26 luglio 2024

Viola il contraddittorio irrogare l'aumento per la recidiva contestata per un titolo di reato non collegato a quello per il quale è irrogata la condanna (Cass. pen. sez. V n. 26124/2024)

 



La Corte di appello di Palermo, Sezione II penale, in parziale riforma della decisione di primo grado resa dal Tribunale di Trapani, e in accoglimento dell'appello del P.G., ha rideterminato la pena nei confronti dell'imputato in senso peggiorativo e nella misura di 5 anni e 10 mesi di reclusione ed euro 2.466 di multa, ritenendo validamente contestata la recidiva.

Ricorre per la cassazione della sentenza di appello l'imputato deducendo, tra le altre critiche, che il titolo gravato è affetto da nullità poiché stravolge la contestazione e la regola processuale del chiesto/pronunciato e, in assenza della contestazione della recidiva con riferimento ai capi per i quali è intervenuta la condanna, irroga il correlativo aumento di pena.

Deduce al riguardo che la sentenza (di appello) impugnata è nulla nella parte in cui, in accoglimento dell'appello del P.G., ha riformato in senso peggiorativo la decisione del primo giudice, riconoscendo l'aumento per la recidiva sul rilievo che l'aggravante “… si applica indipendentemente dalla sua collocazione nell'ambito di una contestazione per la quale l'imputato sia stato assolto … ”.

Come risulta evidente dagli atti (si veda la sentenza del Tribunale), la recidiva è stata contestata al ricorrente solo per la contestazione del capo C), dalla quale egli è stato assolto (assoluzione che non è stata appellata dalla pubblica accusa: giudicato interno).

Dalla medesima sentenza del Tribunale emerge chiaramente che la contestazione della recidiva è stata elevata per il solo capo C): “con recidiva ex art. 99 c.p. specifica e reiterata carico di ciascuno” (degli imputati ai quali era originariamente contestato il delitto del capo C).

Il Capo IV del Libro VII del codice di procedura disciplina dettagliatamente le regole sulla modifica dell'imputazione, sanzionandone la violazione con la nullità della sentenza (art. 522 c.p.p.).

Aver ritenuto che la recidiva contestata al capo C (capo per il quale vi è stata assoluzione) operi per tutti gli altri capi di imputazione contestati al ricorrente costituisce una palese violazione della regola del chiesto/pronunciato.

L'ultra petita in cui è incorsa la corte territoriale è dunque evidente.

Il punto non è, come erroneamente motiva la sentenza di appello impugnata, la natura soggettiva della recidiva, ma il rispetto della regola sulla contestazione dell'aggravante, mai effettuata dal pubblico ministero prima della chiusura del dibattimento di primo grado con riferimento ai delitti contestati ai capi A) e B). Né può dirsi che si tratti di mero (errato) “confezionamento” dell'imputazione, perché la contestazione della recidiva si riferisce chiaramente al solo CAPO C) come dimostra il riferimento ad entrambi gli imputati di quel delitto (poi assolti), mentre i capi A) e B) sono stati elevati a carico del solo ricorrente, senza che la recidiva fosse contestata.

In sentenza (al link) la Corte di Cassazione, sez. V penale, n. 26124/2024 osserva che: "E' legittima la contestazione della recidiva in calce a più imputazioni, a condizione che i reati siano strettamente collegati tra loro, in quanto commessi in concorso formale o anche in concorso materiale, se realizzati nella stessa data e riconducibili alla stessa indole." (Sez. 2, n. 38714 del 12/09/2023, P.G. c. Pozzi Gionas, Rv. 285030, che richiama, in motivazione Sez. 3, n. 51070 del 07/06/2017, Ndyiae, Rv. 271880; Sez. 6, n. 5075 del 9/01./2014, Crucitti, Rv. 258046). 
La recidiva, infatti, proprio in quanto opera come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, in ossequio al principio del contraddittorio, in maniera puntuale e tale da consentire una valutazione di incremento della pericolosità ancorata a specifiche e circostanziate vicende, non potendosi diffondere in maniera osmotica ed ultrattiva, ossia al di là dei limiti di una specifica contestazione dalla quale, nel caso in esame, l'imputato era stato mandato assolto.
Peraltro, anche la giurisprudenza che consente la contestazione in riferimento a più imputazioni, con contestazione in calce, ha specificato che tale modalità di contestazione deve intendersi riferita a ciascuna delle imputazioni, salvo che si tratti di reati di indole diversa ovvero commessi in date diverse (Sez. 2, n. 22966 del 09/03/2021, Virgilio, Rv. 281456; Sez. 2, n. 56688 del 13/12/2017, Rv.272146; Sez. 2, n. 3662 del 21/01/2016, Prisco, Rv. 265782).
Pertanto, la sentenza impugnata va annulla senza rinvio" [...].

25 luglio 2024

NON e' condannabile l'imputato in caso di affidamento ad una regola giurisprudenziale il cui mutamento non era prevedibile


La sesta sezione della Corte ha annullato senza rinvio una sentenza nella parte in cui condannava l'imputato per il delitto di cui all'art. 615 ter c.p., giacché l'accesso al sistema informatico era stato operato in un contesto giurisprudenziale in cui non era ancora ritenuto reato. Infatti la Corte ha così osservato: 

<<il fatto contestato all'imputato che, al momento in cui fu commesso, non costituiva reato in ragione della regola fissata dalle Sezioni unite "Casani" nel 2011- cinque anni prima- ha assunto invece rilievo penale nel maggio del 2017, a seguito di un mutamento della giurisprudenza>>. Di talchè , <<l'imputato, al momento in cui i fatti furono commessi, poteva fare affidamento su una regola stabilizzata che escludeva la rilevanza penale della propria condotta e non vi erano concreti, specifici, "segnali" che inducessero a prevedere che, dopo cinque anni dalla sentenza "Casani", le Sezioni unite della Corte avrebbero in seguito attribuito a quella condotta rilievo penale, rivedendo in senso "peggiorativo" il precedente orientamento>>.  Ne segue che nel caso di specie non si può formulare <<un giudizio di colpevolezza- rimproverabilità soggettiva>>. (sentenza al link)

24 luglio 2024

Art. 73 DPR 309/90: il medesimo fatto storico può essere ascritto ai concorrenti con titolo diverso (SSUU n. 27727/2024)

 




Avevamo anticipato la questione (link).

Pubblichiamo ora la sentenza delle sezioni unite n. 27727/2024 (link) alle quali era stata rimessa la soluzione del seguente quesito "Se, in tema di concorso di persone nel reato di cessione di sostanze stupefacenti, il medesimo fatto storico possa essere ascritto a un concorrente a norma dell'art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e a un altro concorrente a norma dell'art. 73, comma 5, del medesimo d.P.R."

Con la sentenza  Gambacurta R. + altri, Relatore: V. Pezzella le sezioni unite  hanno dato al dubbio interpretativo. 

Pertanto il medesimo fatto storico può essere sussulto nella fattispecie punita dall'articolo 73 cit. per taluno dei concorrenti ed in quella del comma 5 del medesimo art. 73 per altri.

23 luglio 2024

Pianeta carcere: mai tanti detenuti in espiazione definitiva !

 

Le più recenti statistiche ministeriali sono impietose: al 30.06.2024 il numero di detenuti in espiazione definitiva è pari a 45.701. La serie storica, dal 1991 ad oggi, dimostra che dal giugno 2023 stabiliamo ogni semestre un nuovo "record". Ma soprattutto si tratta di una crescita costante. Infatti, se si eccettua la parentesi covid, che, tra il dicembre 2019 e il giugno 2020, abbatté il numero di condannati in detenzione di 6 mila unità, l'ultima flessione si registra tra il 30.06.2015 e il 31.12 del medesimo anno. Peraltro dal 30.06.2020 il ritmo dell'incremento  assume tassi crescenti, infatti negli ultimi 4 anni, il numero di condannati presenti è aumentato di 10.000 unità (serie storica detenuti al link).

Non crediamo che su questo andamento incida, almeno in maniera preponderante, la presenza di persone straniere.  Invero, per quanto dalle serie storica non si sia in grado di stabilire quale sia il numero delle persone straniere in espiazione definitiva, resta però fermo che sul dato complessivo di detenuti, gli stranieri costituiscono una percentuale inferiore al terzo e sostanzialmente decrescente (ad oggi il 31,25%, assai meno del 37,48% del dicembre 2007, dato tratto dall'ultimo rapporto dell'associazione Antigone)

All'aumento dei soggetti detenuti in espiazione si affianca quello, vorticoso, delle persone in carico all'UEPE. Se nel 2014 gli adulti in area penale esterna per misure erano 31.865, oggi questo numero è lievitato a 91.640 ( dati ministeriali al link)

Dunque al 31.12.2014 vi era un totale di 65.898 soggetti in esecuzione pena muraria ed extramuraria, invece, quasi 10 anni dopo, tale numero è pari a 137.341 (tenuto conto anche della messa alla prova, che in punto di diritto non è una pena). In sostanza si è assistito a più che ad un raddoppio dei soggetti in espiazione.

Ovviamente, i due dati afferiscono a risposte punitive non comparabili e tuttavia pongono un problema comune: conseguono ad un incremento significativo del numero di reati, soprattutto quelli gravi, o riflettono una crescente esigenza punitiva ?

Per tentare di rispondere bisogna avere conoscenze, anche non statistiche, che non possediamo, però può offrirsi un elemento di riflessione: tra il 31.12.2023 e il 30.06.2024 si è assistito ad un significativo incremento di soggetti in espiazione per pene detentive fino a cinque anni (da 18905 a 19753) e quindi per lo più "diversamente espiabili"(detenuti condannati per pena inflitta al 30.06.24) (detenuti per pena inflitta serie storica al 31.12.23) 



 


22 luglio 2024

❌Utilità: la nuova istanza Cartabia per chiedere la discussione orale del processo in appello❌

 



Nei giorni scorsi abbiamo dato notizia della entrata in vigore della regola Cartabia quanto ai termini per chiedere la discussione orale della causa in appello (link), termine che cambia rispetto a quello pandemico al quale ci eravamo abituati e che, ora, è di 15 giorni decorrenti dalla notifica del decreto di comparizione in appello.

Pubblichiamo di seguito un modello di istanza aggiornata, che rilanciamo nella sezione (link) dove è possibile trovare tutte le altre utilità.


Udienza: «Data udienza»

RGNR: «...»

RG. Giudicante: «Ruolo Generale»-«Anno Ruolo Generale»

Imputato: «Nome »

Parte civile: «Nome »


«Autorità giudiziaria»

«Sezione»

Presidente:

a mezzo PDAAP


Istanza di discussione orale

(ai sensi dell'art. 598 bis c.p.p.)


Signori Giudici della Corte / Signor Giudice del Tribunale,


con inerenza al procedimento indicato in epigrafe nel quale assisto il/la Signor/a «Nome» (solo se parte civile: nel processo a carico dell'imputato «Nome») e per l’udienza del «Data udienza», «Orario»

premesso

  • che in data …, a mezzo pec, è stato notificato il decreto di citazione per l'udienza innanzi al giudice di appello per il «Data udienza», «Orario»;

  • che è intenzione del sottoscritto difensore chiedere, nel termine previsto dal codice di procedura penale (15 dalla notifica suddetta), la discussione orale,

formulo istanza di discussione orale

della causa in udienza pubblica/camerale partecipata, ai sensi dell'art. 598 bis comma 2 c.p.p..

«Luogo»,«Data odierna»

Avv.

(firmato digitalmente)



19 luglio 2024

Reati permanenti e contestazione effettuata nella forma cd. "aperta" o a "consumazione in atto": oneri di discolpa e obblighi motivazionali

 





Nei reati permanenti in cui la contestazione sia effettuata nella forma cd. "aperta" o a "consumazione in atto", senza indicazione della data di cessazione della condotta illecita, la regola processuale secondo cui la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado non equivale a presunzione di colpevolezza fino a quella data, spettando all'accusa l'onere di fornire la prova a carico dell'imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all'indicato ultimo limite processuale e all'imputato l'onere di allegazione di eventuali fatti interruttivi della partecipazione al sodalizio (Sez. 2, n. 37104 del 13/06/2023). Inoltre, nella ipotesi di contestazione 'aperta' nel quale la sentenza non abbia precisato la cessazione della permanenza, la individuazione del momento della cessazione compete al giudice dell'esecuzione sulla base degli elementi emersi, in primo luogo, in sede cognitiva (Sez. 1, n. 21928 del 17/03/2022).

Abuso d'ufficio: per il prof. Manna era costituzionalmente e convenzionalmente doveroso riformarlo, piuttosto che abrogarlo.




I delitti contro la pubblica amministrazione sono stati interessati dall'ennesima riforma.

In particolare l'abrogazione dell'abuso d'ufficio ha suscitato vivaci dibattiti.

Abbiamo chiesto al riguardo il parere del Prof. Adelmo Manna.



1) Professore, in questi giorni, prima col decreto legge n. 92 e poi con l’approvazione in via definitiva del ddl 808 c.d. Nordio, abbiamo assistito ad una nuova rimodulazione dei delitti contro la pubblica amministrazione, prima di vedere i singoli cambiamenti, perché secondo Lei, almeno dal 1990, questa materia è così tormentata ?


La ragione non è di ardua individuazione, perché riguarda i rapporti, a livello penalistico, tra l’Individuo e l’Autorità, che possiedono anche un preciso referente a livello costituzionale nell’art. 97, in quanto i pubblici uffici devono essere organizzati in modo da assicurare il “buon andamento” e l’”imparzialità dell’amministrazione”.
Imparzialità e buon andamento costituiscono, quindi, i pilatri su cui costruire i delitti dei p.u. contro la p.A., in modo da assicurare entrambi tali due requisiti. Alla disposizione ricordata fa, dall’altro canto, da contraltare l’art. 54, comma 2, in base al quale i cittadini, cui sono affidate funzioni pubbliche, “hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore(…)”.  Se questi sono, dunque, i parametri a livello costituzionale cui configurare il settore dei delitti dei p.u. contro la p.A., ne consegue inevitabilmente come trattasi di un settore assai delicato e foriero di modifiche periodiche proprio perché non è facile trovare un punto di equilibrio tra i diritti del cittadino, da un lato, e gli interessi della pubblica Amministrazione, dall’altro.





2) Col decreto legge n. 92, il Governo ha introdotto, tra i delitti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione, quello di “Indebita destinazione di denaro o cose mobili”, si tratta di un ritorno al peculato per distrazione o della salvezza di una porzione del reato di abuso di ufficio ?



Probabilmente sono state presenti nella mente del legislatore entrambe le esigenze, ma l’una come conseguenza dell’altra, nel senso che, evidentemente, l’abolizione tout court del delitto di abuso d’ufficio anche per l’attuale Ministro della Giustizia, on. Carlo Nordio, potrebbe essere risultata, invero, eccessiva, nell’ottica sempre della tutela non solo della pubblica Amministrazione in generale, ma anche del patrimonio della p.A. medesima, cui infatti si riferiva anche una parte dell’abuso d’ufficio prima
della sua abrogazione, tanto è vero che era previsto come evento di danno o il “procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale”, ovvero “l’arrecare ad altri un danno ingiusto”. Certo, vedere “resuscitato”, seppure sotto mentite spoglie, il peculato per distrazione, che era stato abrogato con la riforma del 1990, che infatti aveva limitato la rilevanza penale del peculato, come attualmente anche avviene, alla sola condotta di appropriazione, lascia indubbiamente perplessi, perché non si tiene contro che proprio il concetto di “distrazione” era stato abolito, in quanto eccessivamente indeterminato, che, a ben considerare, è proprio uno degli addebiti che sono stati mossi anche alla fattispecie di abuso d’ufficio, considerata alquanto evanescente.


3. Professore, al di là del merito della riforma, condivide l’uso del decreto legge per introdurre ipotesi di reato ?

Trattasi di un problema assai risalente, in quanto già il compianto Franco Bricola (già nella voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. It., XIX, 1973, 7 ss. e quivi 41; nonché Art. 25, 2° e 3° comma, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Art. 24-26, Rapporti civili, Bologna, 1981, 227 ss. e quivi 248; e già in Id, Legalità e crisi: l’art. 25, commi 2° e 3°, della Costituzione rivisitato alla fine degli anni ’70, in Quest. Crim., 1980, 179 ss., nonché in Id., Scritti di diritto penale, I, tomo 2, Milano, 1997, 1273 ss.) aveva sostenuto una tesi assai radicale, ma profondamente rispettosa della legalità penale, affermando, peraltro non a torto, che proprio le caratteristiche della legge penale, che incide sulla libertà personale dei cittadini, dovrebbe comportare l’obbligo per il legislatore di utilizzare sempre la legge in senso formale e non già il decreto legge, perché, anche se convertito in legge dal Parlamento, costituisce sempre una “espropriazione” originaria della potestà legislativa da parte del Governo, per di più in una materia così delicata e che incide su di un bene così elevato fra la gerarchia degli interessi protetti da parte della Carta costituzionale, come, appunto, la libertà personale, per cui la legge penale nonpotrebbe che essere emanata, in definitiva, soltanto dal Parlamento. Orbene, stabilito ciò in linea generale ed astratta, ci rendiamo però conto che tale tesi non è stata poi seguita dalla maggioranza della dottrina e della giurisprudenza, per cui dobbiamo inevitabilmente, come suol dirsi, scendere dal cielo dei principi alle caratteristiche del caso concreto, ove però anche nel caso che qui ci occupa diventa estremamente
problematico individuare quei “casi di assoluta necessità e urgenza”, richiesti dalla Carta costituzionale per legittimare l’intervento legislativo del Governo tramite, appunto, il decreto legge. E’ pur vero che nel titolo del decreto legge in analisi si fa riferimento, ovviamente, alle “misure urgenti in materia penitenziaria”, evidentemente con riferimento all’oramai eccessivo numero di suicidi in carcere, ma nel caso che qui ci occupa il nuovo delitto denominato “Indebita destinazione di denaro o cose mobili” non sembra proprio rivestire quel carattere di necessità e urgenza che dovrebbe legittimare l’intervento in un settore, tra l’altro così nevralgico, come quello dei delitti dei p.u. contro la p.A.. Le perplessità, quindi, riguardanti l’uso del decreto legge in materia penale, sono sia di carattere generale, in chiave garantista, sia anche in rapporto al caso concreto, per le ragioni che abbiamo sinora esposto.


4) Il ddl Nordio, approvato in via definitiva dal Parlamento, ha abrogato l’art. 323 c.p., a suo avviso si tratta di una riforma necessaria per consentire una più agevole attività della pubblica amministrazione, paralizzata da un reato connotato da un forte squilibrio tra il numero di iscrizioni e quello delle condanne, oppure si tratta di un intervento inutile, perché finirà per creare vuoti di tutela, in cui si innesteranno incontrollate esegesi creative della giurisprudenza?


Naturalmente l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio ha suscitato voci favorevoli e voci contrarie (fra i favorevoli Spangher, E’ stato definitivamente approvato il ddl Nordio, in Iuspenale, (Il penalista), 15.7.2024; nonché, seppure parzialmente, D’Avirro, Indebita destinazione di denaro o di altra cosa mobile: la parziale rinascita dell’abuso d’ufficio, in ibid, 11.7.2024; fra i contrari il presidente dell’ANM cons. Santalucia, in Il Dubbio, 17.7.2024, in risposta a Spangher, nonché, in particolare, Gatta, Morte dell’abuso d’ufficio. Recupero in zona Cesarini del ‘peculato per distrazione’, (art. 314-bis) e obblighi (non pienamente soddisfatti) di attuazione della Direttiva UE 2017/1371, in Sistema penale, 10 luglio 2024, e, da ultimo, Donini, Abrogare i reati per isolare problemi del processo. Dal falso in bilancio all’abuso d’ufficio, in ibid, 15 luglio 2024). A nostro avviso la questione non può essere risolta adeguatamente soltanto sotto questo profilo, ma va maggiormente approfondita. In primo luogo non va dimenticato che sussistono oltre 3300 condanne passate in giudicato, che con l’abolitio criminis rischierebbero di finire nel nulla, anche se si potrebbe di contro sostenere che trattasi di un fenomeno anche di tipo successorio, con riferimento all’introduzione del nuovo reato di “indebita destinazione di denaro o cose mobili”, che non costituisce altro che una reviviscenza del peculato per distrazione, che era stato abolito con la riforma del 1990 e che ora “risorge” dalle ceneri evidentemente per tentare di colmare la lacuna derivante dall’abolizione dell’abuso di danno patrimoniale (in argomento, in senso giustamente critico, cfr. anche Micheletti, La “distrazione” gioca brutti scherzi sulle ricadute intertemporali del nuovo art. 314 bis c.p., in disCrimen, 8 luglio 2024). Volendo ora ritornare all’abuso d’ufficio, è risaputo che costituisce una fattispecie che ha conosciuto diverse “stagioni”, dall’abuso innominato come norma residuale nel c.p. del ’30, alla riforma del ’90, con la distinzione fra abuso con finalità patrimoniali e abuso con finalità non patrimoniali a cui è succeduta la riforma del 1997, che ha aggiunto un dolo particolarmente carico, il c.d. dolo intenzionale. In conclusione, l’ultima formulazione della norma in analisi risulta la seguente: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità (ex art. 23 d.l. 16.7.2020 n. 76, conv. nella l. 11.9.2020 n. 120) ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni”. Come può agevolmente evidenziarsi anche ad una prima lettura la fattispecie che da ultimo risulta da tutte queste “stratificazioni” legislative non è certo di facile interpretazione e, quindi, di applicazione e ciò, ovviamente, dimostra il forte squilibrio tra il numero delle iscrizioni al registro degli indagati e quello relativo alle condanne, cioè una rilevante “cifra oscura”. Sarebbe, tuttavia, riduttivo spiegare l’abolitio criminis, seppur parziale, solo secondo quest’ultima prospettiva, né può costituire un argomento giuridicamente valido quello soprattutto espresso da un numero notevole di sindaci che hanno manifestato la c.d. paura della firma, perché trattasi non solo di un argomento di carattere politico, che ha consentito l’approvazione della riforma anche con il voto adesivo dei partiti di centro, ma che soprattutto giuridicamente non convince perché allora seguendo questa prospettiva bisognerebbe giungere a una responsabilità esclusivamente civile e non penale anche in rapporto ai medici, onde evitare la c.d. medicina difensiva, ma se seguisse quest’ultima strada il legislatore, di cui pure ha ufficialmente parlato l’attuale ministro della Sanità, rischierebbe di indebolire fortemente la tutela della vita e dell’integrità fisica dei malati che si sottopongono ad interventi del personale sanitario. A nostro avviso, quindi, la prospettiva abolizionista adottata dal legislatore è per molti profili assolutamente non condivisibile per cui siamo dell’avviso che sarebbe stato decisamente preferibile una riforma del delitto di abuso d’ufficio soprattutto se si tiene conto degli importanti risultati della Commissione Morbidelli, istituita nel lontano febbraio del 1996 dall’allora Ministro della giustizia, dott.Vincenzo Caianiello (sia consentito, in argomento, il rinvio a Manna, Abuso d’ufficio
e conflitto d’interessi nel sistema penale, Torino, 2004, spec. 27 ss.). Dai lavori di detta Commissione emerge un dato assolutamente imprescindibile, e cioè che l’abuso d’ufficio contiene in sé tre fattispecie distinte: in primo luogo la “prevaricazione”, che costituisce il modello ottocentesco e con il quale si incrimina soprattutto l’abuso delle forze dell’ordine, come anche di recente è avvenuto in quel caso in cui uno di essi aveva fermato due ragazze straniere chiedendo loro i documenti; esse glieli avevano consegnati e quando stavano andando via perché avevano capito le intenzioni dell’uomo, costui le ha indebitamente trattenute ritenendo che dovessero aspettare l’automobile di servizio perché fossero controllati anche elettronicamente tali documenti. Trattavasi evidentemente di una scusa non solo perché i documenti erano validi ma perché era un modo per approcciare le ragazze e per questa ragione il p.u. è stato condannato per abuso d’ufficio. La seconda fattispecie è quella relativa allo “sfruttamento privato dell’ufficio” che riguarda la classica ipotesi in cui il docente universitario, che ha una relazione consenziente con una studentessa, le fa superare l’esame anche se non è preparata. Purtroppo lo sfruttamento privato dell’ufficio potrebbe riguardare anche concorsi universitari ove concorrono anche abilitati alla seconda o addirittura alla prima fascia di docenza ove regolarmente prevale il concorrente locale, ma ora proprio con l’abolizione dell’abuso d’ufficio ancor più ci si vedrà costretti a ricorrere al TAR che in genere non decide nel merito se non dopo circa tre anni. La terza ipotesi riguarda il “favoritismo affaristico” che potrebbe essere in un certo senso recuperato attraverso la riemersione del c.d. peculato per distrazione. Onde cercare di ottenere una reductio ad unum di tali tre fattispecie criminose, sarebbe stato, a nostro avviso, utile una comparazione col delitto di “infedeltà patrimoniale” inserito nel 2002 nell’ambito dei reati societari. Sia l’abuso di ufficio infatti che l’infedeltà patrimoniale si caratterizzano per la situazione
di conflitto di interessi che a nostro avviso non dovrebbe essere qualificata solo in chiave omissiva ma caratterizzare l’abuso anche a livello di condotta attiva, a cui dovrebbe poi seguire, con relativo nesso causale, l’evento di danno patrimoniale, oppure non patrimoniale. Una fattispecie di tal fatta, in conclusione sarebbe stata la soluzione migliore per una tutela penale anche in chiave costituzionale, ex art. 97, nonché in chiave convenzionale, con riguardo in particolare alla Convenzione di Merida ed alla Direttiva comunitaria in materia, anziché un’abolizione tout court dell’abuso d’ufficio che rischierà, però, di suscitare una ennesima forma di giurisprudenza c.d. giuscreativa, che tenderà infatti, per colmare i vuoti di tutela,ovviamente, di non accontentarsi del risorgere del peculato per distrazione, ma ovviamente si orienterà probabilmente ad estendere oltremodo i limiti delle fattispecie di corruzione, soprattutto con riferimento al concetto di “altra utilità”.


5) Il traffico di influenze illecite, introdotto dalla legge c.d. Severino del 2012 e poi modificato nel 2019 con la c.d. legge spazza-corrotti, conosce una nuova riforma, con cui si restringe la sua area di applicazione alle sole ipotesi di sfruttamento di relazioni esistenti e si innalza il limite minimo di pena. Che ne pensa ?


Anche in relazione a tali ipotesi criminose la prospettiva storica può essere di notevole ausilio. Non va infatti dimenticato che originariamente, nel codice penale del 1930 esisteva solo la fattispecie di millantato credito, che sicuramente, per la sua conformazione, apparteneva alla categoria dei reati di frode. Con la riforma varata nel 2012 dall’allora Ministra della giustizia, prof.ssa Paola Severino, e con la c.d. legge spazza corrotti del 2019, si introdusse dapprima e poi si modificò la fattispecie di traffico di influenze illecite, che tuttavia inglobava in sé anche, a ben considerare, il millantato credito, tanto è vero che la condotta criminosa non si limitava allo sfruttamento, ma comprendeva anche il vantarsi di relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. In altri termini risultava evidente che, così come disciplinato, il traffico di influenze illecite ricomprendeva nel suo seno il millantato credito tanto è vero che fu abrogato dall’art. 1, lett. s), della l. 9 gennaio 2019 n. 3. Attualmente invece il legislatore di quest’ultima riforma ha di nuovo modificato il delitto di traffico di influenze illecite perché appunto viene ristretta la sua area di applicazione alle sole ipotesi di sfruttamento di relazioni esistenti e non, quindi, soltanto vantate. Tale modifica, però, a parte l’innalzamento del limite minimo di pena pone però un ulteriore problema, cioè quello dell’opportunità di far rivivere il millantato credito come reato di frode, giacché la parte fraudolenta è stata definitivamente santa dal traffico di influenze illecite. D’altro canto questo legislatore non è nuovo a far risorgere dalle ceneri fattispecie criminose già abolite, come dimostra il caso del peculato per distrazione e d’altro canto se non fosse reintrodotto il millantato credito si verificherebbe un nuovo vuoto di tutela proprio in rapporto a condotte assai pericolose come quelle, appunto, connotate dall’elemento fraudolento che infatti ha sempre caratterizzato il millantato credito finché è rimasto in vigore. In conclusione, dal decreto legge n. 92 del 2024, nonché dal d.d.l. n. 808 ormai definitivamente approvato sempre del 2024, abbiamo potuto verificare con mano l’esistenza di un legislatore fortemente discutibile che ha fortemente indebolito anche contro la normativa comunitaria rischiando così un procedimento d’infrazione per il nostro Paese un settore nevralgico del codice penale quale quello dei delitti dei p.u. contro la p.A.. D’altro canto, a nostro avviso, questa è l’ennesima riprova del c.d. populismo penale che si caratterizza, come suol dirsi, per essere “debole con i forti e forte con i deboli” (sia consentito, in argomento, il rinvio a Manna, Il diritto penale a “due velocità”, in Il diritto penale della globalizzazione, 2024, 131 ss.).

*) Adelmo MANNA:  Professore emerito di Diritto penale presso l'Università di Foggia e Avvocato cassazionista in Roma. 

 

18 luglio 2024

La Orlando si applica ancora? La questione alle SS.UU.


 Il prossimo 12 dicembre, le SS.UU. dirimeranno il contrasto, di cui avevamo dato conto (qui), in ordine all'applicabilità, per i reati commessi tra il 3 agosto 2017 ed il 31 dicembre 2020, della causa di sospensione della prescrizione introdotta dalla c.d. legge Orlando. (comunicazione del servizio novità Cassazione)

Pubblichiamo anche il provvedimento dell'Ufficio per l'esame preliminare dei ricorsi che ha segnalato, ex art. 610 c.p.p., alla Prima presidente la questione, al fine di rimetterla alle sezioni unite (provvedimento al link) 

L'interesse ad impugnare sussiste anche quando il reato é stato dichiarato prescritto se é allegata la pendenza del giudizio disciplinare per i medesimi fatti

 








L'imputato, un magistrato, ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, che, riformando quella del Tribunale, con cui era stato condannato per due reati di induzione indebita ex art. 319-quater, cod. pen., aveva riqualificato le condotte come reati di millantato credito, consumato e tentato, dichiarandone l’estinzione per prescrizione.

Il ricorrente deduce anzitutto di avere interesse ad impugnare, trovandosi tutt’ora sottoposto a procedimento disciplinare per gli stessi fatti oggetto del presente processo e, perciò, potendo a lui derivare, nell’àmbito di quel diverso giudizio, effetti deteriori dalla ricostruzione dei fatti contenuta in sentenza e che egli contesta.


Si legge in sentenza:

<<1. Va riconosciuto l’interesse ad impugnare dell’imputato. Proprio in tema di procedimento disciplinare dei magistrati, le Sezioni unite di questa Corte hanno statuito che l’accertamento dei fatti contenuto nella sentenza penale di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, pur non essendo vincolante, deve essere necessariamente valorizzato dal giudice disciplinare, quando le pronunce rese in sede penale siano giunte a conclusioni conformi in ordine alla prova delle condotte contestate all’Incolpato (Sez. U, n. 18923 del 05/07/2021, Rv. 661655). Da tanto consegue indiscutibilmente l’interesse dell’imputato, prosciolto per l’estinzione del reato contestatogli, a contestare il merito dell’accusa rivoltagli, nella prospettiva della possibile rilevanza di quei fatti nel giudizio disciplinare a suo carico.

2. Vanno tuttavia riaffermati, per altro verso, i limiti della cognizione del giudice penale in presenza di una causa di estinzione del reato: ovvero che l’assoluzione, a norma dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., può pronunciarsi soltanto nel caso in cui le circostanze idonee ad escludere la rilevanza penale della condotta emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione ictu oculi, che a quello di "apprezzamento" e sia, quindi, incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274)>>.

17 luglio 2024

Ricorso straordinario per cassazione: presupposti e limiti. Il caso D'Alí

 



<<.. l'errore materiale e l'errore di fatto, indicati dall'art. 625-bis cod. proc. pen. come motivi di possibile ricorso straordinario avverso provvedimenti della corte di cassazione, consistono, rispettivamente, il primo nella mancata rispondenza tra la volontà, correttamente formatasi, e la sua estrinsecazione grafica; il secondo  ... in una svista o in un equivoco incidenti sugli atti interni al giudizio di legittimità, il cui contenuto viene percepito in modo difforme da quello effettivo, sicché rimangono del tutto estranei all'area dell'errore di fatto - e sono, quindi, inoppugnabili - gli errori di valutazione e di giudizio dovuti ad una non corretta interpretazione degli atti del processo di cassazione, da assimilare agli errori di diritto conseguenti all'inesatta ricostruzione del significato delle norme sostanziali e processuali (cfr. per tutte, Sez. 5, n. 29240 del 01/06/2018 Rv. 273193 - 01); 

questa Corte ha, altresì, precisato nella motivazione della pronuncia Sez. U, Sentenza n. 16103, del 27/03/2002, Rv. 221283 - 01 che: 

1) - qualora la causa dell'errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio; 

2) - sono estranei all'ambito di applicazione dell'istituto gli errori di interpretazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, ovvero la supposta esistenza delle norme stesse o l'attribuzione ad esse di una inesatta portata, anche se dovuti ad ignoranza di indirizzi giurisprudenziali consolidati, nonché gli errori percettivi in cui sia incorso il giudice di merito, dovendosi questi ultimi far valere - anche se risoltisi in travisamento del fatto - soltanto nelle forme e nei limiti delle impugnazioni ordinarie (conf. Sez. un., 27 marzo 2002 n. 16104, De Lorenzo, non massimata).>>.

Corte di Cassazione Ord. Sez. 7 Num. 26347 Anno 2024 Presidente: ROMANO MICHELE Relatore: SESSA RENATA al link

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