Attrezzi che possono arrugginire
Il post riproduce la prima parte dell’intervento dell’avv. Luigi
Tramontano al convegno organizzato dalla Camera Penale di Trapani, presso il
Polo Universitario di Trapani, il 30 maggio 2024, dal titolo “Esame e
controesame: quel che resta, se resta qualcosa, del codice Vassalli”. La seconda parte seguirà il 12.07.2024.
1. Un terreno sicuro. – Non sembri inutile osservare che, nel suo impianto di base, la disciplina di come la prova orale si deve assumere e debba formarsi al dibattimento è a tutt’oggi quella risalente al testo originario del codice Vassalli[1], di impronta marcatamente accusatoria, poiché persegue il raggiungimento della verità mediante il metodo dialettico, e non in base al principio di autorità[2].
Da più parti si lamenta tuttavia che l’ordinata e logica sequenza dettata dal codice[3] non è ciò che di solito si osserva compiersi nelle aule di giustizia[4].
Non lo nego, ma credo lo stesso sia meglio occuparsi della fisiologia, più che della patologia, dell’esame incrociato.
In effetti, l’escussione in contraddittorio della fonte orale, per quanto a prima vista possa sembrare il contrario, è operazione tutt’altro che intuitiva, ma piuttosto altamente specialistica (e per questo demandata dal codice alla competenza tecnica delle parti, sotto la sorveglianza solo giuridica del decidente).
Per un verso, tuttavia, la cultura della formazione in contraddittorio della prova si discosta diametralmente da una nostra lunga tradizione processuale[5], e per l’altro la tecnica specifica dell’esame incrociato non ci viene di solito insegnata, neanche dopo l’università[6]. È dunque per queste ragioni che la concreta escussione di un teste possa in tanti casi apparire confusionaria[7], o addirittura infrangere le norme[8], o al limite esaurirsi in una perdita di tempo[9]. Solo invero comprendendo perché le regole da seguire siano proprio quelle dettate dal codice e non altre, risulterà naturale interpretare il dibattimento secondo lo spirito dialettico che dette norme presuppongono, e quindi produrre il risultato per cui una prova va considerata tale solo se, dopo essere stata addotta dalla parte a sostegno della sua ipotesi, resista a tutti i possibili rilievi che in ordine alla sua conducenza o verità sia in grado di sollevare la parte contro cui essa milita.
Non renderemmo comunque un buon servizio alla verità se guardassimo al fenomeno con i soli occhi del disfattismo. È infatti altrettanto vero, nello stesso tempo, che quando in un’aula dibattimentale sentiamo condurre con sapienza un esame o un controesame – e l’evento è tutt’altro che raro, lo si creda, nonostante ogni pessimismo di maniera – vediamo sempre anche un giudice apprezzarne e seguirne con la massima attenzione lo svolgimento; non lo vedremo di conseguenza tendere a “sostituirsi” all’esaminatore, interrogando subito il testimone, e neppure la controparte di solito si permetterà di interrompere di continuo, opponendosi ad ogni domanda (anche le opposizioni frequenti, invero, per quanto certamente sintomo di “maleducazione dialettica”, sono tuttavia provocate soprattutto da domande formulate male, in modo farraginoso, confuso, ripetitivo, non chiaro, ecc.) [10].
Imparare a usare la tecnica, quindi, serve. E il suo uso corretto ha inoltre un’indubbia portata di esempio, dato che il nostro processo è pubblico: chi ascolta non potrà fare a meno di coglierne l’impareggiabile conducenza, e quindi l’utilità, ai fini dell’accertamento processuale che ogni giorno siamo chiamati a compiere. E questo fa cultura.
Pur non avendone alcun titolo, provo dunque a riassumere qui alcune linee guida da seguire nel condurre un esame e, soprattutto, un controesame. Limiterò peraltro l’esposizione, per ovvie ragioni di tempo, ai casi generali, ossia quelli in cui si tratti di assumere la deposizione di un esperto in una certa materia (perito, consulente tecnico) o di un testimone senza altra qualificazione (da affrontare a sua volta in modo differente a secondo che si abbiano solidi elementi per ritenere che abbia deliberatamente mentito, oppure che sia semplicemente incorso, più o meno in buona fede, in un errore di percezione).
Il campo, appunto, è tutt’altro che completo, dacché modalità e tecniche diverse dovranno usarsi per l’escussione di altre e più specifiche categorie di deponenti (come ad esempio i testimoni minorenni, i testi c.d. assistiti, i testi “protetti”, i testi “a distanza”, ecc.), tutte ipotesi peraltro – queste sì – diversamente regolate rispetto all’impianto originario del codice, con novelle “correttive” tutte successive al 1988 ed introdotte appunto in chiave di eccezione ai principi cardine dell’esame incrociato, che è appunto la caratteristica fondante di un rito accusatorio.
2. Modalità generali. – Sembra banale, ma non lo è. Il linguaggio – l’abilità cerebrale che pone solo l’uomo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi – serve a comunicare. Perciò, se lo usiamo per formulare una domanda, ricordiamoci sempre che il modo in cui costruiamo quest’ultima – ossia, ciò che stiamo comunicando di voler sapere – determinerà inevitabilmente la risposta che ci verrà data[11]. A dirsi, è facile. A farsi, un po’ meno.
Prima di tutto, dunque, tanto che si conduca un esame quanto un controesame, occorre prestare la massima attenzione a come si formulano le domande in un processo: il che vuol dire sia scegliere accuratamente modi e tempi verbali, vocaboli e toni; sia, circoscrivere precisamente la direzione di ogni quesito, evitando cioè di porre domande non strettamente funzionali a ciò che serve – o comunque intendiamo – far emergere, e ciò non solo perché potrebbero non essere considerate pertinenti ma soprattutto per non aumentare la probabilità che arrivino risposte comunque sfavorevoli alla nostra posizione.
Bisognerebbe a maggior ragione non mettersi mai nelle condizioni di poter ricevere delle risposte del tutto inattese, limitando quindi le domande solo a quelle in ordine alle quali può in qualche misura prevedersi quale potrà essere il tipo di risposta.
Soprattutto in sede di esame diretto sono generalmente da evitare, perciò, le domande (troppo) aperte (ad es., “lei ha sporto un’articolata querela nei confronti dell’imputato: ci spieghi che cosa è accaduto…”), perché in questo modo si perde facilmente il controllo del dichiarante, e si rischia di non riuscire poi a fargli dire quello che invece rilevi davvero che egli dica[12]; e parimenti, ma specialmente in controesame, vano in genere evitate le domande a risposta multipla (ad es., “ma era questo, o quest’altro?”), quanto meno quando non si abbiano basi di sorta per potersi attendere, tra le possibili risposte alternative, proprio quella favorevole.
Mantenere la guida dell’esaminato – per condurlo a riferire quello che ci interessa che egli riferisca – è invero ciò che devono fare tanto l’esaminatore che il cross-examiner, ed è dunque operazione basilare.
Con l’esame diretto si deve infatti rappresentare al giudice la prova che si è chiesto di addurre, quindi occorre andare diritti e rapidamente al punto o ai punti rilevanti, con domande specifiche; anche perché meno spazio si apre intorno al fatto che si vuole rappresentare, meno appigli si offrono alla parte avversaria per contro esaminare il dichiarante[13].
Analogamente, nel controesame, lo scopo è di raccogliere elementi utili a supportare la nostra “teoria del caso” in antitesi a quella di accusa, sicché bisogna dirigersi appunto verso tali elementi, con sicurezza e decisione. Guai a dare invece l’impressione (non solo al teste, ma anche al giudice) che non abbiamo ben chiaro cosa stiamo cercando o dove vogliamo arrivare, e che speriamo soltanto che la Fortuna ci aiuti… Il controesame, quindi, deve consistere in genere in poche, mirate, domande, dirette verso i punti deboli della deposizione dell’esaminato ma decisivi per la causa, astenendosi dal rincorrere minuzie irrilevanti[14].
Una volta accennato alle domande che non si dovrebbero fare, vediamo adesso quelle che sicuramente non si possono fare, per legge.
Non sono infatti consentite, ed ovviamente, le domande c.d. nocive, per tali intendendosi quelle “finalizzate a manipolare il teste, fuorviandone la memoria, poiché gli forniscono informazioni errate e falsi presupposti tali da minare la stessa genuinità della risposta”[15]. Sono altrettanto nocive le domande che tendono ad intimidire, a mettere in soggezione, il deponente: ad esempio, e tipicamente, non si può fare seguire ad una domanda l’avviso “le ricordo che lei è sotto giuramento”, perché tale ammonizione solo il tribunale ha il potere di farla, e solo dopo che il teste abbia già risposto e quanto da lui detto risulti in contrasto con altri atti già acquisiti, oppure quando rifiuti di rispondere[16]; ove tale avvertimento venga quindi rivolto al teste prima che egli inizi a rispondere, questi può essere portato a ritenere che deve necessariamente dire ciò che il suo interrogante si aspetta che dica – che corrisponda o meno a quanto egli avrebbe voluto dire – il che mina la possibilità di apprezzare appunto la “sincerità” o meno della sua risposta.
Se si procede ad esame diretto sono inoltre vietate le domande suggestive, le quali invece, non solo sono ammesse, ma sono anche le più efficaci da rivolgere al deponente durante il controesame.
Per domande suggestive s’intendono quelle che, appunto, “tendono a suggerire le risposte” (così, espressamente, le definisce l’art. 499, comma 3, c.p.p.). Sono strutturalmente diverse quindi da quelle appena esaminate – le nocive – perché la domanda suggestiva non deve di certo tendere ad ottenere risposte false (non sincere), piuttosto deve servire a far sì che il teste renda proprio quella risposta che giova alla nostra posizione, e non altra. In particolare, di solito si tratterà di una risposta, vera, che il deponente – secondo i casi – non avrebbe voluto essere costretto a dare o non aveva pensato di poter dare, e dunque la modalità suggestiva serve proprio a “tirargliela fuori” lo stesso.
Le più efficaci domande suggestive sono in ogni caso quelle che obblighino l’esaminato a rispondere con un monosillabo: si, o no. In gergo, si chiamano, queste ultime, domande “guidanti” (leading questions), sostanzialmente delle affermazioni di fatto, seguite da un punto interrogativo (ad es., lei conosce il locale “Buon appetito”? Si stava recando lì la sera del 22 marzo? È uscito intorno alle venti? A piedi, visto che è proprio vicino casa sua?…) [17].
Da ciò si comprende facilmente perché le domande suggestive siano proprio quelle che il codice considera connaturate al controesame (alla fine di questo intervento mostreremo invece perché sono viceversa vietate nell’esame diretto). Esse sono infatti lo strumento migliore per saggiare la tenuta della versione che il teste abbia reso in sede di esame, rivolgendogli appunto domande alle quali egli non possa che dare una certa risposta (quella evocata dalla domanda). Ed è altrettanto chiaro che se non si impara come formulare questo particolare tipo di domande, che sono l’essenza del controesame, l’arma principale a disposizione della difesa – proprio quella che, tra l’altro, riduce enormemente il rischio di risposte inattese – sparerà per lo più a vuoto[18].
Si badi, suggestionare il dichiarante non significa ingannarlo. Non è consentito, infatti, indurre in errore il deponente, tendergli trappole, articolare sofismi, e via di questo passo. A prescindere dai rilievi anche disciplinari che un simile modo di procedere può comportare, conviene non dimenticare mai che ogni nostro artificio o disonestà avrà un effetto senz’altro distruttivo, innanzitutto per la posizione che rappresentiamo, e in secondo luogo per la nostra stessa figura professionale, agli occhi del giudice.
Addentriamoci adesso, più specificamente, nell’ambito del controesame.
3. La scelta se procedervi o meno e la sua preparazione. – I maestri angloamericani ammoniscono di procedere al controesame solo se ve ne sia motivo, in base ad uno scopo predefinito[19]. La linea di difesa – o teoria del caso – va infatti necessariamente tracciata prima che inizi il dibattimento, e dunque se il testimone non ha riferito circostanze sostanzialmente contrarie alla teoria del caso difensiva, non va di certo contro esaminato.
La scelta, in questi casi, può essere addirittura anticipata concordando con la pubblica accusa l’acquisizione del verbale contenente le dichiarazioni già rese dal teste durante le indagini preliminari (ai sensi dell’art. 493, comma 3, e 500, comma 6, c.p.p.), con rinuncia al suo esame dibattimentale (art. 495, comma 4-bis. c.p.p.). Nella prassi si assiste di frequente a che tale acquisizione venga proposta dalle parti, fatta tuttavia salva la possibilità di esaminare ugualmente il teste “con domande a chiarimento” (espressione di per sé insulsa, con la quale comunque si vuole intendere che le domande saranno rivolte solo su alcuni punti specifici delle dichiarazioni già rese dal testimone ed acquisite). Tale prassi viola apertamente il disposto di cui all’art. 511, comma 2, c.p.p. (“La lettura di verbali di dichiarazioni è disposta solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo”), e in ogni caso è da evitare da parte del difensore per lo stesso motivo per cui, avendo egli ritenuto inutile il controesame, ha concordato con il PM l’acquisizione della deposizione già resa dal teste. Tale scelta, infatti, verrebbe evidentemente pregiudicata se il teste, sottoposto comunque ad esame, aggiungesse circostanze non specificate in precedenza e di danno per la teoria del caso della difesa. È vero che, ove ciò accadesse, al difensore dell’imputato rimarrebbe la possibilità di rimediare procedendo al controesame, ma è altrettanto vero che in casi del genere di solito si tratterà di un controesame improvvisato, non potuto preparare prima appunto perché la circostanza non era ancora emersa dalla bocca di quel testimone. Perciò, una doverosa prudenza impone di non acconsentire ad una simile prassi, dati i rischi per il buon esito della dialettica probatoria che essa comporta.
Buona norma di prudenza suggerisce di non procedere al controesame neanche quando, pur avendo il testimone reso dichiarazioni pregiudizievoli contro il nostro assistito, non abbiamo elementi efficaci per far emergere che egli abbia mentito, inteso male, esagerato, ecc. (c.d. controesame costruttivo), o per attaccarne in modo significativo la credibilità (c.d. controesame distruttivo). In tutti questi casi, infatti, proprio per il principio di fondo, che vuole la prova formarsi se, davanti al giudice, la tesi di partenza abbia resistito alle possibili antitesi, un controesame inefficace non farà che convincere meglio il decidente della fondatezza della tesi dell’altra parte.
Si badi, questo non vuol dire dar credito al diffuso – e sbagliato – luogo comune che recita: “il migliore controesame è quello che non si fa”. È vero, piuttosto, che senz’altro non si deve procedere al controesame se si pensi soltanto di improvvisarlo lì per lì.
3.a. Controesame inutile – Sul tema dei controesami improvvisati, appaiono illuminanti (in negativo) gli esempi proposti da un nostro ottimo esperto della materia[20] che, in un crescendo autodistruttivo, enumera un controesame inutile – se va bene – uno dannoso, e infine uno disastroso per la posizione del nostro assistito.
Il controesame inutile è sostanzialmente quello in cui ci si limita a far ripercorrere al teste il contenuto dell’esame appena reso, nella disperata ricerca che “salti fuori qualcosa” da poter sfruttare. Fatalmente si verrà presto interrotti dal giudice, che farà presente: “Avvocato, il teste ha già risposto a questa domanda” [21].
Al genere dei controesami inutili appartengono poi, di certo, quelli di eccessiva lunghezza, perché composti in prevalenza da domande, numerose, su aspetti generici già del tutto pacifici agli atti o comunque irrilevanti per contrastare il merito della deposizione resa in esame o per screditare la credibilità del teste.
3.b. Controesame dannoso – Il controesame diventa già dannoso quando lo si conduce come nell’esempio che cita l’autore appena detto.
Si trattava di un processo per maltrattamenti in una casa di riposo, in cui il difensore, contro esaminando il principale teste di accusa, senza alcuna base per sperare di riuscirvi, cerca di indurlo a porre su un contesto scherzoso la assai sgradevole espressione da quegli riferita come pronunciata dall’imputato all’indirizzo della vittima, anziana degente, del centro. Ma sbaglia completamente il modo, formulando appunto domande a risposta multipla (“ma si trattava di una vera e propria aggressione verbale, o di uno scherzo?”) e perfino azzardando un invito al testimone ad esprimersi sulla percezione che del fatto potesse averne avuto la destinataria (“ma la signora lo percepiva come uno scherzo, o come un’aggressione?”), ricevendo come risultato di sentirsi rispondere: “non penso proprio che lo abbia percepito come uno scherzo”[22].
Altro tipo di controesame dannoso è certamente quello che determina la perdita di un vantaggio acquisito, il che accade in particolare quando si chiede al testimone di chiarire eventuali contraddizioni in cui quegli sia incorso. Chi conduce il controesame non dovrebbe mai domandare spiegazioni in eventualità del genere, limitandosi a raccogliere l’effetto vantaggioso che la contraddizione già da sola produce, per riprenderlo poi, e solo, nella discussione finale. Viceversa, se si chiede al testimone di chiarire la contraddizione, questi di norma troverà qualche spiegazione soddisfacente, anche se costretto ad inventarla, correggendo o modificando quanto dichiarato. E così il vantaggio si perde.
L’argomento impone di accennare brevemente all’uso dello strumento delle contestazioni, se si sta procedendo al controesame. Le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone, lettegli per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, “possono essere valutate ai fini della credibilità del teste”, dice appunto il comma 2 dell’art. 500 c.p.p. Il punto è però che, una volta fatta la contestazione proprio per far emergere la contraddizione, se si è in sede di controesame – come abbiamo appena detto – bisognerebbe poi astenersi dal chiedere al teste come spieghi l’antinomia. Ma sarà del tutto inutile omettere questa domanda perché, se contraddizione c’è, inevitabilmente gliela rivolgerà il giudice. Ed allora, il deponente avrà la possibilità di togliere effetto al contrasto, fornendo una spiegazione più o meno plausibile. Perciò, è consigliabile, se siamo in controesame, procedere alla contestazione solo quando tra la dichiarazione appena resa dal teste e quella da lui fatta in precedenza vi sia una divergenza talmente radicale da non poter essere sanata se non a prezzo – come si dice – di arrampicarsi sugli specchi, ossia di fornire una spiegazione del tutto assurda, che in realtà non spieghi nulla. In ogni altro caso conviene invece non procedere alla contestazione, e piuttosto, dopo che il teste abbia deposto, concordare con l’altra parte di acquisire il verbale contenente le sue precedenti dichiarazioni.
3.c. Controesame disastroso – Il controesame può risultare infine davvero disastroso quando fa emergere o rafforza, contro il nostro assistito, proprio la circostanza decisiva per la fondatezza dell’accusa.
L’autore citato sopra propone in merito questo esempio: in un processo per violenza sessuale su minorenni, di cui era accusato il titolare di un centro che si occupava di offrire ospitalità a bambini orfani, contro esaminando una delle (presunte) vittime, ma muovendosi senza scopo e con tecnica inadeguata, il difensore dell’imputato gli chiede: “Non ci ha riferito che l’imputato la trattava come un figlio?”[23] , ed il teste: “No. Mi trattava come un figlio davanti alle altre persone, al di fuori di quello mi trattava come la sua fidanzata”. Fine del discorso.
E dunque, in definitiva, se il controesame è necessario, per condurlo con efficacia (o quanto meno, senza danno) occorre prepararlo molto bene prima, attraverso lo studio attento delle carte del processo ed eventualmente, soprattutto se si vuole attaccare la credibilità del testimone, attraverso mirate indagini difensive, che svelino comportamenti particolari e caratteristiche della persona da escutere (ove questa abbia già manifestato una tendenza a mentire o ad esagerare, a non osservare le leggi, e così via).
[1] Solo una particolare regola in tema di contestazioni è stata invero modificata nel 2001, al comma 2 dell’art. 500 c.p.p., rispetto alla previsione originaria, con la eliminazione del divieto di tenere conto delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni come prova dei fatti in esse affermati.
[2] Nello stabilire quale sia la prova di un fatto umano, possono invero seguirsi due sole strade: o attendiamo che la verità ci venga rivelata da chi ha la competenza per farlo (principio di autorità), oppure la verità si raggiunge come risultato di una ricerca, condotta sottoponendo un’ipotesi di partenza alle necessarie verifiche (principio dialettico).
[3] A beneficio dei soli studenti universitari che apprezzabilmente partecipano a questo convegno, mi permetto di ricordarla brevemente.
Il dichiarante è sottoposto innanzitutto all’esame diretto – che va chiesto prima, ed è condotto dalla parte che presenta e rappresenta la prova, come “argomento” della propria “tesi” – e lasciato poi all’eventuale controesame della parte avversa, che mirerà ad inficiare il primo, nell’ambito di una “antitesi”. Terminato, ove svolto, il controesame, la parte che ha condotto l’esame diretto può eventualmente procedere al riesame del dichiarante, ponendo “nuove” domande (art. 498, comma 3, c.p.p.), ossia domande diverse da quelle già fatte all’inizio. Il ché chiude il ciclo.
Il giudice, durante tutto questo svolgimento, interviene solo per “assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni” (art. 499, comma 6, c.p.p). Sulle “opposizioni” che in particolare una parte sollevi avverso le domande poste dall’altra, decide di norma immediatamente, e senza formalità (art. 504 c.p.p.).
Il giudice, invece, può rivolgere domande ai testimoni, periti, consulenti tecnici, ecc., “solo dopo l’esame e il controesame” dei medesimi, svolto dalle parti (art. 506, comma 2, c.p.p.). A seguito delle domande eventualmente poste dal giudice, le parti possono poi completare l’escussione del deponente, nello stesso ordine prima detto.
Le norme stabiliscono infine quali siano le domande non consentite tanto in esame che in controesame (le domande nocive), e quelle non consentite nel solo esame diretto (domande suggestive).
[4] Cfr., ad esempio, L. Ponzoni, Cross-examination: un bilancio e (un tentativo di) un rilancio ad un quarto di secolo dall’introduzione del nuovo codice di rito, in Diritto penale contemporaneo, 30 gennaio 2015. Fenomeni di erronea conduzione dell’esame incrociato, tuttavia, si verificano in ogni parte del mondo in cui si segue un codice accusatorio, persino nei paesi dove tale sistema è stato inventato ed ha più antica tradizione, ossia la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Non si creda il contrario.
[5] Risalendo indietro “solo” a far data dall’Unità d’Italia, i nostri nonni e i nostri padri, e quindi i nostri maestri, hanno invero conosciuto solo codici di procedura inquisitori, tali essendo stati sia il codice Finocchiaro Aprile, del 1913, quanto il codice Rocco, del 1930 (l’uno maggiormente liberale, l’altro marcatamente autoritario). All’indomani della introduzione, per questo rivoluzionaria, del codice Vassalli, L. De Cataldo Deuburger, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, Milano, 1988, 344, ad esempio, già pronosticava: “difficile che il nuovo sistema possa funzionare se gli addetti ai lavori non sono preparati ad adoperarlo. Dopo tutto, a qualificare il processo non è tanto o solo la legge, ma anche e soprattutto il costume e la competenza di chi vi partecipa”. Ormai, tuttavia, il codice Vassalli è in vigore da 35 anni, e sarebbe il caso quindi di non ricorrere più all’alibi del freno della tradizione, iniziando invece a coltivare ogni giorno la cultura accusatoria che il codice vigente impone di seguire.
[6] Nei testi universitari, in genere, si illustra appunto solo la sequenza codicistica, senza alcun accenno, quanto meno, a come formulare le domande, in esame e in controesame, o le opposizioni, le contestazioni, ecc. Sostanzialmente assenti inoltre, nel nostro panorama dottrinale, i manuali che trattino ex professo dell’esame incrociato, con finalità didattiche. Esistono comunque eccellenti traduzioni italiane di alcuni dei migliori manuali americani e britannici sul tema, tra i quali segnalo in particolare il prototipo di ognuno di essi, ossia il testo di F. Wellman (L’arte della cross-examination, Milano, a cura di Giuseppe Frigo e con presentazione del prof. Ennio Amodio), oppure quello di M. Stone, La cross-examination. Strategie e tecniche, Milano, anch’esso curato da Ennio Amodio.
[7] Si determina confusione, in particolare, se ad ogni domanda dell’esaminante seguono opposizioni dell’altra parte, per di più accompagnate da lunghe spiegazioni (che finiranno inevitabilmente per influenzare il deponente).
[8] Ciò si verifica, com’è noto, quando vengano poste domande suggestive in sede di esame diretto senza che il giudice le blocchi, o peggio, quando è lo stesso giudice ad alterare sensibilmente’ordine previsto dalla legge (anche in via di necessaria supplenza, data l’incapacità delle parti a mantenersi da soli entro i loro spazi e nei loro turni), iniziando ad interrogare il teste molto prima che siano terminati sia l’esame che il controesame.
[9] Questo accade senz’altro se il controesame ripeta semplicemente le domande fatte al teste in esame diretto, oppure quando si assiste ad esami e controesami composti da decine e decine di domande di cui in genere più dei due terzi, a voler essere prudenti, appaiono ictu oculi del tutto inutili.
[10] Sebbene il codice non lo prescriva espressamente, l’opposizione andrebbe sollevata soltanto annunciandola (dicendo cioè “mi oppongo”, “opposizione”, ecc., o alzando semplicemente la mano), senza minimamente esplicitarla. Esplicitare un’opposizione, infatti, in presenza del testimone che sta deponendo, rischia di influenzarlo o di metterlo sull’avviso, nel primo caso a favore, nel secondo a danno dell’opponente. Del resto, non c’è affatto bisogno di illustrare le ragioni dell’opposizione, dato che questa può essere accolta solo se rivolta contro una domanda che non rispetti i criteri di pertinenza e di ammissibilità stabiliti dalla legge, che il decidente ben conosce. Un’opposizione, invero, dovrebbe essere illustrata nel merito solo se il giudice, non cogliendone immediatamente i profili, autorizzasse espressamente l’opponente a farlo. In tal caso, buona norma vorrebbe che facesse anche avvicinare al banco le parti, perché si esprimano, in modo che il testimone non possa sentire tale dialogo.
[11] Il collega Luca Ponzoni, del Foro di Milano, cit., lo esemplifica con il seguente aneddoto: un fraticello chiede al Padre Superiore: “Padre, è consentito fumare mentre si sta pregando?” “Assolutamente no, non si possono introdurre distrazioni durante il dialogo con Nostro Signore”. Un altro fraticello, in un altro convento, si rivolge invece così al suo Superiore: “Padre, è consentito pregare mentre si sta fumando?” “Ma certo figliuolo, qualunque cosa si stia facendo è sempre bene tenere aperto il dialogo con Nostro Signore”.
[12] La regola, del resto, è posta dallo stesso codice, il quale stabilisce che il testimone è esaminato “su fatti specifici” (art. 499, comma 1, c.p.p.).
[13] Nel nostro codice di procedura manca un’esplicita limitazione del controesame alle sole circostanze oggetto di esame diretto, anche se – per la stessa funzione dell’istituto – parrebbero da escludersi domande su fatti completamente avulsi dal contesto sviluppato dall’esame (cfr., Frigo, Esame diretto e controesame dei testimoni, in Commento al nuovo codice di procedura penale, 249 e s.). La regola in parola è espressamente posta, invece, nell’ordinamento statunitense. Si sa bene, tuttavia, che l’orientamento della prassi, da parte dei giudici italiani, è proprio nel senso della regola “americana”.
[14] I fatti rilevanti sono indicati appunto dal codice. Tanto l’esame che, soprattutto il controesame, possono riguardare infatti sia le circostanze oggetto del processo (a norma dell’art. 194 c.p.p., “Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova”, i quali sono, secondo l’art. 187 c.p.p., quelli che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza), sia l’attendibilità intrinseca del dichiarante (“L’esame” – prosegue lo stesso articolo 194 – “può estendersi… alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutarne la credibilità”).
[15] Cfr. Cass. pen, sez. IV, 6 febbraio 2020, n. 15331. Questa pronuncia è assai importante perché afferma, per la prima volta, che il divieto di porre domande suggestive durante l’esame diretto valga anche per il giudice (l’indirizzo del tutto prevalente, invece, afferma il contrario).
[16] Dispone infatti l’art. 207 c.p.p. che “Se nel corso dell’esame un testimone rende dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite, il presidente o il giudice glielo fa rilevare rinnovandogli, se del caso, l’avvertimento previsto dall’articolo 497 comma 2. Allo stesso avvertimento provvede se un testimone rifiuta di deporre fuori dei casi espressamente previsti dalla legge…”. Il memento rivolto al teste, impegnatosi a dire la verità, dunque, non solo può rivolgerlo solo il giudice, ma lo stesso giudice può farlo solo dopo la risposta resa dal teste, a condizione che questa risulti “contraddittoria”, “incompleta” o “contrastante con le prove già acquisite”, oppure – ovviamente – se il testimone violi alla radice l’obbligo di testimoniare, rifiutandosi di rispondere al di fuori dei casi in cui gli è consentito farlo.
[17] G. Carofiglio, L’arte del dubbio, p. 119, le distingue dalle domande suggestive vere e proprie, in questo modo: “le domande suggestive in senso stretto mirano a influenzare la risposta, secondo un meccanismo che potremmo definire di suggestione evocativa, mentre le domande guidanti, più che vere e proprie domande, sono dichiarazioni di fatto seguite da un punto interrogativo”. Ma, si badi: tale distinzione, per quanto così ben esposta, è solo strutturale, non di regime. Le domande guidanti, invero, non sono altro che una particolare forma di domande suggestive, e seguono pertanto le regole dettate per la formulazione di queste. Casomai, va detto che se le domande guidanti sono certamente e inequivocabilmente suggestive, altri tipi di domande invece, più articolate e sottili, possono porre il problema se considerarle suggestive o meno (ne abbiamo visto un esempio, nella nota 11, in cui si riesce ad evocare una risposta diversa a secondo che si ponga l’accento sull’azione di pregare o di fumare che si chiede sia consentita).
[18] Proprio le domande “a risposta multipla” fatte al buio, cui abbiamo accennato prima, sono tra quelle che ad esempio denotano in modo emblematico la mancanza di tecnica. Di solito sono infatti formulate proprio in sede di controesame, quasi a voler mostrare al giudice che non si vuole fare una domanda suggestiva – come se questa determinasse sconvenientemente delle risposte non pienamente genuine – dandosi invece al teste un’alternativa di scelta. Tali domande finiscono paradossalmente per essere delle domande doppiamente suggestive, offrendo all’interrogato la possibilità di rispondere in un modo o nel suo contrario, e così annullano però in partenza ogni speranza di una risposta favorevole, perché è proprio chi formula una simile domanda che suggerisce al testimone, oltre alla risposta che gli piacerebbe, anche quella che non vorrebbe ricevere. E, quasi inevitabilmente, sarà proprio quest’ultima che il teste gli darà.
[19] V. M. Stone, La cross examination, edizione italiana a cura di Amodio, Milano, 1990, 156: “Regola fondamentale è non procedere mai al controesame senza uno scopo chiaro e ben definito”.
[20] V. L. Ponzoni, cit.
[21] “Il fatto che sia “inutile” ex ante” – aggiunge efficacemente l’autore – “non garantisce affatto che non si riveli “dannoso” ex post, se non altro perché i giudici considerano, giustamente, molto prezioso il loro tempo: l’avvocato che ne provoca inutile dispendio è automaticamente destinato a perdere di credibilità”. Va inoltre considerato che facendo ripetere due volte al testimone la circostanza che va contro la posizione del nostro assistito non si fa altro che rafforzare maggiormente la tesi di accusa.
[22] In questo esempio si resta ancora sul “semplice” danno, e non si cade nel disastro vero e proprio, dacché era stata chiesta al teste una valutazione, e a norma dell’art. 194, comma 3, c.p.p., come si sa, “il testimone… non può… esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti”. Sicché, la risposta data dal teste non avrebbe potuto essere considerata una prova, per quanto non avrà di certo predisposto positivamente il giudice chiamato a decidere.
[23] Se già lo aveva detto, era invero inutile farglielo ripetere.
Dal 1993 al 1998 ha svolto le funzioni di Vice Pretore Onorario presso la Pretura di Palermo. Dal 1998 al 2007, oltre ad esercitare la professione di avvocato, ha insegnato diritto penale – per singoli temi – presso la Scuola di Perfezionamento delle discipline giuridiche dell’Università di Palermo, diretta dal Prof. Galasso.
Ha svolto le funzioni di relatore in diversi convegni, tra i quali, da ultimo quello organizzato dall’associazione Logos e Ius, e tenutosi a Palermo presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, il 23 ottobre 2019, dal titolo “La prescrizione non è una cura”, e quello tenutosi presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo il 29 marzo 2019, dal titolo “Tutela dei migranti e libertà fondamentali. Lo Stato di diritto e la vicenda Diciotti”.