processo penale
delineato dal Legislatore, ossia – come anzidetto – l’accertamento della verità
processuale.
Peraltro,
depone nella medesima direzione la coesistenza, nel giudizio penale, di
interessi diversi e ulteriori rispetto a quello di cui è portatore l’imputato:
e invero, oltre al suo sacro e inviolabile diritto alla libertà individuale, scolpito a chiare
lettere nell’articolo 13 della Carta costituzionale, vengono in rilievo e
necessitano di un accurato ‘‘bilanciamento’’ col primo gli interessi della
persona offesa dal reato, nonché quello dello Stato ad una pronta ed efficace
repressione della condotta penalmente rilevante (tanto più se idonea a generare
un allarme sociale e a minare la pax sociale).
Come
su accennato, inoltre, la quasi totalità delle sentenze appellate è costituita
da pronunce di condanna: per gli imputati, infatti, non vi è alcun
‘‘disincentivo’’ a proporre impugnazione (soprattutto se beneficiano del
patrocinio a Spese dello Stato) ed è loro precipuo interesse devolvere alla
cognizione del Giudice di Appello l’intero thema decidendum, appellando
tutti i punti e tutti i capi della sentenza.
L’effetto
– com’è evidente – è quello di ‘‘replicare’’ il giudizio di primo grado,
dilatando inutilmente i tempi di definizione del giudizio, con tutto ciò che ne
consegue (soprattutto, in termini di costi per lo Stato).
Di
riflesso, questo straordinario strumento di civiltà giuridica che è il giudizio
di Appello finisce spesso col diventare un espedente dilatorio che mal si
concilia con le esigenze di efficienza del sistema e, nello specifico, con
quell’esigenza di «ragionevole durata» dei processi invocata a gran voce –com’è
giusto che sia – dagli operatori del diritto e, soprattutto, dai cittadini.
Ovviamente,
l’anelata efficienza del sistema non deve risolversi a detrimento dell’imputato:
a questo punto, però, conviene chiedersi quale sarebbe la «raison
d’être» del divieto di reformatio
in peius.
A
tal riguardo, non meritano accoglimento – a parere dello scrivente – le tesi
secondo cui l’istituto de quo trova il proprio fondamento logico-giuridico
nel principio del ‘‘favor rei’’ o nel diritto di difesa dell’imputato[23].
Con
riguardo alla prima, giova innanzitutto rilevare che il principio del favor
rei costituisce, per un verso, un criterio ermeneutico alla stregua del
quale, a fronte di plurime interpretazioni possibili, deve privilegiarsi quella
più favorevole all’imputato e, per altro verso, il principio ispiratore di
alcuni istituti processuali la cui ratio è quella di porre rimedio ad
‘‘errori giudiziari’’ o a ‘‘condanne ingiuste’’ (si pensi, a titolo
esemplificativo, al giudizio di revisione o alla rescissione del giudicato):
ciò posto, non si capisce in che misura il favor rei – inteso come
criterio interpretativo oppure come ‘‘principio-guida’’ dell’ordinamento
processuale – possa giustificare il divieto di reformatio in peius,
precludendo al Giudice dell’Appello di modificare, in senso deteriore per
l’imputato, una sentenza ritenuta ingiusta (ancorché in bonam partem).
E
allora più che di favor rei sarebbe corretto parlare di privilegium
rei: un privilegio tanto risalente nel tempo quanto ingiustificato e
ingiustificabile.
Quanto
invece alla tesi che ne ravvisa il fondamento nell’inalienabile diritto di
difesa dell’imputato, di cui all’articolo 24 della Carta fondamentale, non è
dato comprendere in che modo l’abolizione di tale divieto possa incidere su
questo diritto costituzionalmente garantito.
E
invero, quand’anche lo si eliminasse, l’imputato che ritenga di essere stato
ingiustamente condannato o di avere subito un trattamento sanzionatorio iniquo
potrebbe comunque impugnare la pronuncia a lui sfavorevole: tuttavia, dovrebbe
ponderare con maggiore attenzione la propria decisione, non godendo più di
alcuna ‘‘immunità’’ contro una modifica in senso peggiorativo della sentenza di
primo grado.
Si
tratta in altri termini di ‘‘responsabilizzare’’ l’imputato, senza conculcarne,
per contro, il diritto di ‘‘difendersi impugnando’’: d’altronde, questo suo
‘‘diritto’’ non può trasmodare in un ‘‘privilegio’’ di cui (anche) lo scrivente
fatica a ravvisare la ratio.
Infatti,
la circostanza che il Pubblico Ministero non abbia manifestato interesse a
proporre un’impugnazione non consente, per ciò solo, di giustificare
un’evidente limitazione della funzione giurisdizionale, preordinata
all’accertamento della verità (processuale).
A
tal proposito, peraltro, occorre rammentare che la legittimazione del Pubblico
Ministero a proporre appello è limitata a poche ipotesi tassativamente previste
dal codice di rito e che – come sopra anticipato – è stato recentemente espunto
dal nostro ordinamento l’istituto dell’appello incidentale del Pubblico
Ministero, congegnato ab origine come naturale deterrente delle
impugnazioni pretestuose o dilatorie.
Ma
vi è di più: gli attuali carichi di lavoro di molte Procure della Repubblica
spesso non consentono agli organi requirenti neppure di valutare funditus l’opportunità
di proporre appello avverso le sentenze di primo grado (quantomeno avuto
riguardo alle pronunce monocratiche aventi ad oggetto fattispecie di reato
bagatellari o non particolarmente gravi).
Che
non sia forse giunta l’ora, alla luce delle suesposte considerazioni, di calare
il sipario su questo tralaticio istituto giuridico?
[1]
Se ne rinviene traccia, oltre che nei codici di procedura penale del 1865 (art.
419 co. 3) e del 1913 (art. 480 co. 2), anche nelle codificazioni pre-unitarie
(cfr., sul punto, G. SPANGHER, Reformatio in Peius (divieto di) (dir. proc.
pen.), in Enc. Dir. XXXIX, 1988, pag. 273, nota n. 4).
[2]
Introdotto al fine precipuo di porre fine a quell’orientamento
giurisprudenziale alla stregua del quale il divieto in questione era riferibile
alla sola pena complessivamente inflitta.
[3]
«Quando il rapporto processuale venga mantenuto in vita mediante un atto del
solo imputato, il giudice assume e mantiene il potere-dovere di conoscere e di
decidere, senza che alcuno possa limitarglielo o privarnelo, fuori dei casi
eccezionalmente consentiti dalla legge»: cfr. ROCCO A., Progetto preliminare di un nuovo
codice di procedura penale con la relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco,
in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, 1929,
vol. VIII, p. 103.
[4]
«In questo modo le temerarietà degli imputati rimangono frenate dalla possibilità
dell’appello incidentale del pubblico ministero e si conserva il divieto della
riforma in peggio in quei casi in cui, essendo stato proposto l’appello dal
solo imputato, il pubblico ministero non abbia ritenuto che mettesse conto
d'appellare a sua volta»: cfr. Ibidem, p. 74.
[5]
Magistralmente compendiato nei brocardi «ne
procedat iudex ex officio» (o «nemo
iudex sine auctore») e «iudex non potest de facto supplere».
[6]
‘‘Parti’’ rispetto all’ordinamento tout court e, dunque, espressione di
un punto di vista parziale: cfr. TRUJILLO I., Imparzialità, in D'Agostino F. – Viola F. (a cura di), Recta
Ratio.Testi e Studi di Filosofia del Diritto, Giappichelli, Torino, 2003, p.
52, secondo cui la parola ‘‘parziale’’ deriva dall’etimo sanscrito par o prnati, il cui significato è ‘‘ciò che si dà o si assegna’’ a
completamento dell’intero.
[7]
A mente dell’art. 526 co. 1 c.p.p., infatti, «il giudice non può utilizzare ai
fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel
dibattimento». Inoltre, in base all’art. 111 della Costituzione, «Il processo penale è
regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. (…) La
legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in
contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di
natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita».
[8]
Cfr. BULGARO, De iudiciis, § 8, secondo cui «processus est actus trium personarum, actoris,
rei, iudicis».
[9]
Nella prospettiva dell’insigne giurista palermitano Santi Romano, le relazioni
umane sono l’elemento costitutivo dell’esperienza giuridica: «ubi homo, ibi
societas; ubi societas, ibi ius; ergo, ubi homo, ibi ius».
[10] Non a
caso, il sintagma ‘‘fatto’’ deriva dal latino ‘‘factum’’, participio
passato di facere («fare»).
[11]
Diversamente, infatti, non sarebbe un soggetto ‘‘terzo’’, bensì un testimone.
[12]
Cfr. PAGANO F. M., Opere Filosofico-Politiche ed estetiche, Sapienza,
Università di Roma, 1837, p. 472, nonché MACIOCE F., Il principio di lealtà, nella prassi processuale e nei rapporti fra
poteri, Relazione al corso di formazione per magistrati della Corte dei
Conti, Roma, 2010, pp. 3 e 4, secondo cui «il processo (…) come luogo
istituzionale del confronto tra le pretese soggettive, e dunque del
riconoscimento della parità dell’altro, non può che veicolarsi attraverso una
comunicazione su un piano di parità (…) È una modalità di risoluzione delle
controversie che si fonda sull’istituzionalizzazione di un'interazione
dialogica».
[13] Cfr. art. 198 co. 1 c.p.p.
[14]
Cfr., rispettivamente, artt. 146 co. 2 e 226 co. 1 c.p.p.
[15]
Così recita l’art. 506 c.p.p., rubricato ‘‘Poteri del presidente in ordine
all’esame dei testimoni e delle parti private’’.
[16]
Ai sensi dell’art. 507 c.p.p., «1.
Terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta
assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l’assunzione di nuovi
mezzi di prova. 1-bis. Il giudice può disporre a norma del comma 1 anche
l’assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti al fascicolo per il
dibattimento a norma degli articoli 431, comma 2, e 493, comma 3». Una norma di analogo
tenore è dettata, in materia di giudizio abbreviato, dall’art. 441 co. 5
c.p.p.: «Quando il
giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche
d'ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione. Resta salva in tale
caso l’applicabilità dell’articolo 423».
[17]
Il ‘‘Giudice inquisitore’’, preposto ad accertare la Verità (in senso
‘‘assoluto’’), gode del potere di attivarsi ex officio per la
repressione di un fatto di reato e per l’acquisizione delle relative prove: in
particolare, dispone di pieni poteri coercitivi e di una illimitata
discrezionalità in tema di ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della
prova.
Per una più puntuale ricostruzione dei due modelli
processuali, v. TONINI P., Manuale di
procedura penale, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 4-27 e AA.VV., Diritto processuale penale, Vol.1, cit.,
pp. 37-41.
[18]
Cfr. BANKOWSKI Z., citato in D. Canale, Il ragionamento giuridico, in Pino G. –
Schiavello A. – Villa V. (a cura di), Filosofia del diritto: introduzione
critica al pensiero giuridico e al diritto positivo, Giappichelli, Torino,
2013, p. 346.
[19]
Il termine ‘‘contraddittorio’’ deriva dal latino ‘‘contra dicere”
(«contraddire»), da intendersi come «dicere (aliquid) contra (aliquem)»,
ossia «dire (qualcosa) di fronte (a qualcuno)». Nella specie, «dicere
(aliquid) contra (iudicem)», contrastando le argomentazioni della
controparte e offrendo ragioni a sostegno delle proprie pretese: cfr. TRANCHINA
G., Il processo penale e le sue
caratteristiche, in Siracusano D. – Galati A. – Tranchina G. – Zappalà E.
(a cura di), Diritto processuale penale,
Vol.1, Giuffrè, Milano, 2011, p. 33.
Merita altresì di essere rilevato che, nella sua ‘‘versione
debole’’, il principio del contraddittorio coincide col “right to a hearing” di matrice anglosassone, ovverosia il diritto
di essere ascoltati prima di subire un provvedimento giudiziario potenzialmente
lesivo della propria sfera giuridica; inteso ‘‘in senso forte’’ (come nel caso
di specie), invece, il contraddittorio concerne il ‘‘metodo’’ di formazione
della prova, cui le parti contribuiscono in posizione fra loro paritetica (in
tal senso, un illustre Autore ha parlato di contraddittorio «per la prova», per distinguerlo dal
contraddittorio «sulla prova», che attiene alla fase processuale in cui
le parti medesime avanzano le proprie le richieste istruttorie: cfr.
SIRACUSANO D., citato in Tonini P., Manuale
di procedurara penale, cit., p. 242).
[21]
Per completezza espositiva, merita di essere segnalato che l’87% delle pronunce
emesse dalla Corte di Appello di Palermo sono state confermate in Cassazione (a
livello nazionale, invece, è stato registrato un indice di stabilità delle
pronunce di secondo grado pari all’82%).
[22]
Cfr. ROCCO A., Progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale
con la relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco, in Lavori preparatori
del codice penale e del codice di procedura penale, 1929, vol. VIII, p. 103.
[23]
Si rinvia, a tal riguardo, a PAULESU P.P., ‘‘Il divieto di reformatio in
peius: note a margine di una garanzia controversa’’, in Archivio Penale
2020 n. 1, par. 2, pp. 4 e ss.