12 luglio 2024

La II parte della relazione dell'Avv. Luigi Tramontano al convegno di Cp TP “Esame e controesame: quel che resta, se resta qualcosa, del codice Vassalli”

Il 05.07.2024 (link) abbiamo pubblicato la prima parte dell'intervento del collega e nostro socio, Avv. Luigi Tramontano, oggi completiamo la pubblicazione della relazione. 

4. L’oggetto del controesame. – Sia che si tratti di attaccare il merito della testimonianza oppure di aggredire la credibilità del testimone, il controesame va concentrato solo su circostanze strettamente connesse al capo d’accusa.

È questo l’aspetto invero più difficile da centrare, ossia la rilevanza del risultato che si intende conseguire con il controesame.

Il processo non è il luogo dove si giudicano le persone nella loro interezza, ma il luogo dove si giudica (solo) intorno a un fatto. Perciò, rimarrà irrilevante che un teste, ad esempio, risulti avere mentito su una circostanza che pure è emersa, ma che non c’entri nulla o non c’entri gran ché con il fatto da accertare. Né, ovviamente, rileverebbe fare emergere aspetti comunque disdicevoli della persona chiamata come testimone, che non siano in grado di influire minimamente sulla attendibilità del suo specifico racconto (ad es., una persona che abbia abbandonato il tetto coniugale, chiamato quale teste oculare di un omicidio).

Si accetti piuttosto che è tutt’al più obiettivo realistico di un controesame, anche se ben condotto, quello di riuscire ad alleggerire la portata di una circostanza sfavorevole emersa durante l’esame o di insinuare almeno un dubbio circa l’affidabilità del teste. È invero eccezionale il caso in cui, con un singolo controesame, si riesca a smontare del tutto l’ipotesi avversa, o a demolire in modo troncante l’attendibilità del teste contrario. Non si abbia quindi, come fine normale, questo solo obiettivo. La tesi avversaria, anche in parte (l’intensità del dolo, una circostanza aggravante, una modalità della condotta, ecc.) va contrastata, se ci si riesce, udienza dopo udienza, un teste dopo l’altro, controesame dopo controesame. È la somma dei controesami, in sostanza, che può condurre ad un esito favorevole (o meno sfavorevole) del giudizio, quasi mai basta un unico tocco di bacchetta magica, decisivo quanto miracoloso.

È per questo che, ad ogni controesame, l’attenzione va concentrata solo sui punti veramente rilevanti della imputazione (o delle imputazioni), senza invece incaponirsi su imprecisioni o incoerenze in cui il testimone possa farsi cadere, o su suoi discutibili aspetti personali, che siano tuttavia incapaci di svelare perché mai non gli si dovrebbe credere quanto al fatto principale da lui raccontato.

 

Supponiamo ad esempio che Tizio sia accusato di aver danneggiato l’autovettura di una vicina di casa con cui da anni era in contrasto, rigandole la fiancata con una chiave di metallo, e che la prova prodotta dall’accusa consista unicamente nella testimonianza oculare di una stretta amica della persona offesa, che afferma di avere visto dalla propria abitazione proprio l’imputato (a lei ben noto) commettere il detto atto illecito. Supponiamo ora di avere domandato a costei, in controesame, se nell’occorso avesse avvisato la polizia, e che la teste abbia risposto di non averlo fatto perché l’azione si era svolta in modo così rapido che la polizia sarebbe comunque potuta intervenire a cose fatte. Giustificazione all’evidenza tutt’altro che convincente, perché illogica (se invero la signora, come afferma, aveva subito riconosciuto l’autore del gesto delittuoso, quando che fosse giunta una pattuglia, avrebbe potuto ben fornire agli agenti tutti i dati che servivano per incastrarlo). Incaponirsi su tale, seppure inattendibile, spiegazione sarebbe tuttavia inutile, perché essa da sola non rivela perché mai, ad esempio, la teste, d’accordo con l’amica, avrebbe dovuto mentire sul fatto principale del processo, ossia quello di avere ella in effetti visto il danneggiamento di cui si dibatte.

 

5a. Controesame di un consulente. – Passiamo ora ad affrontare il tipo di controesame più ostico, ossia quello da rivolgere nei confronti di un consulente tecnico, o perito.

In questi casi, l’attenta preparazione delle domande è a maggior ragione fondamentale. Il teste è invero un esperto della materia, della quale noi, invece, di base non sappiamo nulla, e dunque ci si dovrà concentrare prevalentemente sulla stretta inferenza logica delle affermazioni da lui operate, ove eventualmente essa difetti, e non pretendere invece di poterlo colpire in errore sulla disciplina specifica oggetto della sua competenza (questo compito va infatti lasciato, eventualmente, a un nostro consulente).

Per screditare l’affidabilità del chiamato a deporre può magari tentarsi di evidenziarne, ove vi siano, la specifica impreparazione (ad esempio, perché esperto di una materia anche in parte diversa da quella coinvolta dal processo), oppure – eventualità però assai più rara – la potenziale mancanza di obiettività (per le cause più varie, al di fuori evidentemente di quelle che lo avrebbero reso di tutto principio incompatibile ad accettare l’incarico).

In ogni caso, ove non constino superficialità, omissioni o illogicità evidenti nella relazione redatta dal consulente (ed obbligatoriamente depositata in atti prima dell’udienza), è meglio non imbarcarsi nel controesame dello stesso, proprio per non rafforzare ulteriormente la tesi avversaria.

Un’omissione rilevante si era appunto registrata nell’esempio che segue.

 

Si procedeva per omicidio colposo stradale contro il conducente di un veicolo, cui l’accusa contestava che, seppure egli si fosse trovato davanti il pedone in circostanze imprevedibili (si trattava invero di una strada a scorrimento veloce, che non è consentito attraversare a piedi), non lo avrebbe comunque investito se avesse mantenuto una velocità entro i limiti di legge, perché in questo caso, dopo averlo avvistato, avrebbe avuto il tempo di evitarlo.

Nel corso dell’esame il consulente tecnico aveva appunto affermato – sulla base di complicatissimi calcoli – che l’imputato procedeva alla velocità di 81 km/h, superiore quindi ai 70 prescritti per quella strada, e che, considerato il tipo di anabbaglianti che montava il veicolo, aveva avvistato l’ostacolo imprevisto a 25 metri di distanza. Alla velocità da lui tenuta, però, non aveva avuto il necessario tempo di reazione, mentre se avesse osservato la velocità prescritta avrebbe avuto a disposizione “un tempo t” – ossia un tempo tecnico di reazione, spiegava – per effettuare una manovra di fortuna e scansarlo.

In controesame, il difensore dell’imputato cogliendo proprio il dato che nella relazione di consulenza non era quantificato detto ipotetico “tempo t” che il suo assistito, ove avesse mantenuto la velocità prescritta, avrebbe avuto per reagire all’ostacolo imprevisto, ne domanda al consulente:

 

C: avvocato, risulta per forza esservi un tempo t tra il momento in cui avviene l’avvistamento del pedone e il momento in cui avviene l’investimento dello stesso, e tale tempo è inversamente proporzionale alla velocità di andatura: ossia, tanto minore è tale velocità tanto maggiore sarà il tempo t di reazione all’ostacolo improvviso. È evidente, mi pare”.

Avv: “Bene, ma a quanto ammonta, nel caso specifico, questo tempo t?”, insiste il difensore.

C: “Ora non me lo ricordo esattamente… dovrei consultare la relazione di consulenza…”.

Avv.: “La consulti pure, ingegnere, ma non vi troverà niente. Quale fosse nel caso concreto questo tempo lei non l’ha indicato”.

C.: “Va bene, mi sarà sfuggito… ma non è importante il tempo in sé…”.

Avv.: “Probabilmente no, ma vediamo. Lei afferma che l’imputato, avendo avvistato a 25 metri l’ostacolo, dato che procedeva alla velocità di 81 km/h non ha avuto tempo sufficiente per reagire, evitandolo. È corretto?”.

C: “Si”. 

Avv.: “Bene, ora mi aiuti lei, ingegnere: in quanto tempo si percorrono 25 metri procedendo a 81 km/h?”

(Basta fare un’equivalenza, imparata alle scuole medie, perciò è una questione di inferenza logica, non di ingegneria stradale: se in 1h – ossia 60 minuti, e quindi 3.600 secondi – si fanno 81 km, ossia 81.000 metri, allora 25 metri si percorrono in [3.600 : x = 81.000 : 25; da cui 81.000x = 90.000; da cui x =] 1,111… sec.).

C: “Avrei bisogno di una calcolatrice per fare prima…”

Avv.: “Il giudice mi autorizza? Prego, ingegnere” (gli porge una calcolatrice)

C (eseguendo l’equivalenza): “In 1,111… secondi”.

Avv.: “Perfetto. Questo è un tempo t non sufficiente, abbiamo detto, per poter riuscire ad evitare un ostacolo?”

C: “No. Non lo è.”

Avv.: “E quanto tempo ci vuole per percorrere la stessa distanza, ma a 70 km/h?”.

C: (L’ingegnere esegue quest’altro calcolo e risponde): “Il tempo è 1,28… secondi”.

Avv.: “Ingegnere, dunque, la differenza tra i due risultati è pari a 0,17 sec.?”.

C.: “Si”.

Avv.: “Ossia, 17 centesimi di secondo?”.

C: “Esatto”.

Avv.: “Possiamo dunque dire che se il mio assistito, invece che a 81 Km/h fosse andato a 70 Km/h, avrebbe avuto 0,17 sec. in più, a disposizione, per evitare l’impatto?”.

C: “…possiamo dirlo”.

Avv.: “Ora, mi dica, ingegnere. Se un tempo di 1,11... sec. non è un tempo sufficiente per “reagire” ad un ostacolo imprevisto, può esserlo un tempo di 1,28… secondi? Ossia un tempo superiore al primo di soli 17 centesimi di secondo?”.

C: “Su due piedi, non me la sentirei di affermarlo, avvocato…”.

Avv.: “La ringrazio, non ho altre domande”.

 

Ora, è chiaro che se nello stesso caso appena visto la distanza di avvistamento del pedone fosse stata calcolata dal consulente in 30 metri, e la velocità tenuta dal conducente in 120 Km/h, pur dove il tecnico avesse mancato nella propria relazione di quantificare il “tempo t” di reazione, domandargli di procedervi in udienza sarebbe stato del tutto controproducente, perché il relativo calcolo avrebbe comunque restituito un valore di 0,9 sec. alla velocità di 120, e di ben 1,54 sec. se invece la velocità fosse stata mantenuta entro 70 Km/h; ossia, un tempo quasi doppio e senz’altro congruo, a differenza del primo, per poter eseguire una sterzata improvvisa ed evitare il pedone.

 

5b. Controesame del teste bugiardo. – Sulla base dell’attento studio delle carte del processo e di quanto altro abbiamo potuto raccogliere ex adverso, è essenziale cercare di stabilire prima se, con ogni probabilità, ci troveremo davanti un testimone che abbia deliberatamente mentito, oppure qualcuno che sia semplicemente incorso in errori di percezione in buona fede, perché l’approccio nei confronti dell’uno e dell’altro caso dovrà essere diverso.

Il controesame di un bugiardo è di certo quello che dà più soddisfazione al professionista che riesca a condurlo bene in porto, ma è anche quello assai più raro che capiti di riuscire a svolgere. Va anche detto che, contrariamente a quanto recita un luogo comune, le aule di giustizia non sono affatto affollate da sfilze di testimoni falsi, tale evento essendo invece (e per fortuna) eccezionale.

Ci si guardi comunque dalla convinzione di poter percepire un mentitore da “segni” esteriori che egli abbia manifestato durante l’esame – l’espressione del viso, specie della bocca, movimenti delle mani, modo di esprimersi, tono della voce, ecc. – la moderna psicologia avendo fatto da tempo giustizia di tale ulteriore luogo comune, sottolineando l’estrema difficoltà (se non la impossibilità) di riconoscere gli indizi dell’inganno, le c.d. stimmate del bugiardo[1].

Chi mente ha piuttosto sempre un interesse a farlo, non si mente senza un motivo. Questo interesse deve quindi apparirci prima e, se il caso, si dovrà cercarlo. Se non lo si trova, non si speri di poter riuscire a dimostrare che il teste sia un bugiardo.

Smascherare un bugiardo è comunque impresa tutt’altro che semplice, come dicevamo, soprattutto quando l’unico modo che si abbia per riuscirvi è che sia lo stesso mentitore a dover ammettere, davanti al giudice, di avere mentito.

Più semplice, ovviamente, è far constatare che la menzogna consegnata dal teste agli atti tale risulti dal confronto con altri elementi di prova già acquisiti al processo (o che si è certi di poter fare acquisire in un secondo tempo). Perciò, ci si può accontentare di rivolgere al testimone delle domande per rispondere alle quali egli non possa che mentire, cambiando poi rapidamente argomento così da non dargli la possibilità di ritornare sulla bugia ormai detta. Il risultato sarà ovviamente lo stesso.

Al riguardo è utile considerare che di solito un bugiardo volontario si prepara bene solo sul fulcro essenziale della sua menzogna, che è appunto ciò che lo preoccupa di più non venga scoperto. Interrogandolo quindi su dettagli di contorno, sui quali egli non avrà concentrato la sua attenzione, spesso si riesce ad ottenere che vada in confusione, rendendo nel corpo della stessa deposizione, o di più dichiarazioni, versioni contrastanti fra loro, dato che, non essendo effettivamente accadute le relative circostanze (e quindi non facendo parte della sua esperienza e della sua memoria), il teste dovrà ogni volta ricorrere all’immaginazione per rispondere.

Il che, va ribadito, non è ancora sufficiente se non si abbia poi modo di dedurre, da queste contraddizioni “di contorno”, che esse refluiscano direttamente sulla attendibilità del fatto principale narrato dal teste. 

Se abbiamo di fronte un bugiardo che invece mostri di saper ben resistere anche sui dettagli, conviene non insistere più di tanto e abbandonare subito questa via. La sua menzogna sarà considerata tanto più vera dal giudice quanto più lo avremo spremuto, senza riuscirci, in controesame.

Una tecnica assai efficace per smascherare un mentitore, per quanto difficilissima da esercitare, consiste nel portarlo gradualmente ad un certo punto (decisivo) del suo racconto, in modo che, stringendolo poi con la domanda finale, egli sia costretto a scegliere una delle due sole possibili risposte rimastegli, ciascuna delle quali, tuttavia, sarà idonea a screditarlo del tutto o quanto meno a ridurne grandemente la credibilità. 

Di seguito un esempio di tale modalità di conduzione.

 

 Il signor F, grosso imprenditore agricolo della zona, veniva indicato dal collaboratore di giustizia S quale capo del mandamento mafioso di San Quisquino (paese immaginario), un mandamento diverso da quello cui apparteneva il collaboratore, e, come spesso accade, senz’altra migliore indicazione di quali attività criminali quegli avesse mai svolto. Potendo contare su una particolarissima caratteristica fisica del proprio assistito, impossibile da non vedere da parte di chiunque lo avesse davvero mai incontrato, la difesa sceglie quindi di affrontare il controesame di S stringendolo esclusivamente sulla sua affermata conoscenza personale di F, innanzitutto facendogliela ribadire (in modo che non potesse poi più cambiarla in una conoscenza solo indiretta):

 

D: Signor S, lei al momento di prestare collaborazione con la Giustizia ha dichiarato che quanto ha riferito in ordine al mio assistito le constasse personalmente, non è vero?

R: Si.

D: Vuole dire che non lo ha appreso da altri che il mio assistito sarebbe il capo mandamento di San Quisquino?

R: No, lo so direttamente, per tante ragioni…

D: Bene. Quindi lei lo ha conosciuto il signor F? lo ha incontrato? Ha parlato con lui di affari di mafia?

R: Certo.

D: Mi dica S, come descriverebbe fisicamente il signor F?

R: Lei non lo sa com’è fatto il suo cliente, avvocato? (ride)

Presidente del Tribunale: Non faccia battute, S. Risponda alla domanda che le è stata fatta.

R: Che le devo dire, Presidente… normale. Corporatura normale, non tanto magro, capelli normali, non lunghi né tanto corti…

D: Altezza?

R: Altezza… normale… (mostra insofferenza)

D: Più o meno come lei, S?

R: Si… più o meno come me....

D: Lei quanto è alto, signor S?

R: Io? Mah… io sono alto uno e settanta, settantacinque, una cosa così...

D: La sorprenderebbe, S, se le dicessi che il signor F – come risulta agli atti del Pubblico Ministero dalla copia del suo documento di identità – è alto un metro e novantotto?

R:…

D: Giocava a pallacanestro, in gioventù, lo sapeva?

R:…

D: Andiamo avanti. Lei ha notato se il mio assistito mostra qualche aspetto particolare nella andatura?

R: … non mi ricordo… forse non l’ho mai visto camminare…

D: Non ha mai notato, quindi, che F non cammina bene, che in sostanza zoppica?

R: Ah certo, ora mi ricordo, camina accussì, un poco zuppichiando… giusto!.

D: Ma lei lo ha mai visto, signor S?

R: Certo che l’haiu vistu, avvocato, ora come ora non mi ricordavo stu fatto ca ogni tanto zuppichia…

D: Signor S, il mio assistito circa trent’anni fa ha avuto amputata mezza gamba, la destra, all’altezza del ginocchio. Quindi cammina con l’aiuto di una stampella. Il Tribunale lo ha visto, quando egli è stato presente nelle udienze precedenti. Lei non lo aveva mai notato questo particolare?

R: …

D: Signor S, lei ha mai incontrato di persona il mio assistito, o no?

R: Si che l’ho… No, avvocato. Forse non l’ho mai incontrato, forse no.

D: Ha dichiarato il contrario, all’atto di firmare l’atto di impegno della collaborazione.

R: Mi sarò sbagliato…

D: Su cosa si è sbagliato, S? Sul fatto di conoscere personalmente il mio assistito o sul fatto che fosse il capo mandamento di San Quisquino?

R: Scelga lei.

D: Ho terminato, Presidente.

 

            Il caso appena esposto appartiene ovviamente al genere di quelli assai rari. Normalmente, come già detto, un solo controesame non è mai decisivo. Ho scelto comunque di proporlo perché esso mostra bene su quali basi vada assunta la scelta di procedere al controesame di un mentitore, se si vuole avere una ragionevole probabilità che vada a bersaglio: nel caso citato, invero, il difensore aveva solidi elementi per ritenere che il collaboratore avesse al massimo un’idea assai vaga di chi fosse il suo assistito (conoscendolo probabilmente solo di fama), proprio perché ne aveva parlato in termini del tutto generici all’atto della propria collaborazione; poteva poi contare sul fatto che si trovava davanti un soggetto di bassa cultura ma di soverchia arroganza (dato il tipo di attività criminale cui si era dedicato tutta la vita), e quindi con una scarsa attitudine a rendersi facilmente conto di commettere certe enormità, o che altri le cogliessero; infine, tale persona poteva avere senz’altro interesse ad accusare eventualmente anche uno sconosciuto, dacché i benefici legati alla collaborazione non scattano se si indica come mafioso una persona che agli inquirenti già risulti tale: occorre quindi di norma fare nomi di “insospettabili”. È del resto proprio per questa ragione che il codice impone, come si sa, che la chiamata in correità, per assumere dignità di prova, deve essere accompagnata da riscontri esterni.

 

5c. Controesame del testimone che abbia commesso un errore di percezione. – Il controesame nei confronti di questo tipo di testimone va condotto non solo con il garbo e la gentilezza dovuti in ogni caso, ma anche senza mai dargli minimamente l’impressione che lo si ritenga inattendibile.

È infatti del tutto irragionevole aspettarsi che una persona, cui mostriamo che ne stiamo dubitando, sia pronta a mutare la versione che abbia appena reso “sotto giuramento”[2] nel corso dell’esame. Si ostinerà piuttosto a mantenerla, mostrandosi anzi risentito per la minima critica indirizzata al proprio racconto, prendendolo come un attacco rivolto alla sua onestà. Se attacchiamo un testimone del genere fin dalle prime battute, lo vedremo quindi immancabilmente irrigidirsi sulla sedia, pronto a resistere fermamente ad ogni tentativo di riconsiderazione di qualche dettaglio del suo racconto, sia pur minimo.

Se viceversa i modi dell’avvocato sono cortesi e concilianti, il testimone perderà rapidamente il timore nei suoi confronti, non lo percepirà più come un avversario da cui difendersi, e poco alla volta potrà essere eventualmente indotto a porre in discussione la propria deposizione, o alcuni punti di essa, con animo sereno ed obiettivo, senza preoccuparsi di non perdere il confronto. 

Per mostrarlo, vediamo innanzitutto un esempio sbagliato di conduzione del controesame in casi del genere, in cui gioca un ruolo controproducente proprio l’atteggiamento aggressivo del difensore, e il suo manifestare inutilmente al testimone che egli dubita di lui.

 

Si procedeva a carico di Tizio, imputato di aver rapinato l’anziana signora Caia subito dopo che ella aveva effettuato un prelievo al bancomat. Il rapinatore era stato ripreso solo parzialmente dalle telecamere di sorveglianza della banca, dato che indossava un passamontagna. Sulla base anche delle indicazioni della vittima, gli inquirenti avevano comunque stretto le indagini su una persona di nazionalità albanese, con diversi precedenti della stessa natura. Al dibattimento, il difensore dell’imputato contro esamina così la signora Caia:

 

D: Lei ha detto che non riconosce nel mio assistito qui presente colui che l’ha rapinata?

Caia: No, avvocato, io ho solo detto che non posso riconoscere le sembianze di nessuno, perché chi mi ha rapinato aveva un passamontagna che gli copriva il viso.

D: Beh, in sostanza, non lo riconosce.

Caia: Non posso riconoscerlo dal viso, questo ho detto.

D: Bene. Allora perché ha detto che, secondo lei, chi l’ha rapinata era un albanese?

Caia: Era certamente albanese, non secondo me.

D: Ma se lei non lo ha potuto vedere in faccia? Come fa a dire con tanta sicurezza che fosse proprio di nazionalità albanese?

Caia: perché mi ha detto “më jep lekët plakë e shëmtuar”.

D: E allora?

Caia: In albanese vuol dire precisamente “dammi i soldi brutta vecchia”.

D: E lei come fa a saperlo?

Caia: Sono nata a Piana degli Albanesi.

 

Vediamo ora invece un esempio di controesame perfettamente riuscito in questo ambito. Quello che scelgo è un caso che risale agli inizi del secolo scorso, tratto dalla letteratura americana, ma assai indicativo perché si basa proprio sull’effetto ingannevole per la memoria che può essere determinato (in un testimone in buona fede) dalla suggestione, auto prodotta o eteroindotta, o l’una e l’altra cosa insieme[3].

 

Si trattava di una causa di risarcimento – ma nei sistemi anglosassoni il processo civile dinanzi alla giuria si svolge nello stesso modo di quello penale – intentata dalla moglie di un professore universitario di filosofia, deceduto precipitando nella tromba dell’ascensore dell’edificio sede del College.

Se ne contestava la colpa all’addetto al movimento dell’ascensore (lift), dipendente dell’impresa costruttrice dell’impianto, dacché avrebbe fatto ripartire l’ascensore un attimo prima che il professore vi entrasse, senza chiudere prima il cancelletto di sicurezza al piano, sicché quest’ultimo non aveva potuto impedire che la vittima, proseguendo il proprio movimento verso l’ascensore, precipitasse invece nel vuoto. L’incolpato, al contrario, sosteneva che il professore si trovasse già dentro l’ascensore, che il mezzo fosse già arrivato al sesto piano, e che nell’attimo in cui stava risalendo, la vittima, ricordatasi all’improvviso che doveva scendere, aveva spinto il cancello uscendo dall’ascensore, e precipitando così nel vuoto.

Il processo, quindi, si incentrava sull’accertamento di un unico punto di fatto: il professore era caduto mentre tentava di salire nell’ascensore, o mentre cercava di scendere?

 

La parte attrice, come unico testimone oculare del fatto, aveva chiamato un medico, collega universitario del professore defunto. Nell’esame diretto costui aveva dichiarato che la vittima camminava dietro di lui nel corridoio del sesto piano, diretto verso il vano dell’ascensore, in quel momento aperto, che l’aveva visto scomparire là dentro e aveva udito il tonfo del suo corpo.

Tale medico aveva già reso una prima volta detta versione dei fatti, due giorni dopo l’incidente, allorché era stato esaminato (davanti al coroner, per così dire in istruttoria). Il punto saliente era che, in tale occasione, gli erano state rivolte esclusivamente domande suggestive, in questo modo:

 

D: Mentre camminava lungo il corridoio al sesto piano vide una persona, che poi risultò essere il prof. Caio, passarle accanto e dirigersi verso l’entrata dell’ascensore?

R: Si, signore.

D: E vide quest’uomo scomparire, una volta raggiunta l’entrata dell’ascensore?

R: Si, signore.

D: In quel momento, la porta del vano ascensore era aperta?

R: Si, signore.

D: E lei ha poi sentito il tonfo del corpo che si schiantava sul fondo del pozzo?

R: Si, signore.

 

La difesa del convenuto si trovava quindi a dover contrastare una evidente irregolarità dell’assunzione del teste, che tuttavia non poteva lamentare in punto di diritto (anche nel nostro ordinamento, il rivolgere domande suggestive in esame diretto al testimone, per quanto non ammesso, non rende inutilizzabile e meno che mai nullo l’esame stesso). Sceglie allora, opportunamente, di procedere al controesame per mostrare alla giuria l’inattendibilità di detta testimonianza, proprio perché indotta da domande suggestive e non spontanea.

 

Per farlo, escogita un brillante, quanto centrato, sistema. Visto che il teste era un medico, che egli sapeva si interessasse anche di psicologia e che tale materia che in quel particolare momento storico aveva acceso un grande interesse negli ambienti scientifici a causa della recentissima pubblicazione di un volume di studi sulla fallibilità della memoria di cui tutti gli addetti ai lavori parlavano, gli chiede di ricordare alcuni esperimenti citati in detto libro.

Il teste, sedotto da questa domanda che lo mette a proprio agio e gli fa quindi allentare le difese nei confronti del contro esaminatore, invita lui stesso l’avvocato a citargli qualche esempio, in ausilio alla propria memoria. Così il difensore gli cita un caso narrato in quel libro, leggendoglielo ostentatamente davanti. Il medico risponde che lo ricordava perfettamente. Allora il difensore gli narra un altro caso, e anche questo il testimone afferma di ricordarlo bene, aggiungendo lui stesso che si trattava proprio di uno di quelli raccontati in quel libro che lo aveva maggiormente colpito. Poi il difensore cita un ultimo caso, premettendo questa volta lui che si tratta ancora di un caso tratto dallo stesso libro, e il testimone risponde di nuovo di ricordarlo senz’altro. A questo punto il difensore affonda il colpo finale, domandandogli:       

 

Avv.: Si rende conto, dottore, che lei stesso è facilmente soggetto al potere della suggestione?

Teste: No, signore, non mi pare.

Avv.: Bene, vediamo: ora richiamo la sua attenzione sulla testimonianza, da lei resa nel corso dell’inchiesta, due giorni dopo il tragico incidente. Per sua comodità gliela leggerò (l’avvocato diede lettura della deposizione). Si accorge, vero, che queste domande, che per la prima volta le fecero dichiarare di aver effettivamente visto il professor Caio dirigersi verso l’ascensore appartengono proprio al tipo di domande definite suggestive ed esemplificate nel libro “Al banco dei testimoni”?

Teste: Potrebbe essere così, ma con ciò? Vorrebbe forse insinuare che io sto testimoniando il falso?

Avv.: Non intenzionalmente, no di certo. Intendo solo dire che lei è colui che viene conosciuto come testimone suggestionabile.

Teste: Lo provi!

Avv.: Volentieri. La sorprenderebbe sapere che dei tre esempi che ho apparentemente letto dal libro di Münsterberg e che lei ha affermato di ricordare perfettamente, solo il primo vi era realmente contenuto, mentre il secondo era vero solo per metà ed il terzo era addirittura inventato di sana pianta da me? Ecco, prenda il libro e controlli lei stesso (porgendo il volume al testimone).

Teste: (esitando e arrossendo): Avvocato, temo che lei mi stia facendo passare per uno sciocco.

Avv.: Non più di quanto possa accadere a ciascuno di noi quando commette degli errori in buona fede. Ma ora lasci che io le chieda, dottore – e non le farei questa domanda se non fossi convinto della sua onestà intellettuale – tenendo conto delle sue risposte e riconsiderando l’accaduto alla luce delle sue personali conoscenze scientifiche, può in realtà affermare di aver visto effettivamente il professore Caio avvicinarsi all’entrata dell’ascensore o anche di averlo visto proprio nell’attimo precedente alla sparizione del suo corpo nel condotto?

Teste: (dopo molta esitazione): No, temo di non poterlo affermare.

 

Va detto che in questa ricostruzione, secondo la definizione comunemente accettata dalla nostra giurisprudenza, almeno l’ultima domanda rivolta dal difensore dell’imputato sarebbe stata da considerarsi “nociva” (e dunque non consentita neanche in sede di controesame), perché appunto si basava esplicitamente su un presupposto affermato, ma falso: cioè che anche l’ultimo esperimento scientifico ripercorso dal difensore fosse narrato nel libro di Münsterberg.

Non è ammesso procedere in questo modo, perché se il fatto su cui si fonda la domanda è fallace, più che suggestionare il teste, lo si inganna.

Per agire in piena correttezza, il difensore avrebbe dovuto rivolgere la domanda in maniera leggermente diversa, assumendosi un minimo di rischio che l’esito non fosse quello sperato: ossia, come aveva fatto con riguardo al secondo esperimento citato, e quindi senza esplicitamente accennare che anche esso fosse contenuto nello stesso libro; magari, nel citargli il terzo esperimento, avrebbe anche potuto continuare a dare l’impressione visiva al testimone che lo stesse traendo proprio da quel volume, che manteneva quasi distrattamente in mano, domandandogli solo se ricordava che anche di quell’ultimo caso si narrasse nel libro in parola (per il secondo esperimento, come detto, era stato lo stesso teste ad anticipare che lo fosse).

Il caso proposto serve comunque a mostrare, plasticamente, il motivo per cui le domande suggestive non sono ammesse nel corso dell’esame diretto. Che è ciò che più rileva, qui, comprendere.

Simili domande produrrebbero infatti una prova non genuina, vale a dire una prova che non proviene in effetti dal testimone ma viene piuttosto interamente formata – “preconfezionata”, come si usa dire – da chi lo interroga. Non rileva per nulla che l’esaminante, come certamente è possibile, “ci abbia preso in pieno”, come pure si dice, ossia abbia azzeccato la verità; ciò che conta è che, in tal modo, la deposizione sarà in effetti dell’interrogante, non del testimone. Come accadeva, in sostanza, ai tempi dell’inquisizione.

 

A conclusione di tale (solo accennata) esposizione, una considerazione incidentale spero s’imponga all’evidenza: ossia l’impossibilità logica di pretendere che un esame o un controesame sia svolto dall’intelligenza artificiale, al posto dell’essere umano.

Una macchina, creata dall’uomo, per definizione non può mai sviluppare, infatti, capacità ulteriori rispetto a quelle del suo creatore. Ed allora, data l’infinita varietà di testimoni e di situazioni che si possono presentare in ogni processo, che impongono anche ai migliori difensori e pubblici ministeri che operano quotidianamente di arretrare o di mutare d’improvviso la direzione inizialmente intrapresa, oppure di cogliere al balzo un’occasione, di rimodulare continuamente l’atteggiamento nei confronti del deponente secondo l’alternanza emotiva delle sue risposte, e così via esemplificando, la domanda che mi assilla è come sia possibile credere davvero, in buona fede, che tale particolarissima attività intelligente possa essere svolta da un computer sulla base di un programma precostruito ma incapace – per postulato – di riprogrammarsi da solo in occasione di ogni variabile imprevista; come sia possibile crederlo, quindi, senza accettarsi in partenza che una simile macchina non potrebbe che replicare solo mediocremente l’attività in parola, abbassandone perciò notevolmente la qualità.    



[1] Cfr., ad es., Ekman, I volti della menzogna, trad. italiana di G. Noferi, Firenze, 1995, 61: “non c’è nessun segno della menzogna in sé, nessun gesto, nessuna espressione del viso o spasmo muscolare che in sé e per sé significhi che una persona sta mentendo”, ed è proprio per questo, rileva l’autore, che “la maggior parte delle menzogne va a segno” e che “pochi individui ottengono risultati superiori al caso quando giudicano la sincerità o la falsità di una persona”.

[2] Come si sa, il giuramento processuale è solo un giuramento “laico”, ossia un impegno a dire la verità, senza nascondere nulla, reso davanti alla Giustizia e agli uomini, e non davanti a Dio. Ai fini penali, ovviamente, non cambia nulla, perché violandolo si commette comunque falsa testimonianza.

[3] In Wellman, cit., 236 e ss.

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