30 luglio 2024

Modifica dell'imputazione senza avvisi all'imputato: se la sentenza non è nulla, va riformata - Corte d'appello di Palermo, sez. I, n. 2203/2024

 



Processato per il delitto previsto e punito dall'art. 386 c.p., l'imputato è condannato in prime cure per il delitto previsto dall'art. 390 c.p..

Egli appella la sentenza dolendosi della sua nullità e, nel merito, chiedendone la riforma.

La Corte d'appello di Palermo, sezione prima penale, con la sentenza n. 2203/2024 al link, rigetta l'eccezione di nullità della sentenza, e riqualifica il fatto come originariamente contestato (art. 386 c.p.), censurando la diversa qualificazione del primo giudice (art. 390 c.p.). Quindi ribalta la sentenza di primo grado, che riforma integralmente, assolvendo l'imputato perché il fatto non costituisce reato.

Il caso è interessante per affrontare la questione della nullità della sentenza ex art. 522 c.p.p. per violazione del paragrafo 3 a) e b) dell'art. 6 della Convenzione EDU in combinato disposto con il paragrafo 1 dello stesso articolo, che prescrive un equo processo. 

Nel caso in esame, infatti, l'imputato è stato condannato per un reato, procurata inosservanza di pena, che non era indicato nel rinvio a giudizio e che non gli era stato comunque comunicato in alcuna fase del processo.

E ciò senza che mai venisse comunicata all'imputato, da parte del Tribunale, l'eventualità di così diversamente riqualificare il fatto e, quindi, impedendo all'imputato di conoscere natura e motivi dell'accusa e di preparare per tempo la sua difesa.

Non rileva, sul punto, la identità del fatto storico. E ciò per le considerazioni che seguono.

Le norme delle quali discutiamo prevedono:

  • Art.386 c.p.: “Chiunque procura o agevola l'evasione di una persona legalmente arrestata o detenuta per un reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.”;
  • Art. 390 c.p.: “Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato, aiuta taluno a sottrarsi all'esecuzione della pena è punito con la reclusione da tre mesi a cinque anni se si tratta di condannato per delitto, e con la multa da euro 51 a euro 1.032 se si tratta di condannato per contravvenzione”.

E' evidente già come le due fattispecie si riferiscano a presupposti diversi: nella prima l'agente procura o agevola l'evasione del soggetto che si trova già in stato di arresto o detenzione; nella seconda l'agente aiuta il soggetto condannato a sottrarsi all'esecuzione non ancora in atto.

E' noto come in applicazione delle norma della Convenzione Edu e dei criteri elencati nella sentenza CEDU Drassich c/ Italia L'imputato ha diritto ad essere informato della natura e dei motivi dell'accusa formulata a proprio carico, ivi compresa la qualificazione giuridica del fatto reato, e del diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la difesa.” (Corte europea diritti dell'uomo, Sez. II, 11/12/2007, n. 25575/04).

E' appena il caso di evidenziare che il noto caso Drassich, nel quale l'Italia ha riportato condanna innanzi alla Corte EDU, riguardava un magistrato che condannato per corruzione propria e ricorrente in cassazione, si era visto riqualificare il fatto dal giudice di legittimità nel delitto di corruzione in atti giudiziari. Identico, in quel caso, il fatto storico (danaro o utilità contro atto contrario ai doveri d'ufficio), la Corte EDU aveva statuito nel senso ricordato. Ciò a dimostrazione che la identità storica del fatto contestato non sana la nullità dedotta laddove il giudice non “attivi” i meccanismi di doverosa informazione.

Pertanto il primo giudice avrebbe dovuto comunicare la sua intenzione di riqualificare il fatto nella fattispecie contenuta all'art. 390 c.p. in tempo utile all'imputato per preparare la sua difesa e comunque prima della emanazione della sentenza, della quale deve quindi pronunciarsi la nullità.

Infatti con le sentenze nn. 348-349 del 2007 la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire che, qualora dovesse sorgere un contrasto tra normativa interna e la Convenzione, i giudici interni, saranno chiamati a ricorrere “all’interpretazione conforme”, principio chiaramente enunciato nella cd. “sentenza Pupino” (Corte di giustizia delle Comunità europee, grande sez, 16 Giugno 2005, Pupino M.) ove si legge che “applicando il diritto nazionale, il giudice del rinvio chiamato ad interpretare quest’ultimo è tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro al fine di conseguire il risultato perseguito da questa”, quindi tra le possibili interpretazioni che il giudice possa operare deve scegliere quella conforme al diritto sovranazionale; tale principio richiamato in queste sentenze ottiene applicazione anche nei confronti della C.e.d.u.; il giudice interno, infatti, deve tentare di risolvere il contrasto in via interpretativa adottando quella soluzione che dia alla norma interna un significato conforme e orientato ai principi e alla lettera della Convenzione.

Ne discende che un non corretto esercizio del potere da parte del giudice, che riqualifica il reato ex art. 521 c.p.p., comma 1, senza garantire le prerogative difensive e i principi regolatori del giusto processo, implica la iniquità del processo per violazione delle norme C.e.d.u..

29 luglio 2024

Pene sostitutive: avanti piano. E' un istituto nato male ed evoluto peggio.

Al 15.07.2024, secondo i dati ministeriali, le pene sostitutive riguardano 3.877 persone a fronte di 92.245 di soggetti in carico per misure (dati al 15.07.2024 al link). Si tratta di numeri modesti per una forma di esecuzione delle pene che avrebbe dovuto limitare il fenomeno dei liberi sospesi, definendo la questione della pena concretamente da eseguire già in fase cognitiva. Né vale invocare la "giovane età delle pene sostitutive", infatti le altre misure continuano a rivestire un maggior appeal: al riguardo basti pensare che da quando sono state introdotte le pene sostitutive l'intero "comparto" delle misure è cresciuto da 73.982 a 92.245 (dati al 31.12.2022)

Chi segue questo blog, sa che sosteniamo come la riforma delle pene (tipologia, prevedibilità, controllo sulla motivazione) sia centrale per il sistema penale italiano e per tale motivo ci pare che il tema delle pene sostitutive sia un'occasione di riforma mancata.

Anzitutto, per come scritto dal Professor Manna (post al link)si dovevano riformare le pene principali, lasciando a quelle detentive un ruolo meramente residuale, invece, non soltanto è rimasto intonso il sistema delle sanzioni principali, introducendo soltanto un meccanismo sostituivo delle stesse, ma di fatto questo è stato  rimesso alla buona volontà della difesa, soprattutto dopo la riforma dell'art. 545 bis 1 comma c.p.p., per come dimostrano anche recenti protocolli.

Inoltre, si è previsto un meccanismo in cui la difesa sollecita una sostituzione della pena detentiva, tendenzialmente prima ancora della condanna e talora rinunciando financo all'impugnazione di merito. Invero l'imputato rinuncia in ogni caso ad una rivalutazione delle pronunce di condanna alla pena sostituiva del lavoro di pubblica utilità o della pena pecuniaria (nostro post e sentenza Cassazione al link), senza neppure conoscere le ragioni della condanna, anzi di fatto prima ancora della condanna, per come si comprende leggendo il novellato art. 545 bis in controluce.

Peraltro in un'ottica difensiva non convince troppo la conciliabilità tra la tesi volta a negare la responsabilità del reo e un attivo lavoro di reperimento e produzione di documenti volti a convincere il giudice a sostituire la pena.

In sintesi: anche a volere mantenere l'attuale sistema delle pene, andrebbe differita la richiesta di pene sostitutive al momento processuale successivo al deposito delle motivazione, ciò per rendere il sistema maggiormente compatibile con le garanzie difensive e complessivamente più razionale.                 

27 luglio 2024

Metamorfosi di un sistema ed eterogeneità dei fini - di Mauro Anetrini (*)

 



Giovedì abbiamo dato notizia di un importante arresto della corte di legittimità (al link) con il quale è stata ritenuta “scriminata” la condotta - id est: non si può formulare <<un giudizio di colpevolezza- rimproverabilità soggettiva>> - conforme ad un costante orientamento giurisprudenziale, poi mutato. Il tema involge la prevedibilità della sanzione.


Pubblichiamo oggi le riflessioni del nostro Amico e Collega Mauro Anetrini, sulla decisione della corte regolatrice.

Sapevamo già che la prevedibilità delle decisioni, ormai da qualche anno,  rappresenta una sorta di onere cognitivo incombente su chiunque si interroghi circa le conseguenze delle proprie azioni. In parole semplici, la conoscenza dell’orientamento giurisprudenziale sull’argomento in discussione dovrebbe fornire, fin da subito, una risposta in ordine all’esito delle controversie giudiziarie, di qualunque genere.

L’esigenza di stabilità e coerenza del sistema, fonte di questa linea guida, è il prodotto della dilatazione di un principio radicato nella tradizione giuridica del nostro e di altri Paesi: poiché la legge non ammette ignoranza, la legge si presume conosciuta; e, poiché nella legge e’ scritto ciò che consegue alla sua trasgressione, tutti sanno (devono sapere) come sara’ decisa la loro causa. Semplice; chiaro; efficace.

Insufficiente, secondo alcuni.

Così insufficiente da indurre valorosi giuristi - di estrazione giudiziaria - ad estendere il principio oltre le maglie della legge, applicandolo anche alla giurisprudenza, soprattutto di legittimità (e, meglio ancora, delle Sezioni Unute), determinando la mutazione genetica del sistema, sempre più prossimo alle caratteristiche del common law, e della Corte di Cassazione, ormai adusa ad esprimersi come una Corte Suprema.

Insomma: la nomifilachia, relativamente forte, si è progressivamente affermata anche da noi.

Oggi, però, i nodi sono al pettine. Una recentissima decisione della Corte di Cassazione sostiene che non può essere punito chi ha agito adeguandosi all’orientamento giurisprudenziale, magari successivamente mutato.

In altri termini: non la legge, ma la interpretazione della legge è la fonte della prevedibilità delle decisioni.

Il precetto la cui violazione comporta applicazione di pena e’ la sintesi di legge e sedime delle decisioni.

Magari, in un futuro prossimo, torneremo a parlare della rilevanza dell’errore in diritto e del ruolo assunto dalle decisioni giudiziarie che manipolano la legge.

Oggi, mi limito ad una considerazione: poiché la giurisprudenza muta spesso, la prevedibilità delle decisioni rischia di essere ancorata all’incertezza e alla instabilità. Eterogeneità dei fini. 

Fa un po’ sorridere, pensandoci bene…


(*) Mauro Anetrini: avvocato in Torino


26 luglio 2024

Viola il contraddittorio irrogare l'aumento per la recidiva contestata per un titolo di reato non collegato a quello per il quale è irrogata la condanna (Cass. pen. sez. V n. 26124/2024)

 



La Corte di appello di Palermo, Sezione II penale, in parziale riforma della decisione di primo grado resa dal Tribunale di Trapani, e in accoglimento dell'appello del P.G., ha rideterminato la pena nei confronti dell'imputato in senso peggiorativo e nella misura di 5 anni e 10 mesi di reclusione ed euro 2.466 di multa, ritenendo validamente contestata la recidiva.

Ricorre per la cassazione della sentenza di appello l'imputato deducendo, tra le altre critiche, che il titolo gravato è affetto da nullità poiché stravolge la contestazione e la regola processuale del chiesto/pronunciato e, in assenza della contestazione della recidiva con riferimento ai capi per i quali è intervenuta la condanna, irroga il correlativo aumento di pena.

Deduce al riguardo che la sentenza (di appello) impugnata è nulla nella parte in cui, in accoglimento dell'appello del P.G., ha riformato in senso peggiorativo la decisione del primo giudice, riconoscendo l'aumento per la recidiva sul rilievo che l'aggravante “… si applica indipendentemente dalla sua collocazione nell'ambito di una contestazione per la quale l'imputato sia stato assolto … ”.

Come risulta evidente dagli atti (si veda la sentenza del Tribunale), la recidiva è stata contestata al ricorrente solo per la contestazione del capo C), dalla quale egli è stato assolto (assoluzione che non è stata appellata dalla pubblica accusa: giudicato interno).

Dalla medesima sentenza del Tribunale emerge chiaramente che la contestazione della recidiva è stata elevata per il solo capo C): “con recidiva ex art. 99 c.p. specifica e reiterata carico di ciascuno” (degli imputati ai quali era originariamente contestato il delitto del capo C).

Il Capo IV del Libro VII del codice di procedura disciplina dettagliatamente le regole sulla modifica dell'imputazione, sanzionandone la violazione con la nullità della sentenza (art. 522 c.p.p.).

Aver ritenuto che la recidiva contestata al capo C (capo per il quale vi è stata assoluzione) operi per tutti gli altri capi di imputazione contestati al ricorrente costituisce una palese violazione della regola del chiesto/pronunciato.

L'ultra petita in cui è incorsa la corte territoriale è dunque evidente.

Il punto non è, come erroneamente motiva la sentenza di appello impugnata, la natura soggettiva della recidiva, ma il rispetto della regola sulla contestazione dell'aggravante, mai effettuata dal pubblico ministero prima della chiusura del dibattimento di primo grado con riferimento ai delitti contestati ai capi A) e B). Né può dirsi che si tratti di mero (errato) “confezionamento” dell'imputazione, perché la contestazione della recidiva si riferisce chiaramente al solo CAPO C) come dimostra il riferimento ad entrambi gli imputati di quel delitto (poi assolti), mentre i capi A) e B) sono stati elevati a carico del solo ricorrente, senza che la recidiva fosse contestata.

In sentenza (al link) la Corte di Cassazione, sez. V penale, n. 26124/2024 osserva che: "E' legittima la contestazione della recidiva in calce a più imputazioni, a condizione che i reati siano strettamente collegati tra loro, in quanto commessi in concorso formale o anche in concorso materiale, se realizzati nella stessa data e riconducibili alla stessa indole." (Sez. 2, n. 38714 del 12/09/2023, P.G. c. Pozzi Gionas, Rv. 285030, che richiama, in motivazione Sez. 3, n. 51070 del 07/06/2017, Ndyiae, Rv. 271880; Sez. 6, n. 5075 del 9/01./2014, Crucitti, Rv. 258046). 
La recidiva, infatti, proprio in quanto opera come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, in ossequio al principio del contraddittorio, in maniera puntuale e tale da consentire una valutazione di incremento della pericolosità ancorata a specifiche e circostanziate vicende, non potendosi diffondere in maniera osmotica ed ultrattiva, ossia al di là dei limiti di una specifica contestazione dalla quale, nel caso in esame, l'imputato era stato mandato assolto.
Peraltro, anche la giurisprudenza che consente la contestazione in riferimento a più imputazioni, con contestazione in calce, ha specificato che tale modalità di contestazione deve intendersi riferita a ciascuna delle imputazioni, salvo che si tratti di reati di indole diversa ovvero commessi in date diverse (Sez. 2, n. 22966 del 09/03/2021, Virgilio, Rv. 281456; Sez. 2, n. 56688 del 13/12/2017, Rv.272146; Sez. 2, n. 3662 del 21/01/2016, Prisco, Rv. 265782).
Pertanto, la sentenza impugnata va annulla senza rinvio" [...].

25 luglio 2024

NON e' condannabile l'imputato in caso di affidamento ad una regola giurisprudenziale il cui mutamento non era prevedibile


La sesta sezione della Corte ha annullato senza rinvio una sentenza nella parte in cui condannava l'imputato per il delitto di cui all'art. 615 ter c.p., giacché l'accesso al sistema informatico era stato operato in un contesto giurisprudenziale in cui non era ancora ritenuto reato. Infatti la Corte ha così osservato: 

<<il fatto contestato all'imputato che, al momento in cui fu commesso, non costituiva reato in ragione della regola fissata dalle Sezioni unite "Casani" nel 2011- cinque anni prima- ha assunto invece rilievo penale nel maggio del 2017, a seguito di un mutamento della giurisprudenza>>. Di talchè , <<l'imputato, al momento in cui i fatti furono commessi, poteva fare affidamento su una regola stabilizzata che escludeva la rilevanza penale della propria condotta e non vi erano concreti, specifici, "segnali" che inducessero a prevedere che, dopo cinque anni dalla sentenza "Casani", le Sezioni unite della Corte avrebbero in seguito attribuito a quella condotta rilievo penale, rivedendo in senso "peggiorativo" il precedente orientamento>>.  Ne segue che nel caso di specie non si può formulare <<un giudizio di colpevolezza- rimproverabilità soggettiva>>. (sentenza al link)

24 luglio 2024

Art. 73 DPR 309/90: il medesimo fatto storico può essere ascritto ai concorrenti con titolo diverso (SSUU n. 27727/2024)

 




Avevamo anticipato la questione (link).

Pubblichiamo ora la sentenza delle sezioni unite n. 27727/2024 (link) alle quali era stata rimessa la soluzione del seguente quesito "Se, in tema di concorso di persone nel reato di cessione di sostanze stupefacenti, il medesimo fatto storico possa essere ascritto a un concorrente a norma dell'art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e a un altro concorrente a norma dell'art. 73, comma 5, del medesimo d.P.R."

Con la sentenza  Gambacurta R. + altri, Relatore: V. Pezzella le sezioni unite  hanno dato al dubbio interpretativo. 

Pertanto il medesimo fatto storico può essere sussulto nella fattispecie punita dall'articolo 73 cit. per taluno dei concorrenti ed in quella del comma 5 del medesimo art. 73 per altri.

23 luglio 2024

Pianeta carcere: mai tanti detenuti in espiazione definitiva !

 

Le più recenti statistiche ministeriali sono impietose: al 30.06.2024 il numero di detenuti in espiazione definitiva è pari a 45.701. La serie storica, dal 1991 ad oggi, dimostra che dal giugno 2023 stabiliamo ogni semestre un nuovo "record". Ma soprattutto si tratta di una crescita costante. Infatti, se si eccettua la parentesi covid, che, tra il dicembre 2019 e il giugno 2020, abbatté il numero di condannati in detenzione di 6 mila unità, l'ultima flessione si registra tra il 30.06.2015 e il 31.12 del medesimo anno. Peraltro dal 30.06.2020 il ritmo dell'incremento  assume tassi crescenti, infatti negli ultimi 4 anni, il numero di condannati presenti è aumentato di 10.000 unità (serie storica detenuti al link).

Non crediamo che su questo andamento incida, almeno in maniera preponderante, la presenza di persone straniere.  Invero, per quanto dalle serie storica non si sia in grado di stabilire quale sia il numero delle persone straniere in espiazione definitiva, resta però fermo che sul dato complessivo di detenuti, gli stranieri costituiscono una percentuale inferiore al terzo e sostanzialmente decrescente (ad oggi il 31,25%, assai meno del 37,48% del dicembre 2007, dato tratto dall'ultimo rapporto dell'associazione Antigone)

All'aumento dei soggetti detenuti in espiazione si affianca quello, vorticoso, delle persone in carico all'UEPE. Se nel 2014 gli adulti in area penale esterna per misure erano 31.865, oggi questo numero è lievitato a 91.640 ( dati ministeriali al link)

Dunque al 31.12.2014 vi era un totale di 65.898 soggetti in esecuzione pena muraria ed extramuraria, invece, quasi 10 anni dopo, tale numero è pari a 137.341 (tenuto conto anche della messa alla prova, che in punto di diritto non è una pena). In sostanza si è assistito a più che ad un raddoppio dei soggetti in espiazione.

Ovviamente, i due dati afferiscono a risposte punitive non comparabili e tuttavia pongono un problema comune: conseguono ad un incremento significativo del numero di reati, soprattutto quelli gravi, o riflettono una crescente esigenza punitiva ?

Per tentare di rispondere bisogna avere conoscenze, anche non statistiche, che non possediamo, però può offrirsi un elemento di riflessione: tra il 31.12.2023 e il 30.06.2024 si è assistito ad un significativo incremento di soggetti in espiazione per pene detentive fino a cinque anni (da 18905 a 19753) e quindi per lo più "diversamente espiabili"(detenuti condannati per pena inflitta al 30.06.24) (detenuti per pena inflitta serie storica al 31.12.23) 



 


22 luglio 2024

❌Utilità: la nuova istanza Cartabia per chiedere la discussione orale del processo in appello❌

 



Nei giorni scorsi abbiamo dato notizia della entrata in vigore della regola Cartabia quanto ai termini per chiedere la discussione orale della causa in appello (link), termine che cambia rispetto a quello pandemico al quale ci eravamo abituati e che, ora, è di 15 giorni decorrenti dalla notifica del decreto di comparizione in appello.

Pubblichiamo di seguito un modello di istanza aggiornata, che rilanciamo nella sezione (link) dove è possibile trovare tutte le altre utilità.


Udienza: «Data udienza»

RGNR: «...»

RG. Giudicante: «Ruolo Generale»-«Anno Ruolo Generale»

Imputato: «Nome »

Parte civile: «Nome »


«Autorità giudiziaria»

«Sezione»

Presidente:

a mezzo PDAAP


Istanza di discussione orale

(ai sensi dell'art. 598 bis c.p.p.)


Signori Giudici della Corte / Signor Giudice del Tribunale,


con inerenza al procedimento indicato in epigrafe nel quale assisto il/la Signor/a «Nome» (solo se parte civile: nel processo a carico dell'imputato «Nome») e per l’udienza del «Data udienza», «Orario»

premesso

  • che in data …, a mezzo pec, è stato notificato il decreto di citazione per l'udienza innanzi al giudice di appello per il «Data udienza», «Orario»;

  • che è intenzione del sottoscritto difensore chiedere, nel termine previsto dal codice di procedura penale (15 dalla notifica suddetta), la discussione orale,

formulo istanza di discussione orale

della causa in udienza pubblica/camerale partecipata, ai sensi dell'art. 598 bis comma 2 c.p.p..

«Luogo»,«Data odierna»

Avv.

(firmato digitalmente)



19 luglio 2024

Reati permanenti e contestazione effettuata nella forma cd. "aperta" o a "consumazione in atto": oneri di discolpa e obblighi motivazionali

 





Nei reati permanenti in cui la contestazione sia effettuata nella forma cd. "aperta" o a "consumazione in atto", senza indicazione della data di cessazione della condotta illecita, la regola processuale secondo cui la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado non equivale a presunzione di colpevolezza fino a quella data, spettando all'accusa l'onere di fornire la prova a carico dell'imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all'indicato ultimo limite processuale e all'imputato l'onere di allegazione di eventuali fatti interruttivi della partecipazione al sodalizio (Sez. 2, n. 37104 del 13/06/2023). Inoltre, nella ipotesi di contestazione 'aperta' nel quale la sentenza non abbia precisato la cessazione della permanenza, la individuazione del momento della cessazione compete al giudice dell'esecuzione sulla base degli elementi emersi, in primo luogo, in sede cognitiva (Sez. 1, n. 21928 del 17/03/2022).

Abuso d'ufficio: per il prof. Manna era costituzionalmente e convenzionalmente doveroso riformarlo, piuttosto che abrogarlo.




I delitti contro la pubblica amministrazione sono stati interessati dall'ennesima riforma.

In particolare l'abrogazione dell'abuso d'ufficio ha suscitato vivaci dibattiti.

Abbiamo chiesto al riguardo il parere del Prof. Adelmo Manna.



1) Professore, in questi giorni, prima col decreto legge n. 92 e poi con l’approvazione in via definitiva del ddl 808 c.d. Nordio, abbiamo assistito ad una nuova rimodulazione dei delitti contro la pubblica amministrazione, prima di vedere i singoli cambiamenti, perché secondo Lei, almeno dal 1990, questa materia è così tormentata ?


La ragione non è di ardua individuazione, perché riguarda i rapporti, a livello penalistico, tra l’Individuo e l’Autorità, che possiedono anche un preciso referente a livello costituzionale nell’art. 97, in quanto i pubblici uffici devono essere organizzati in modo da assicurare il “buon andamento” e l’”imparzialità dell’amministrazione”.
Imparzialità e buon andamento costituiscono, quindi, i pilatri su cui costruire i delitti dei p.u. contro la p.A., in modo da assicurare entrambi tali due requisiti. Alla disposizione ricordata fa, dall’altro canto, da contraltare l’art. 54, comma 2, in base al quale i cittadini, cui sono affidate funzioni pubbliche, “hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore(…)”.  Se questi sono, dunque, i parametri a livello costituzionale cui configurare il settore dei delitti dei p.u. contro la p.A., ne consegue inevitabilmente come trattasi di un settore assai delicato e foriero di modifiche periodiche proprio perché non è facile trovare un punto di equilibrio tra i diritti del cittadino, da un lato, e gli interessi della pubblica Amministrazione, dall’altro.





2) Col decreto legge n. 92, il Governo ha introdotto, tra i delitti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione, quello di “Indebita destinazione di denaro o cose mobili”, si tratta di un ritorno al peculato per distrazione o della salvezza di una porzione del reato di abuso di ufficio ?



Probabilmente sono state presenti nella mente del legislatore entrambe le esigenze, ma l’una come conseguenza dell’altra, nel senso che, evidentemente, l’abolizione tout court del delitto di abuso d’ufficio anche per l’attuale Ministro della Giustizia, on. Carlo Nordio, potrebbe essere risultata, invero, eccessiva, nell’ottica sempre della tutela non solo della pubblica Amministrazione in generale, ma anche del patrimonio della p.A. medesima, cui infatti si riferiva anche una parte dell’abuso d’ufficio prima
della sua abrogazione, tanto è vero che era previsto come evento di danno o il “procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale”, ovvero “l’arrecare ad altri un danno ingiusto”. Certo, vedere “resuscitato”, seppure sotto mentite spoglie, il peculato per distrazione, che era stato abrogato con la riforma del 1990, che infatti aveva limitato la rilevanza penale del peculato, come attualmente anche avviene, alla sola condotta di appropriazione, lascia indubbiamente perplessi, perché non si tiene contro che proprio il concetto di “distrazione” era stato abolito, in quanto eccessivamente indeterminato, che, a ben considerare, è proprio uno degli addebiti che sono stati mossi anche alla fattispecie di abuso d’ufficio, considerata alquanto evanescente.


3. Professore, al di là del merito della riforma, condivide l’uso del decreto legge per introdurre ipotesi di reato ?

Trattasi di un problema assai risalente, in quanto già il compianto Franco Bricola (già nella voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. It., XIX, 1973, 7 ss. e quivi 41; nonché Art. 25, 2° e 3° comma, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Art. 24-26, Rapporti civili, Bologna, 1981, 227 ss. e quivi 248; e già in Id, Legalità e crisi: l’art. 25, commi 2° e 3°, della Costituzione rivisitato alla fine degli anni ’70, in Quest. Crim., 1980, 179 ss., nonché in Id., Scritti di diritto penale, I, tomo 2, Milano, 1997, 1273 ss.) aveva sostenuto una tesi assai radicale, ma profondamente rispettosa della legalità penale, affermando, peraltro non a torto, che proprio le caratteristiche della legge penale, che incide sulla libertà personale dei cittadini, dovrebbe comportare l’obbligo per il legislatore di utilizzare sempre la legge in senso formale e non già il decreto legge, perché, anche se convertito in legge dal Parlamento, costituisce sempre una “espropriazione” originaria della potestà legislativa da parte del Governo, per di più in una materia così delicata e che incide su di un bene così elevato fra la gerarchia degli interessi protetti da parte della Carta costituzionale, come, appunto, la libertà personale, per cui la legge penale nonpotrebbe che essere emanata, in definitiva, soltanto dal Parlamento. Orbene, stabilito ciò in linea generale ed astratta, ci rendiamo però conto che tale tesi non è stata poi seguita dalla maggioranza della dottrina e della giurisprudenza, per cui dobbiamo inevitabilmente, come suol dirsi, scendere dal cielo dei principi alle caratteristiche del caso concreto, ove però anche nel caso che qui ci occupa diventa estremamente
problematico individuare quei “casi di assoluta necessità e urgenza”, richiesti dalla Carta costituzionale per legittimare l’intervento legislativo del Governo tramite, appunto, il decreto legge. E’ pur vero che nel titolo del decreto legge in analisi si fa riferimento, ovviamente, alle “misure urgenti in materia penitenziaria”, evidentemente con riferimento all’oramai eccessivo numero di suicidi in carcere, ma nel caso che qui ci occupa il nuovo delitto denominato “Indebita destinazione di denaro o cose mobili” non sembra proprio rivestire quel carattere di necessità e urgenza che dovrebbe legittimare l’intervento in un settore, tra l’altro così nevralgico, come quello dei delitti dei p.u. contro la p.A.. Le perplessità, quindi, riguardanti l’uso del decreto legge in materia penale, sono sia di carattere generale, in chiave garantista, sia anche in rapporto al caso concreto, per le ragioni che abbiamo sinora esposto.


4) Il ddl Nordio, approvato in via definitiva dal Parlamento, ha abrogato l’art. 323 c.p., a suo avviso si tratta di una riforma necessaria per consentire una più agevole attività della pubblica amministrazione, paralizzata da un reato connotato da un forte squilibrio tra il numero di iscrizioni e quello delle condanne, oppure si tratta di un intervento inutile, perché finirà per creare vuoti di tutela, in cui si innesteranno incontrollate esegesi creative della giurisprudenza?


Naturalmente l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio ha suscitato voci favorevoli e voci contrarie (fra i favorevoli Spangher, E’ stato definitivamente approvato il ddl Nordio, in Iuspenale, (Il penalista), 15.7.2024; nonché, seppure parzialmente, D’Avirro, Indebita destinazione di denaro o di altra cosa mobile: la parziale rinascita dell’abuso d’ufficio, in ibid, 11.7.2024; fra i contrari il presidente dell’ANM cons. Santalucia, in Il Dubbio, 17.7.2024, in risposta a Spangher, nonché, in particolare, Gatta, Morte dell’abuso d’ufficio. Recupero in zona Cesarini del ‘peculato per distrazione’, (art. 314-bis) e obblighi (non pienamente soddisfatti) di attuazione della Direttiva UE 2017/1371, in Sistema penale, 10 luglio 2024, e, da ultimo, Donini, Abrogare i reati per isolare problemi del processo. Dal falso in bilancio all’abuso d’ufficio, in ibid, 15 luglio 2024). A nostro avviso la questione non può essere risolta adeguatamente soltanto sotto questo profilo, ma va maggiormente approfondita. In primo luogo non va dimenticato che sussistono oltre 3300 condanne passate in giudicato, che con l’abolitio criminis rischierebbero di finire nel nulla, anche se si potrebbe di contro sostenere che trattasi di un fenomeno anche di tipo successorio, con riferimento all’introduzione del nuovo reato di “indebita destinazione di denaro o cose mobili”, che non costituisce altro che una reviviscenza del peculato per distrazione, che era stato abolito con la riforma del 1990 e che ora “risorge” dalle ceneri evidentemente per tentare di colmare la lacuna derivante dall’abolizione dell’abuso di danno patrimoniale (in argomento, in senso giustamente critico, cfr. anche Micheletti, La “distrazione” gioca brutti scherzi sulle ricadute intertemporali del nuovo art. 314 bis c.p., in disCrimen, 8 luglio 2024). Volendo ora ritornare all’abuso d’ufficio, è risaputo che costituisce una fattispecie che ha conosciuto diverse “stagioni”, dall’abuso innominato come norma residuale nel c.p. del ’30, alla riforma del ’90, con la distinzione fra abuso con finalità patrimoniali e abuso con finalità non patrimoniali a cui è succeduta la riforma del 1997, che ha aggiunto un dolo particolarmente carico, il c.d. dolo intenzionale. In conclusione, l’ultima formulazione della norma in analisi risulta la seguente: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità (ex art. 23 d.l. 16.7.2020 n. 76, conv. nella l. 11.9.2020 n. 120) ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni”. Come può agevolmente evidenziarsi anche ad una prima lettura la fattispecie che da ultimo risulta da tutte queste “stratificazioni” legislative non è certo di facile interpretazione e, quindi, di applicazione e ciò, ovviamente, dimostra il forte squilibrio tra il numero delle iscrizioni al registro degli indagati e quello relativo alle condanne, cioè una rilevante “cifra oscura”. Sarebbe, tuttavia, riduttivo spiegare l’abolitio criminis, seppur parziale, solo secondo quest’ultima prospettiva, né può costituire un argomento giuridicamente valido quello soprattutto espresso da un numero notevole di sindaci che hanno manifestato la c.d. paura della firma, perché trattasi non solo di un argomento di carattere politico, che ha consentito l’approvazione della riforma anche con il voto adesivo dei partiti di centro, ma che soprattutto giuridicamente non convince perché allora seguendo questa prospettiva bisognerebbe giungere a una responsabilità esclusivamente civile e non penale anche in rapporto ai medici, onde evitare la c.d. medicina difensiva, ma se seguisse quest’ultima strada il legislatore, di cui pure ha ufficialmente parlato l’attuale ministro della Sanità, rischierebbe di indebolire fortemente la tutela della vita e dell’integrità fisica dei malati che si sottopongono ad interventi del personale sanitario. A nostro avviso, quindi, la prospettiva abolizionista adottata dal legislatore è per molti profili assolutamente non condivisibile per cui siamo dell’avviso che sarebbe stato decisamente preferibile una riforma del delitto di abuso d’ufficio soprattutto se si tiene conto degli importanti risultati della Commissione Morbidelli, istituita nel lontano febbraio del 1996 dall’allora Ministro della giustizia, dott.Vincenzo Caianiello (sia consentito, in argomento, il rinvio a Manna, Abuso d’ufficio
e conflitto d’interessi nel sistema penale, Torino, 2004, spec. 27 ss.). Dai lavori di detta Commissione emerge un dato assolutamente imprescindibile, e cioè che l’abuso d’ufficio contiene in sé tre fattispecie distinte: in primo luogo la “prevaricazione”, che costituisce il modello ottocentesco e con il quale si incrimina soprattutto l’abuso delle forze dell’ordine, come anche di recente è avvenuto in quel caso in cui uno di essi aveva fermato due ragazze straniere chiedendo loro i documenti; esse glieli avevano consegnati e quando stavano andando via perché avevano capito le intenzioni dell’uomo, costui le ha indebitamente trattenute ritenendo che dovessero aspettare l’automobile di servizio perché fossero controllati anche elettronicamente tali documenti. Trattavasi evidentemente di una scusa non solo perché i documenti erano validi ma perché era un modo per approcciare le ragazze e per questa ragione il p.u. è stato condannato per abuso d’ufficio. La seconda fattispecie è quella relativa allo “sfruttamento privato dell’ufficio” che riguarda la classica ipotesi in cui il docente universitario, che ha una relazione consenziente con una studentessa, le fa superare l’esame anche se non è preparata. Purtroppo lo sfruttamento privato dell’ufficio potrebbe riguardare anche concorsi universitari ove concorrono anche abilitati alla seconda o addirittura alla prima fascia di docenza ove regolarmente prevale il concorrente locale, ma ora proprio con l’abolizione dell’abuso d’ufficio ancor più ci si vedrà costretti a ricorrere al TAR che in genere non decide nel merito se non dopo circa tre anni. La terza ipotesi riguarda il “favoritismo affaristico” che potrebbe essere in un certo senso recuperato attraverso la riemersione del c.d. peculato per distrazione. Onde cercare di ottenere una reductio ad unum di tali tre fattispecie criminose, sarebbe stato, a nostro avviso, utile una comparazione col delitto di “infedeltà patrimoniale” inserito nel 2002 nell’ambito dei reati societari. Sia l’abuso di ufficio infatti che l’infedeltà patrimoniale si caratterizzano per la situazione
di conflitto di interessi che a nostro avviso non dovrebbe essere qualificata solo in chiave omissiva ma caratterizzare l’abuso anche a livello di condotta attiva, a cui dovrebbe poi seguire, con relativo nesso causale, l’evento di danno patrimoniale, oppure non patrimoniale. Una fattispecie di tal fatta, in conclusione sarebbe stata la soluzione migliore per una tutela penale anche in chiave costituzionale, ex art. 97, nonché in chiave convenzionale, con riguardo in particolare alla Convenzione di Merida ed alla Direttiva comunitaria in materia, anziché un’abolizione tout court dell’abuso d’ufficio che rischierà, però, di suscitare una ennesima forma di giurisprudenza c.d. giuscreativa, che tenderà infatti, per colmare i vuoti di tutela,ovviamente, di non accontentarsi del risorgere del peculato per distrazione, ma ovviamente si orienterà probabilmente ad estendere oltremodo i limiti delle fattispecie di corruzione, soprattutto con riferimento al concetto di “altra utilità”.


5) Il traffico di influenze illecite, introdotto dalla legge c.d. Severino del 2012 e poi modificato nel 2019 con la c.d. legge spazza-corrotti, conosce una nuova riforma, con cui si restringe la sua area di applicazione alle sole ipotesi di sfruttamento di relazioni esistenti e si innalza il limite minimo di pena. Che ne pensa ?


Anche in relazione a tali ipotesi criminose la prospettiva storica può essere di notevole ausilio. Non va infatti dimenticato che originariamente, nel codice penale del 1930 esisteva solo la fattispecie di millantato credito, che sicuramente, per la sua conformazione, apparteneva alla categoria dei reati di frode. Con la riforma varata nel 2012 dall’allora Ministra della giustizia, prof.ssa Paola Severino, e con la c.d. legge spazza corrotti del 2019, si introdusse dapprima e poi si modificò la fattispecie di traffico di influenze illecite, che tuttavia inglobava in sé anche, a ben considerare, il millantato credito, tanto è vero che la condotta criminosa non si limitava allo sfruttamento, ma comprendeva anche il vantarsi di relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. In altri termini risultava evidente che, così come disciplinato, il traffico di influenze illecite ricomprendeva nel suo seno il millantato credito tanto è vero che fu abrogato dall’art. 1, lett. s), della l. 9 gennaio 2019 n. 3. Attualmente invece il legislatore di quest’ultima riforma ha di nuovo modificato il delitto di traffico di influenze illecite perché appunto viene ristretta la sua area di applicazione alle sole ipotesi di sfruttamento di relazioni esistenti e non, quindi, soltanto vantate. Tale modifica, però, a parte l’innalzamento del limite minimo di pena pone però un ulteriore problema, cioè quello dell’opportunità di far rivivere il millantato credito come reato di frode, giacché la parte fraudolenta è stata definitivamente santa dal traffico di influenze illecite. D’altro canto questo legislatore non è nuovo a far risorgere dalle ceneri fattispecie criminose già abolite, come dimostra il caso del peculato per distrazione e d’altro canto se non fosse reintrodotto il millantato credito si verificherebbe un nuovo vuoto di tutela proprio in rapporto a condotte assai pericolose come quelle, appunto, connotate dall’elemento fraudolento che infatti ha sempre caratterizzato il millantato credito finché è rimasto in vigore. In conclusione, dal decreto legge n. 92 del 2024, nonché dal d.d.l. n. 808 ormai definitivamente approvato sempre del 2024, abbiamo potuto verificare con mano l’esistenza di un legislatore fortemente discutibile che ha fortemente indebolito anche contro la normativa comunitaria rischiando così un procedimento d’infrazione per il nostro Paese un settore nevralgico del codice penale quale quello dei delitti dei p.u. contro la p.A.. D’altro canto, a nostro avviso, questa è l’ennesima riprova del c.d. populismo penale che si caratterizza, come suol dirsi, per essere “debole con i forti e forte con i deboli” (sia consentito, in argomento, il rinvio a Manna, Il diritto penale a “due velocità”, in Il diritto penale della globalizzazione, 2024, 131 ss.).

*) Adelmo MANNA:  Professore emerito di Diritto penale presso l'Università di Foggia e Avvocato cassazionista in Roma. 

 

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