Gentile Professoressa,
1. i
codici Rocco sono sopravvissuti alla caduta del regime che li aveva
adottati, ma la classe politica che ha scritto la Costituzione non li avvertì
estranei alla sua cultura e, se sì, come mai resistettero al mutamento politico
culturale ?
Il ‘discorso’ giuridico culturale
che ha consentito la conservazione dei codici del Trenta si costruisce
all’indomani della caduta del regime, nel periodo cosiddetto della Giustizia di
transizione. Nel 1944 il governo di Ivanoe Bonomi emana il decreto che abolisce
la pena di morte (10.8.44, n. 224): nella relazione che lo accompagna si afferma
come l’Italia debba riprendere la strada intrapresa con i codici del 1889 (Zanardelli)
e del 1913 (Finocchiaro Aprile). Parallelamente alcuni cultori della materia,
in particolare Giovanni Leone, già dal 1943 prendono la penna per affermare con
forza “la concorde, costante e decisa resistenza nel ventennio fascista dei
giuristi italiani, a differenza dei tedeschi, ai tentativi di asservimento
della scienza giuridica e della legge ai principi politici”. Secondo questa
tesi i codici promulgati durante il ventennio non sono incompatibili con un
regime di libertà e democrazia.
Le due commissioni incaricate dal
governo di avviare il lavoro di riforma giungono nel 1945 a due risultati
difformi: quella che deve revisionare il codice sostanziale si esprime per il
mantenimento del codice del Trenta, al contrario quella sul codice di rito vota
per il ritorno al codice del 1913, che prevedeva alcune sostanziali garanzie
per l’indagato già in fase di indagini.
La difformità nelle soluzioni
inceppa il processo decisionale: inoltre l’Italia non è ancora liberata e non ha
compiuto alcune scelte istituzionali fondamentali. I codici vigenti non possono
venir sostituiti ma vanno epurati, disinfestati dalle “più ripugnanti
sconcezze”, esattamente come si liberano le piante dai parassiti. Va varata una
legislazione speciale che corregga i codici in attesa che la normale vita
istituzionale riprenda e compia scelte definitive.
Queste circostanze favoriscono la
nascita di un dibattito fra i giuristi che vede protagonisti tre allievi di
maestri della scuola tecnico-giuridica: Remo Pannain e Tullio Delogu entrambi
allievi di Arturo Rocco (fratello del Guardasigilli Alfredo, presidente della
commissione che aveva steso il codice penale e fondatore della scuola
tecnico-giuridica) e Giovanni Leone.
A partire dal 1945, soprattutto
dalle pagine della rivista Archivio Penale da lui stesso fondata, Remo Pannain sottolinea
come la pregiudiziale ‘politica’ contraria al mantenimento dei codici rischi di
recare danni alla certezza del diritto e allo stesso principio di legalità: “Difendere
la dommatica significa difendere il diritto. È una difesa non soltanto della
nostra ragion d’essere di giuristi, ma del diritto stesso, che se privato del
metodo tecnico nella elaborazione, viene abbandonato ai filosofi, ai sociologi,
agli psicologi, magari agli orecchianti e agli improvvisatori e finisce per
essere condannato a inquinarsi e insterilirsi”, così scrive Pannain nella sua
introduzione programmatica stesa per il primo numero di Archivio Penale. Sono
concetti che Pannain ha già difeso sottolineando la missione della scienza
giuridica, che deve essere costruttrice, ordinante, custode di una autonoma
razionalità.
Tullio Delogu, dal canto suo,
riconosce l’esistenza di un legame fra regime politico e sistema penale ma
sottolinea che non è inconsueto che le linee di politica criminale presenti in
un codice possano considerarsi indipendenti dall’indirizzo politico di un
ordinamento giuridico.
Giovanni Leone evidenzia, sempre
dalle pagine del primo numero di Archivio Penale, che i principi fondanti che
sono posti alla base del codice (rapporto Stato/cittadino, irretroattività
della legge penale, tassatività della legge penale, concezione del reato come
violazione di un bene giuridico) dimostrano che “i penalisti italiani, nel
ventennio fascista, hanno resistito, con lo spirito della più coraggiosa
indipendenza a qualsiasi tentativo di infiltrazione del dato politico nel
tradizionale sistema penale il quale è rimasto salvo da ogni contaminazione
politica”.
Si può parlare, per il codice
sostanziale, di una ‘fascistizzazione retorica’: sarà sufficiente disinfestare
i codici, eliminando con lo spray della legislazione speciale i parassiti più
fastidiosi: le infiltrazioni politiche riguardano infatti più che altro
questioni di dettaglio o singoli reati.
Simile ‘discorso’ viene costruito
per il codice di rito: di esso deve essere enucleata quella parte che
rappresenta un’autentica limitazione della personalità umana. Sempre Pannain
individua la criticità rappresentata dall’assenza di termini certi per la
contestazione delle accuse, che deve essere di massimo 48 ore e imputa molti
problemi alla legge di P.S. che va sostituita. Il codice penale è il ‘codice
dei birbanti’ e va applicato così da difendere la società: “Lo stato più
liberale può adottare le misure più severe, qualora se ne ravvisi la necessità.
Umanità sì, debolezza no!”
In pratica gli effetti più
deplorati del codice di rito si sono verificati non per il contenuto delle
disposizioni, quanto per le condizioni sociali e politiche nelle quali si
svolgeva l’azione giudiziaria (Giovanni Berneri, sostituto procuratore generale
presso la Cassazione, sempre nel primo numero di Archivio Penale). Più del
codice è stato lo ‘spirito del tempo’ a determinare le linee di politica
criminale e giudiziaria: ciò che è necessaria è la democratizzazione
applicativa delle disposizioni legislative.
Vanno restituite alla
magistratura indipendenza, prestigio, autorità funzionali alle restaurate concezioni
di libertà e legalità: i due codici vanno riformati insieme. E la riforma del
codice penale potrà aversi solo dopo che si siano scelte la forma e l’indirizzo
delle nuove istituzioni democratiche.
La lunga durata del dispositivo penale
varato dal fascismo nel periodo repubblicano viene ammantata come questione di
metodo che nasconde, però, il nodo politico della responsabilità. La forza
della scienza e il prestigio tecnico-giuridico dei codici giocheranno una forte
influenza sulla cultura giuridica italiana per molto tempo.
Lo sbilanciamento istruttorio del
codice di procedura corrispondeva all’inconscio inquisitorio che attraversava
la politica penale del regime fascista ma più in profondità recuperava una
cultura autoritaria con cui si stentava a fare i conti fin dall’Illuminismo. La
scelta è stata determinata dalle condizioni internazionali e contribuì a porre
argini all’attuazione costituzionale.
Bibliografia consigliata: L.
Lacchè, “Sistemare il terreno e sgombrare le macerie”, in L’inconscio
inquisitorio, a cura di L. Garlati, Giuffrè 2010.
Quali ragioni storico
culturali condussero invece, nel 1989, alla promulgazione del codice di rito,
c.d. Vassalli ? In fondo i giuristi, pratici o accademici che fossero, non erano
cresciuti a “pane e inquisitorio”?
La domanda è di enorme
complessità e su di essa storiografia giuridica (Floriana Colao, “Giustizia
e politica: il processo penale nell’Italia repubblicana”) e specialisti del
penale hanno scritto fiumi di inchiostro. Io cercherò di mettere alcuni punti
fermi di orientamento.
In primo luogo va considerato che
la pressione dei principi costituzionali a garanzia della libertà individuale,
del diritto di difesa e della presunzione di innocenza diventa durante gli anni
Sessanta molto più forte e organizzata grazie soprattutto ad una nuova
generazione di avvocati, ma anche di giudici, cresciuti dopo la caduta del
regime. L’avvocatura diviene sempre più cosciente dell’assoluta necessità di un
cambiamento: il convegno del 1961 ne è la prova. Anche la magistratura subisce
una mutazione: in un drammatico convegno del 1965 l’Associazione dei Magistrati
si spacca, a causa soprattutto di un grande numero di giovani magistrati che
ritiene indispensabile l’attuazione dei principi costituzionali non solo nel
diritto penale ma anche nel diritto di famiglia e del lavoro. Le forti
resistenze messe in atto dalla Cassazione fino a quel momento, in nome del
principio di legalità e della necessità che le norme costituzionali venissero
positivizzate dalla dinamica parlamentare prima di venir applicate, cominciano
a cedere. Anche la Corte Costituzionale inizia a produrre delle sentenze più
libere sotto il profilo interpretativo: una per tutte, la sentenza del 1970 con
quale dichiara incostituzionale la norma del cpp che ‘non’ prevede la presenza
del difensore durante l’interrogatorio dell’indagato.
Le convulsioni degli anni
Settanta e Ottanta e la legislazione dell’emergenza da un lato bloccano le
riforme ma dall’altro dimostrano l’urgenza di una solida legislazione che
tuteli le libertà individuali: nel 1987 una precisa legge delega incarica il
governo di predisporre un testo finale di codice da proporre all’approvazione
del Parlamento. Uno dei valori del codice del 1989 è proprio il rispetto della
dinamica democratica per la sua approvazione.
Le criticità del codice vengono
individuate dai suoi detrattori in particolare nelle indagini difensive, che
restringerebbero le possibilità di difesa a chi abbia mezzi per permettersele,
e nei riti alternativi che, previsti a scopo deflattivo così da far arrivare al
dibattimento solo un numero relativamente contenuto di processi, sono visti
come incompatibili con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Le dinamiche sociali e politiche
dei primi anni Novanta non sono estranee alle pronunce con le quali la Corte
Costituzionale attenua in modo drastico il principio dell’impermeabilità tra la
fase di indagine e quella dibattimentale. Inoltre l’inconscio inquisitorio dei
membri della magistratura inquirente formatasi negli anni di applicazione
emergenziale del codice del Trenta riesce a porre freni sostanziali al
funzionamento dello spirito ‘accusatorio’ del codice Pisapia: si pensi per
esempio al funzionamento del pool Mani Pulite nel quale tutte le richieste dei
PM finivano sul tavolo sempre del medesimo GIP.
Si sostiene spesso che il
processo accusatorio è morto: quali le cause del decesso ?
L’accusatorio non può morire: è
ben vivo e lotta insieme a noi per la Costituzione. Ne va fatta comprendere
l’importanza alla società e ai giovani futuri giuristi che si affacciano agli
studi universitari. La difesa della sicurezza della collettività realizzata
attraverso la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti, e non contro di
essi attraverso provvedimenti emergenziali, è un ‘discorso’ che va fatto
circolare fra coloro che si stanno formando come giuristi ma soprattutto a
livello sociale, come ha spiegato bene il professor Giostra e ha ribadito il
vostro Presidente, Avv. Petrelli.
Va tenuto presente che la
dinamica per cui viene creata la percezione di un’emergenza, che giustifica la
promulgazione di una legislazione eccezionale che viola i diritti, per
salvaguardare la sicurezza e il sistema costituzionale ‘ordinario’, è
un’esperienza storicamente ricorrente, non solo e non tanto nei regimi
dittatoriali, ma soprattutto in quelli liberali quando la democrazia è in
difficoltà: la storiografia giuridica parla in questi casi di ‘doppia legalità’,
cioè della creazione di uno spazio di legalità eccezionale per salvaguardare la
legalità ordinaria.
* Alessandra Bassani è professore associato di storia del
diritto medievale e moderno presso l’Università degli Studi di Milano e Insegna
nei corsi di laurea di Giurisprudenza, di Scienze giuridiche e di Storia.
I suoi campi di ricerca riguardano la storia del processo
penale e delle prove dal medioevo alla contemporaneità e ha curato vari volumi
interdisciplinari con colleghi del Dipartimento di Studi Storici.
Sta inoltre sviluppando una specifica ricerca sulla
giurisprudenza del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato.