31 luglio 2021

La Riforma del Processo penale - 6.2 la riforma delle Indagini Preliminari - Le risposte del pm, Maria Bambino (*)

Per la rubrica "La Riforma del Processo Penale", pubblichiamo l'intervento del pubblico ministero Maria Bambino relativo alla sezione "Indagini Preliminari" della riforma "fu" Bonafede.
La nuova rubrica sottopone alcune domande a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e ad un docente universitario.
Il piano completo dell'opera, incluse le modifiche e i commenti alla Riforma Cartabia, è consultabile sulla pagina dedicata di questo blog (link).







  1. Ritiene che la riforma dell’art. 125 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale  avrà un reale effetto deflattivo? 

La previsione della nuova regola di giudizio di cui all’art. 3 lett. a) del disegno di legge di riforma che impone al pubblico ministero di avanzare richiesta di archiviazione “quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari risultano insufficienti o contraddittori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio”, è chiaramente finalizzata alla necessità di limitare il numero di procedimenti in relazione ai quali l’organo dell’accusa deve esercitare l’azione penale, selezionando, all’esito della fase delle indagini preliminari, i soli procedimenti effettivamente meritevoli di essere sottoposti al vaglio dibattimentale.

L’approccio del legislatore della riforma appare però eminentemente nominalistico e infatti nella prassi degli uffici di procura le formule contemplate già ricorrono con frequenza nelle richieste di archiviazione avanzate al giudice per le indagini preliminari.

Esaurite le attività di indagine, la valutazione da parte del pubblico ministero degli elementi raccolti, implica necessariamente una lettura combinata della formula di cui all’art. 125 disp. att. c.p.p. (“il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”) e della formula contenuta nell’art. 425 c.p.p. (come modificato dalla legge 16.12.1999, n. 479), che ha in particolare introdotto nel comma 3 la previsione in forza della quale il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. 

Elemento di novità è quindi unicamente rappresentato dall’introduzione della necessità che il pubblico ministero proceda ad una valutazione in ordine “alla ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio”, non essendo più sufficiente la mera sostenibilità dell’ipotesi accusatoria nella fase processuale.

Si tratta a ben vedere di novità soltanto apparente. La previsione di accoglimento dell’ipotesi accusatoria invero si impone al pubblico ministero ai fini delle determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale anche sulla base del vigente assetto codicistico, posto che l’organo dell’accusa deve in ogni caso procedere tenendo conto della prospettiva che una eventuale sentenza di condanna potrà essere pronunciata all’esito del giudizio solo se l’imputato risulti colpevole del reato contestato al di là di ogni ragionevole dubbio ai sensi dell’art. 533 c.p.p.

La regola di giudizio da ultimo indicata presuppone – a codice di rito invariato – che il pubblico ministero acquisisca al proprio patrimonio conoscitivo ogni elemento relativo alla vicenda trattata, anche favorevole alla persona sottoposta a indagini, come peraltro imposto dall’art. 358 c.p.p. Nell’ipotesi in cui le indagini restituiscano elementi indicativi della non colpevolezza dell’indagato, dovrà necessariamente essere avanzata richiesta di archiviazione, proprio sul presupposto implicito che la prospettazione accusatoria non potrà trovare accoglimento nel successivo iter processuale.

Gli intenti della riforma sono condivisibili e devono essere valutati positivamente, anche se ritengo che la modifica oggetto di commento non potrà portare gli effetti deflattivi sperati. 

  1. Il disegno di legge rimodula i termini di durata delle indagini preliminari e prevede che, scaduto il termine delle stesse, il pubblico ministero, ove non abbia assunto una qualche determinazione entro termini specifici, dovrà procedere ad una discovery delle indagini compiute. Qual è il suo giudizio al riguardo? 

L’art. 3 lett. e) del disegno di legge di riforma ha introdotto l’obbligo in capo al pubblico ministero di notificare l’avviso del deposito della documentazione relativa alle indagini espletate e della facoltà di prenderne visione ed estrarne copia, decorsi i termini specificamente previsti. 

L’intento della riforma è quello di introdurre meccanismi procedurali che rendano più celere l’attività “definitoria” del pubblico ministero, ma non tiene conto dell’esistenza di un sistema di controllo sulla tempestività dell’operato degli uffici di procura, affidato alle procure generali e previsto dall’art. 412 c.p.p., ai sensi del quale “il procuratore generale presso la corte di appello, se il pubblico ministero non esercita l’azione penale o non richiede l'archiviazione nel termine previsto dall’articolo 407 comma 3 bis, dispone, con decreto motivato, l’avocazione delle indagini preliminari. Il procuratore generale svolge le indagini preliminari indispensabili e formula le sue richieste entro trenta giorni dal decreto di avocazione”, sistema che prevede l’adempimento periodico di specifici obblighi informativi da parte dei magistrati della procura per rendere effettivo il suddetto controllo.

Pur reputando essenziale garantire la rapida definizione della fase delle indagini preliminari a tutela sia delle persone sottoposte a indagini (in ragione dei riflessi negativi che la pendenza di un procedimento penale inevitabilmente produce in ambiti diversi da quelli strettamente legati alla contingente vicenda giudiziaria) sia delle persone offese dai reati, credo che la discovery anticipata prevista dalla riforma non sia uno strumento idoneo a tale scopo. Non è infatti prevista alcuna conseguenza procedurale in ipotesi di inosservanza da parte del pubblico ministero delle nuove prescrizioni.

L’introduzione dell’istituto in commento sarebbe stata più utile se accompagnata dal riconoscimento espresso in capo ai soggetti interessati di prerogative e facoltà analoghe a quelle previste dall’art. 415 bis c.p.p., anche nell’ottica di garantire un effettivo esercizio del diritto di difesa in una fase antecedente a quella della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini. 

  1. La lettera g) dell’art. 3 del disegno di legge prevede che l’inerzia del pubblico ministero per “negligenza inescusabile” costituisca illecito disciplinare, ma non è più armonico con gli intenti della riforma prevedere una forma di decadenza dall’azione? 

La riforma mira a introdurre un sistema sanzionatorio di carattere disciplinare a carico del pubblico ministero che ometta di procedere alla discovery nei termini indicati o che, dopo aver ritualmente notificato l’avviso di deposito, non presenti richiesta di archiviazione o non eserciti l’azione penale nel termine di trenta giorni dalla richiesta del difensore della persona sottoposta alle indagini o della parte offesa, nelle ipotesi di negligenza inescusabile.

In questo caso sembra che il legislatore persegua finalità di natura esclusivamente punitiva nei confronti dei rappresentanti dell’accusa, senza prevedere alcuna conseguenza di carattere processuale a fronte delle inerzie che vorrebbe contrastare, con la conseguenza che nessun effetto realmente positivo si produrrà sul singolo procedimento. È verosimile infatti che l’effetto deterrente della minaccia della sanzione disciplinare, che dovrebbe indurre i pubblici ministeri ad attivarsi per definire celermente il procedimento, sarà limitato, in quanto le condizioni di sovraccarico di lavoro in cui versano molti Uffici di procura difficilmente consentiranno di ravvisare nell’inerzia del pubblico ministero una situazione di negligenza inescusabile.

  1. La riforma rimette alle singole Procure l’individuazione di criteri di priorità “al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”, La giudica una riforma opportuna?

L’intento del legislatore è anche in questo caso da apprezzare, posto che il principio di obbligatorietà dell’azione penale risulta di fatto inoperante – in base a inevitabili scelte di priorità dei singoli magistrati fondate però su criteri non determinati né trasparenti – a fronte dell’elevatissimo numero di notizie di reato che quotidianamente ciascun pubblico ministero gestisce, soprattutto nell’ambito di uffici di piccole dimensioni, penalizzati da croniche scoperture di personale e da limitatissime risorse. 

Rimettere ai singoli procuratori, in sinergia con il procuratore generale e il presidente del tribunale e sulla base “delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”, l’individuazione dei criteri di priorità, se da un lato reca con sé il vantaggio della “prossimità territoriale” e quindi la conoscenza approfondita dei fenomeni criminali che più interessano una determinata area geografica, dall’altro potrebbe determinare disparità nel trattamento di notizie di reato omogenee, inevitabilmente conseguenti alla diversa sensibilità dei singoli capi degli uffici. Sarebbe pertanto a mio parere opportuna la elaborazione di linee guida a un livello sovraordinato rispetto a quello individuato dalla riforma che, al di là delle peculiarità delle diverse realtà territoriali, assicuri il rispetto del principio di uguaglianza, che lo stesso principio di obbligatorietà dell’azione penale è diretto a garantire.  



(*) Maria Bambino è sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo


Il vero problema del processo italiano: il tempo distante dall'accertamento dei fatti




Il Tribunale di Marsala, sentenza n. 1177/2021 al link, si confronta con diversi profili processuali di un certo rilievo e, in particolare:


- la natura della nullità del decreto di citazione diretta a giudizio conseguente all'omessa notifica dell'avviso ex art. 415 bis c.p.p. e, nello specifico, dell'omessa notifica all'imputato irreperibile e alloglotta di una copia del predetto avviso in una lingua nota all'imputato;


- la regolarità della notifica ex art. 159 c.p.p. dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari non tradotto in una lingua comprensibile all'imputato (irreperibile);


- l'utilizzabilità ex art. 512 c.p.p. di atti predibattimentali (sit e verbale di riconoscimento fotografico) in caso di morte della persona offesa e compatibilità con la CEDU della predetta disposizione normativa.


La sentenza al link


30 luglio 2021

Processo e riforma: l'intervento del professor Giorgio SPANGHER


Siamo onorati di ospitare il commento del Professor Giorgio Spangher sulla riforma del processo penale, della quale ormai da tempo ci stiamo occupando (link).


La giustizia penale è un fatto complessivo, in cui tutto deve tenersi: ipotesi incriminatrici, provvedimento di accertamento, sistema sanzionatorio.


Il processo è lo strumento con il quale si verifica se un fatto è avvenuto, se è riconducibile ad una ipotesi criminosa, se una persona lo ha o non lo ha commesso, e se è responsabile o no e quale è la sanzione applicabile.


Nell’affrontare il tema della riforma, sia in prospettiva ordinaria (Bonafede) sia in quella europea (Lattanzi e Cartabia), seppur con impostazioni diverse, il primo profilo, quello dell’elefantiasi del carico delle incriminazioni, è cresciuto in modo esponenziale ed in ordine ad esso non ci sono segnali di arretramento.

Conseguentemente, si è scaricato solo sul processo l’onere di affrontare i problemi di efficienza, con il rischio di attenuare le garanzie e prevedere doppi e tripli binari, regole, eccezioni e accezioni delle deroghe, con successione di interventi correttivi ed affestellamenti di previsioni, nonché espandersi dell’intervento giurisprudenziale.

Si è conseguentemente operato sugli altri due strumenti, integrandoli.


Il punto di forza della riforma è costituito dalla modifica del sistema sanzionatorio, facendo della pena pecuniaria e delle sanzioni sostitutive al carcere, l’elemento fondamentale.

Intangibili le entità sanzionatorie delle fattispecie incriminatrici, si sono ipotizzate alcune loro riscritture suscettibili di superare spesso la loro vocazione carcerocentrica.

Questo dato ha permesso di collegare il sistema sanzionatorio ai percorsi processuali ed in particolare alla loro premialità.

In altri termini, la logica del decongestionamento processuale, volano per l’accelerazione dei tempi processuali è stata individuata nelle ipotesi di anticipata exitstrategy che sono risultate notevolmente ampliate sia nel novero, sia nei contenuti, sia nelle soglie di accesso.


In breve sintesi, solo per profili essenziali, sono state così previste:

- ampliamento di prestazioni determinate da un ente accertatore;

- archiviazione meritata sul modello dei reati ambientali e di quelli sulla violazione della disciplina della sicurezza su posti di lavoro;

- le già riferite situazioni di particolare tenuità del fatto e di sospensione e messa alla prova;

- condotte riparatorie;

- sentenza inappellabile di non doversi procedere in caso di assenza dell’imputato;

- ampliamento delle condizioni per l’emissione del decreto penale di condanna;

- abbattimento della metà della pena nel patteggiamento ed esclusione delle ipotesi attualmente escluse;

- spostamento del rito abbreviato condizionato al dibattimento;

- eliminazione delle ipotesi attualmente escluse connesse al concordato in appello. 

 Il quadro è stato completato dalle regole di giudizio (archiviazione e sentenza di non luogo), fattuali e non prognostiche, dalla insussistenza dei presupposti per una condanna, dalla contrazione delle tutela civilistiche, a favore di una prospettiva di tutela della vittima, dalla decisione di improcedibilità in caso di soggetti irreperibili, da criteri di priorità nelle indagini, rendendo più trasparenti le previsioni.


Completano il panorama, teso ad una adesione della difesa alla premialità, la sospensione della prescrizione con la sentenza di primo grado e la ipotizzata tipizzazione dei motivi di appello, oltre al combinato ricorso al rito camerale ed alla cartolarizzazione.
    
La proposta, oltre all’irrisolto tema della prescrizione e dei successivi sviluppi del procedimento di impugnazione, ha ricevuto critiche, palesi ed occulte, fra le quali quelle relative al giudizio di appello, ai criteri di priorità, alla monocraticità del giudizio d’appello del rito monocratico, alle regole di giudizio, solo per segnalare quelle attorno alle quali si è  coagulato il maggio consenso.

Di tutto ciò, per evitare un consolidarsi e sommarsi di riserve e critiche ha tenuto conto il Ministro che doveva anche affrontare il tema – impegnativo, giuridicamente e politicamente – della prescrizione.

Concentrandosi sui riti, la linea emersa, anche in relazione al mutato impianto strutturale, condizionato dalla reintroduzione dell’appello, e della necessità di valutare i tempi processuali in relazione alla sospensione (cessazione) della prescrizione con la sentenza di primo grado, ha finito per indurre il Governo ad una riconsiderazione complessiva delle proposte Lattanzi.

Probabilmente, anche per le resistenze emerse – sotto traccia, come detto - ad una accentuata premialità, si sono ridimensionati gli accessi ai riti speciali, consegnando all’improcedibilità il controllo sui tempi ragionevoli del processo, dopo la cessazione del decorso della prescrizione. 


Così, sono state ridotte le soglie di accesso per la messa alla prova che ha incorporato l’archiviazione meritata, per effetto del riconoscimento al p.m. della possibilità di una iniziativa in tal senso; è ritornato nell’alveo della tradizione l’abbreviato condizionato, non più collocato in limine al dibattimento; non è stata riproposta né la premialità nei limiti della metà, ne l’esclusione delle attuali preclusioni per il rito abbreviato; si sono meglio calibrate le ipotesi di competenza del giudice monocratico.

Sono stati confermati i percorsi estintivi delle indagini preliminari e il concordato in appello senza preclusioni oggettive. Non è stata riproposta la riduzione della presenza degli interessi civili.

Si sono cercati compromessi virtuosi, di cui allo stato è difficile ipotizzare l’esito, soprattutto con riferimento alle new entry della improcedibilità, mentre si può dire che per i riti speciali a contenuto premiale è mancato un po’ di coraggio, ma come si dice, il meglio, a volte, è nemico del bene.


28 luglio 2021

Abrogazione della norma incriminatrice senza ‘abolizione’ del reato - di Mariangela Miceli






Da qualche giorno ci stiamo occupando dei peculato degli albergatori (link n. 1 e link n. 2). Come anticipato, torniamo a farlo con il contributo della collega Mariangela Miceli, socia di CP Trapani.


Il fenomeno della depenalizzazione rientra nella fattispecie dell’abolitio criminis, corollario del principio più generale del nullum crimen sine lege.

Attraverso la depenalizzazione il fatto non costituendo più reato è espunto dal sistema penale.

E’ bene precisare che la norma di depenalizzazione ha natura eterogenea, ovvero, si comporta come norma penale per quanto attiene l’abolizione del reato, mentre si atteggia a norma extrapenale per quanto attiene alla sanzione penale con quella civile e/o amministrativa.

Da quanto sopra esposto deriva che, come regola generale non sia possibile applicare la logica intertemporale di cui all’articolo 2, secondo comma, del codice penale proprio in virtù della natura eterogenea della depenalizzazione che ne impedirebbe qualsiasi rapporto di continuità tra d’illecito penale e quello amministrativo.

Deve essere però evidenziato che nel rispetto del principio di ragionevolezza e uguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3 della Costituzione per far operare retroattivamente la norma di cui all’illecito depenalizzato sia necessaria una norma ad hoc che ne preveda per espressamente l’applicabilità retroattiva.

Nel caso del decreto rilancio, infatti, è stata introdotta la depenalizzazione dell’omesso e/o ritardato pagamento dell’imposta di soggiorno da parte della struttura ricettiva, illecito prima punito ai sensi e per gli effetti dell’articolo 314 c.p..

La predetta riforma ha modificato la qualifica soggettiva dell’albergatore, nonché, ha previsto una sanzione più ‘blanda’, punendo il fatto con una sanzione amministrativa.

Orbene, proprio per chiarire questo punto è necessario far riferimento all’articolo 180, comma 3, del decreto rilancio, il quale ha espressamente previsto che l’albergatore non sia più agente contabile che procede la riscossione dell’imposta ma diventa “responsabile del pagamento dell'imposta”, con diritto di rivalsa sui soggetti passivi diventando, di fatto, un obbligato in solido.

Da questa impostazione normativa appare chiaro come venga meno la qualità di pubblico ufficiale e/o incaricato di pubblico servizio.

Ma se è vero che tra le caratteristiche peculiari di qualsivoglia ordinamento giuridico vi è la sua idoneità ad essere mutevole: mutano le esigenze dei consociati, mutano i valori comuni, muta il contesto economico e muta l’ordinamento. Altresì mutano i giudizi di disvalore; in tali casi, il legislatore interviene al fine di espungere dal catalogo dei reati quelle condotte che, alla luce del mutato contesto, non paiono più penalmente rilevanti, da qui il sopracitato fenomeno della depenalizzazione.

È su questi interventi che aleggia il principio di retroattività favorevole, implicitamente elevato a principio fondamentale dalla nostra Carta fondamentale ed esplicitamente riconosciuto quale principio generale del diritto comunitario dalla giurisprudenza della Corte EDU.

Invero, nel testo della Costituzione non si rinviene un esplicito riferimento al principio di retroattività favorevole, atteso che il secondo comma dell’art. 25 si limita a consacrare il solo principio di irretroattività sfavorevole, vietando dapprima al legislatore e in seguito all’autorità giudiziaria l’applicazione retroattiva di una norma penale modificativa in pejus, si essa relativa alla fattispecie di reato ovvero al trattamento sanzionatorio ad essa riservato, ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della medesima.

Cionondimeno, in seguito alla sentenza Scoppola c. Italia si è ritenuto che il principio de quo sia ricavabile dallo stesso art. 7 CEDU e che, pertanto, operi come norma interposta ai sensi dell’art. 117 Cost: è un principio che, sebbene relativo e derogabile, è connotato da garanzia costituzionale.

Da ultima, la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 40 del 2019, ha definitivamente riconosciuto il principio della retroattività favorevole altresì con riguardo alle sanzioni amministrative qualificabili come “punitive”, nel caso di specie relativamente alla sanzione pecuniaria conseguente all’illecito di market abuse di cui all’art. 187 T.U.F.

Come noto, la norma sulla quale si impernia la disciplina della successione delle leggi nel tempo è l’art. 2 c.p., la quale ricollega all’abrogazione totale dell’illecito penale una iper-retroattività favorevole della lex posterior, tale da travolgere, altresì, le sentenze divenute irrevocabili e i relativi effetti penali; al contrario, al comma quarto prevede che, in caso di mutatio, la lex posterior favorevole si applichi sì anche ai fatti posti in essere prima della sua entrata in vigore, ma con il limite rappresentato dall’intangibilità dei relativi giudicati.

Appare chiaro, quindi, come sia necessario chiarire la distinzione tra abolitio criminis e mutatio e come questa appaia fondamentale per statuire quale sia la disciplina applicabile nel caso in cui si verifichi il fenomeno della c.d. abrogatio sine abolitione.

In presenza di una abrogatio sine abolitione, quindi, il carattere dell’illiceità penale della fattispecie rimane immutato; ciononostante, se il legislatore simultaneamente introduce un’altra disposizione che assorba le fattispecie prima punibili e la disciplina così introdotta appare più favorevole, si applica il principio della retroattività favorevole “in senso debole”, cioè limitata ai fatti storici in relazione ai quali non sia ancora intervenuta una sentenza ovvero un decreto penale di condanna irrevocabili, con conseguente esclusione del ricorso al rimedio di cui all’art. 673 c.p.p.

L’abrogatio sine abolitione si verifica anzitutto allorché alla eliminazione di una disposizione, ovvero, di una sua parte si accompagni la riformulazione di una diversa ed ulteriore disposizione già esistente nell’ordinamento, al fine di ricondurre nell’alveo di quest’ultima anche le fattispecie criminose previste nella disposizione abrogata.

In secondo luogo, il fenomeno è ravvisabile qualora l’abrogazione di una disposizione ovvero di una sua parte contenente una lex specialis comporti la riespansione di una differente norma di carattere generale, che attira a sé le fattispecie criminose tipizzate nella disposizione abrogata. In tal caso si verifica una successione c.d. impropria, dal momento che la lex generalis non succede alla lex specialis sotto un profilo temporale, bensì acquista vigore e riespande il proprio campo applicativo proprio in seguito all’abrogazione della lex specialis per la perdita di rilevanza del criterio di prevalenza di cui all’art. 15 c.p.

Quanto esposto nell’ordinanza (al link) convince sotto il profilo di diritto sostanziale: la modifica del quadro extragiuridico di riferimento non fa venire meno il disvalore penale della condotta di colui che, in ragione del servizio svolto, si appropria di denaro pubblico, da qui la mancata abolitio criminis.

Tanto che la condotta continua a giustificare un diverso – e più severo – trattamento punitivo rispetto a quello dell’omesso versamento di somme potenzialmente private.

Mentre, il legislatore avrebbe potuto in una logica di ragionevolezza prevedere una norma speciale che qualifichi il fatto come illecito amministrativo poiché il fatto dell’omesso versamento da parte del gestore - che a seguito del “ decreto rilancio” è responsabile di imposta - non può essere considerato una sottospecie di peculato, diversamente argomentando ci si troverebbe in casi che non verrebbero disciplinati dalla norma generale (il peculato), rimanendo di fatto impuniti.

Ciò posto, le leggi di depenalizzazione, tuttavia, di solito prevedono - a mezzo di apposite discipline transitorie – l’applicabilità retroattiva delle sanzioni ai fatti commessi prima della loro entrata in vigore, ciò sul duplice presupposto che, da un lato, tali fatti erano già qualificati in termini di illiceità al momento della loro commissione, e che, dall’altro la sanzione penale all’epoca prevista era più grave di quella, di natura amministrativa, introdotta con la legge di depenalizzazione.

Per tale ragioni appena espresse, appare utile, infine, richiamare i principio di uguaglianza, non discriminazione e parità di trattamento che assume particolare rilievo tra i principi fondamentali ed accanto a questo, il principio di irretroattività che ha trovato esemplare applicazione nella sentenza n.63/2019 che ha esaminato la questione della legittimità costituzionale dell’art.6, comma secondo, del decreto legislativo n.72/2015. Tale disposizione conteneva una disposizione di diritto transitorio che escludeva la retroattività favorevole in relazione alla sanzione di cui all’art. 187 bis del decreto legislativo n.58/1998.

Se così è, per una vera applicazione degli artt.3 e 117 dell Costituzione, anche in ragione della mancata disposizione transitoria, sarebbe stato auspicabile una maggiore attenzione, nell’ottica di una ragionevole esigenza di tutela di controinteressi costituzionalmente garantiti valutare alla luce dei criteri Engel le conseguenze giuridiche di norme sostanzialmente penali.

In conclusione, nell’ottica della reasonable rule, ovvero, della scelta della soluzione più ragionevole in base alle leggi, ai valori e al sistema, l’esegesi di testi normativi equivoci esige una scelta tra significati configgenti.

E’ l’enunciato che esprime questa scelta ha necessariamente carattere decisorio (ascrittivo), non cognitivo (Riccardo Guastini, Interpretare e argomentare).

“La giurisprudenza non “crea” la legge ma “scopre il diritto”, attraverso un’opera di estrapolazione che ha un sapore speleologico”.

La golden rule si salda con la mischief rule (tradizionalmente riportata alla decisione resa dai Barons of the Exchequer nell’Heydidon’s case del 1584), che impone l’inserimento della singola disposizione nel corpus normativo alla stregua di part of large body of law. È necessario, a tale stregua, verificare la falla alla quale la sopravvenienza legislativa ha inteso porre rimedio e, soprattutto ricostruire il contesto in cui compaiono le parole da interpretare, anche alla luce dei lavori preparatori.




(*) Mariangela Miceli:
 Avvocato del Foro di Trapani. Già dottoranda di ricerca in diritto commerciale e docente a contratto presso l'Università di Roma Unitelma Sapienza. Autrice di pubblicazioni scientifiche.  Contributor per il blog Econopoly24 del Sole24ore

27 luglio 2021

Alle Sezioni Unite la questione del rimedio esperibile avverso la confisca incostituzionale


La prima sezione della Corte, rilevato un conflitto giurisprudenziale, ha rimesso al massimo consesso di legittimità il seguente quesito: «se, in tema di misure di prevenzione patrimoniale, ai fini della richiesta di applicazione degli effetti della pronuncia della Corte costituzionale 24 gennaio 2019, n. 24 a tutela della posizione dell'inciso, sia esperibile il rimedio della revocazione di cui all'art. 28 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 ovvero il rimedio dell'incidente di esecuzione di cui agli artt. 666 e 670 cod. proc. pen.» (ordinanza al link).

Nel caso di specie l'interessato, già inciso dalla confisca di prevenzione, disposta dal Tribunale di Monza, successivamente alla declaratoria di incostituzionalità  della categoria della pericolosità sociale disciplinata dall'art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011, aveva interposto, ex art. 28 d.lgs. cit., istanza di revoca della misura ablatoria innanzi alla Corte di appello di Brescia.

Sennonché i Giudici distrettuali hanno dichiarato l'inammissibilità dell'istanza, giacché la declaratoria di incostituzionalità dell'art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011, non integra una «nuova prova decisiva legittimante la proposizione di istanza di revocazione». Piuttosto il rimedio da esperirsi, ad avviso della Corte lombarda, deve ravvisarsi nell'incidente di esecuzione di cui agli artt. 666 e 670 cod. proc. pen.

Avverso la pronuncia testé veniva dispiegato gravame, per violazione dell'art. 28 cit.. Secondo il ricorrente infatti il ricorso alla revocazione si imponeva, non potendo farsi applicazione analogica nel procedimento di prevenzione dell'incidente di esecuzione.

La prima sezione della Corte di legittimità ha anzitutto rilevato che <<non è, invero, dubitabile che l'esigenza di bilanciare il valore costituzionale del giudicato e quello della libertà personale, a fronte di una sanzione penale dichiarata illegittima, deve estendersi anche alle misure di prevenzione, personale e patrimoniale, in ragione dei principi affermati nella sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019>>. 

Tuttavia, i Giudici nomofilattici hanno rilevato un conflitto <<sulle modalità con cui tale, imprescindibile, rivalutazione del compendio probatorio posto a fondamento dell'originario provvedimento ablatorio deve essere effettuata>>. 

Infatti, secondo un orientamento minoritario deve ritenersi esperibile l'incidente di esecuzione, disciplinato dal combinato disposto degli arti. 666 e 670 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 36582 del 28/10/2020, Iannuzzi, Rv. 280183-01). A favore di tale soluzione depongono una lettura complessiva dell'art. 28, nonché l' analogia con i poteri di intervento del Giudice dell'esecuzione in caso di declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice. 

A fronte di tale esegesi, l'arresto maggioritario ritiene che «in tema di misure di prevenzione, non sussiste la competenza del giudice dell'esecuzione a decidere sulla domanda di revoca del decreto definitivo con la quale si solleciti la verifica della permanenza della sua "base legale" in relazione all'inquadramento del sottoposto nella categoria di pericolosità generica di cui all'art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24 del 2019, trattandosi di domanda qualificabile come richiesta di revoca della misura, disciplinata, anche con riferimento alla competenza, dagli artt. 11, quanto alle misure di prevenzione personali, e 28, quanto a quelle patrimoniali, del citato d.lgs.» (Sez. 1, n. 27696 dell'01/04/2019, Immobiliare s.r.I., Rv. 275888-01).

A tale orientamento aderisce anche altra pronuncia non citata nell'ordinanza secondo cui <<non può riconoscersi l'applicabilità al settore tipico della prevenzione delle singole disposizioni procedimentali contenute nel codice di rito penale in tema di esecuzione, posto che il rinvio alle previsioni di cui all' art. 666 c.p.p. (in quanto compatibili) è dettato dal legislatore del codice antimafia per la fase della cognizione (art. 7, comma 9, Cod. Ant.) e non riguarda, pertanto, la fase esecutiva>>.  

Ciò posto, ad avviso di tale indirizzo <<tutte le esigenze di "rivalutazione" di una decisione definitiva emessa in sede di prevenzione , siano le stesse correlate alla emersione di elementi di fatto che ad eventi di natura normativa, debbano trovare sede ‘naturale' di verifica giurisdizionale nei procedimenti con vocazione revocatoria disciplinati nel medesimo d.lgs. n. 159/2011, rappresentati dalle procedure di cui all'art. 11 (nella ipotesi di misura esclusivamente personale) e art. 28 (lì dove venga in rilievo, anche in rapporto alla valutazione di pericolosità soggettiva operata in cognizione, la revocazione della confisca)>> (Cassazione penale sez. I, ud. 01/10/2020, dep. 01/12/2020, n.34027, non citata nell'ordinanza).

In altri termini, sia pure in via interpretativa, lo strumento cui far ricorso sarebbe quello della revocazione.

Rilevato il superiore contrasto, la prima sezione della Corte ha rimesso alle Sezioni Unite il quesito riportato nell'incipit.

25 luglio 2021

❌Attenzione❌ Prorogata al 31 dicembre 2021 la normativa pandemica - Il Decreto legge 105/2021 in G.U.

 


[Tutta la normativa pandemica, sul nostro blog, al link]

Nel Paese dove quel che è provvisorio è definitivo e quel che è definitivo è provvisorio, era nell’ordine delle cose che la normativa pandemica fosse prorogata.

Con il decreto legge n. 105 del 23.6.2021 all’articolo 1 è stato previsto che “lo stato di emergenza dichiarato con deliberazione del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, prorogato con deliberazioni del Consiglio dei ministri del 29 luglio 2020, 7 ottobre 2020, 13 gennaio 2021 e 21 aprile 2021, è ulteriormente prorogato fino al 31 dicembre 2021".

All’articolo 7, rubricato Misure urgenti in materia di processo civile e penale, il decreto legge cit. dispone che: 

    1. Le disposizioni di cui all’articolo 221, commi 3, 4, 5, 6, 7, 8, e 10 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, nonché le disposizioni di cui all’articolo 23, commi 2, 4, 6, 7, 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, 9, 9-bis, 10, e agli articoli 23-bis, commi da 1 a 4 e comma 7, e 24 del decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, come convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, continuano ad applicarsi fino alla data del 31 dicembre 2021.

Troverete il testo della legge 176/2020 al link.

Al comma secondo, l’articolo 7 del nuovo decreto legge n. 135/2021 ha previsto una deroga limitata nel tempo per i ricordi per cassazione: 

2. Le disposizioni di cui all’articolo 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, e all’articolo 23-bis, commi da 1 a 4 e comma 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137 non si applicano ai procedimenti per i quali l'udienza di trattazione è fissata tra il 1° agosto 2021 e il 30 settembre 2021.

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23 luglio 2021

Per le sezioni unite lo stalking seguito da omicidio integra un reato complesso

 

Avevamo dato conto dell'ordinanza di remissione alle SS.UU. del seguente quesito: 

"Se, in caso di concorso tra i fatti-reato di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell'art. 576, comma primo, n. 5,1, cod. pen., sussista un concorso di reati, ai sensi dell'art. 81 c.p., o un reato complesso, ai sensi dell'art. 84, comma 1, cod. pen., che assorba integralmente il disvalore della fattispecie di cui all'art. 612-bis cod. pen. ove realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall'agente ai danni della medesima persona offesa." (ordinanza al link).

Nel caso sottoposto allo scrutinio di legittimità, i Giudici territoriali, nell'affermare la responsabilità penale dell'imputata in relazione ai delitti di omicidio aggravato e di atti persecutori, avevano ritenuto la sussistenza di concorso di reati, richiamando espressamente l'orientamento giurisprudenziale che esclude il rapporto di specialità tra i due delitti contestati. 

Invero, un primo orientamento, espresso da Sez. 1, n. 20786 del 12/04/2019, P., Rv. 275481, ed espressamente richiamato dalla sentenza impugnata, ha affermato il principio secondo cui il delitto di atti persecutori non è assorbito da quello di omicidio aggravato ai sensi dell'art. 576, comma primo, n. 5.1, cod. pen., non sussistendo una relazione di specialità tra tali fattispecie di reato.

Sussiste nondimeno altro orientamento, che, in consapevole antitesi col precedente, ha invece affermato il principio secondo cui ricorre un concorso apparente di norme tra il delitto di atti persecutori e quello di omicidi aggravato ex art. 576, comma primo, n. 5.1, cod. pen., che deve considerarsi quale reato complesso ai sensi dell'art. 84, comma primo, cod. pen., assorbendo integralmente il disvalore della fattispecie di cui all'art. 612-bis cod. pen., ove l'omicidio sia realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall'agente ai danni della medesima persona offesa (Sez. 3, n. 30931 del 13/10/2020, G., Rv. 280101).

Secondo l'informazione provvisoria n. 13/2021, il massimo consesso di legittimità ha fornito la seguente soluzione: 

"La fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di quella di atti persecutori da parte dell'agente nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi degli artt. 575 e 576, comma primo, n. 5.1, cod. pen. punito con la pena edittale dell'ergastolo, integra un reato complesso, ai sensi dell'art. 84, comma primo, cod. pen., in ragione della unitarietà del fatto"(informazione  al link).

22 luglio 2021

La cultura dell'inammissibilità in Cassazione e non solo: interrogativi sugli esiti - di Daniele Livreri



Ci pare che, come un fiume carsico, il tema dell'inammissibilità dell'appello riemerga periodicamente. Dopo le Sezioni Unite Galtelli del 2016 (n. 8825/2017 al link), l'anno successivo si era cimentata la c.d. riforma Orlando, novellando l'art. 581 c.p.p.. Poi la legislazione emergenziale ha introdotto la possibilità di impugnare le sentenze da remoto, prevedendo speciali cause di inammissibilità, tra cui particolarmente significativa  pare quella della mancata sottoscrizione digitale “per conformità all’originale” dei documenti allegati all’atto di impugnazione.

Il tema dell'inammissibilità dell'atto di appello è più recentemente tornato all'attenzione in occasione dei lavori della c.d. commissione Lattanzi, la cui relazione finale proponeva di <<strutturare l’appello quale impugnazione a critica vincolata, prevedendo i motivi per i quali, a pena di inammissibilità, può essere proposto; prevedere l’inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato>>.

Per il momento il tema pare accantonato, ma è ben evidente che ormai esista una chiara "cultura dell'inammissibilità", secondo la fortunata espressione del Professore Oliviero Mazza, che tende a sconfinare dal giudizio di legittimità a quello di merito (da giudizio sul fatto a giudizio sull'atto).

Tuttavia, prima di estendere ulteriormente l'area della grave sanzione processuale all'appello, bisognerebbe interrogarsi su quali risultati ci abbiano consegnato gli ultimi vent'anni di cultura di inammissibilità in Cassazione.

Siamo sicuri che dietro una percentuale di ricorsi inammissibili, che da ultimo si è attestata al 71.6% delle impugnazioni, non si celi una dilatazione incontrollabile dello strumento sanzionatorio

Siamo sicuri che le cause di inammissibilità siano un quid conoscibile a priori dal ricorrente, lì dove durante l'anno da ultimo trascorso su 26.733 ricorsi inammissibili, ben 11.476 sono stati dichiarati tali da sezioni diverse dalla settima, con ciò lasciando intendere che gli spogliatori non avessero rilevato alcun vizio di inammissibilità.

Siamo sicuri che la violazione del principio di autosufficienza, siccome declinata dalla giurisprudenza di legittimità, abbia una solida base normativa

Siamo sicuri che le c.d. prove di resistenza di cui la cassazione onera , in relazione ai dedotti vizi di inutilizzabilità delle prove, i ricorrenti, onde schivare la sanzione processuale, non finiscano per trasfigurare il volto della Corte di legittimità ?

Siamo sicuri che tra fondatezza e manifesta infondatezza del ricorso vi siano chiare differenze

Siamo sicuri che nel nostro paese alberghi ancora una cultura giuridica, secondo cui l'impugnazione è una esplicitazione del diritto di difesa, che può essere compressa soltanto per casi eccezionali tassativamente indicati

NO, almeno di quest'ultima anafora direi che non possiamo essere sicuri.      

         

 


21 luglio 2021

Detenuto per altra causa: deve chiedere di partecipare all’udienza al giudice cautelare o è legittimo impedimento? La parola alle Sezioni Unite

 


Segnaliamo la pendenza della seguente questione innanzi le Sezioni Unite della Corte di Cassazione:

se la restrizione dell'imputato agli arresti domiciliari per altra causa, comunicata in udienza, integri comunque un'ipotesi di legittimo impedimento a comparire, così precludendo la celebrazione del giudizio in assenza, ovvero gravi sull'imputato il previo onere di richiedere la giudice che ha emesso il provvedimento cautelare l'autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per presenziare a detta udienza.

L'udienza è fissata per il 30 settembre 2021.

L'ordinanza della Sezione V che ha rimesso la questione alle SS.UU. al link



20 luglio 2021

📍Novità Corte Costituzionale: Patrocinio a spese dello Stato anche per il cittadino extracomunitario impossibilitato a presentare la certificazione consolare📍




PATROCINIO A SPESE DELLO STATO: IRRAGIONEVOLE ESCLUDERE IL CITTADINO EXTRA UE IMPOSSIBILITATO A PRESENTARE LA CERTIFICAZIONE CONSOLARE. BASTERÀ UNA DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA

Non è ragionevole, e contrasta con l’effettività del diritto di difesa, che il cittadino di un Paese non aderente all’Unione europea non abbia diritto al patrocinio a spese dello Stato soltanto perché si trova nell’impossibilità di produrre la certificazione dell’autorità consolare richiesta per i redditi prodotti all’estero.

È quanto ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 157 depositata oggi (redattrice Emanuela Navarretta), dichiarando illegittimo l’articolo 79, comma 2, del Dpr n. 115 del 2002, nella parte in cui non consente al cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea di dimostrare di aver fatto tutto il possibile, in base a correttezza e diligenza, per presentare la richiesta documentazione, e quindi di produrre una dichiarazione sostitutiva di tale documentazione.

L’intervento della Corte nasce da un procedimento nel quale due cittadini di nazionalità indiana avevano proposto opposizione al provvedimento di diniego del permesso di soggiorno per lavoro stagionale. I due ricorrenti si erano visti negare il beneficio del patrocinio a spese dello Stato in quanto l’Ambasciata e il Consolato indiano in Italia non avevano dato riscontro alla loro richiesta di certificare la mancanza di redditi all’estero.

Con la sentenza depositata oggi la Corte ha uniformato, sotto il profilo della certificazione dei redditi prodotti all’estero, la disciplina sul patrocinio a spese dello Stato nei processi civile, amministrativo, contabile e tributario a quanto richiesto dal principio di autoresponsabilità e a quanto già previsto per il processo penale, non essendoci, quanto all’aspetto citato, alcuna ragione per differenziarli.

Scarica la sentenza n. 157/2021 al link

  

Il peculato dell'albergatore: una questione ancora aperta

 


Su questo blog ci siamo già occupati dell'argomento (L’OMESSO VERSAMENTO DELLE IMPOSTE DI SOGGIORNO DOPO IL DECRETO RILANCIO. QUESTIONI DI DIRITTO INTERTEMPORALE) e torneremo a farlo nei prossimi giorni.

La questione, che affatica ormai la giurisprudenza italiana, è nei seguenti termini:

1) l'articolo 180 comma 3 del decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020, convertito il L. 77/2020) ha certamente depenalizzato le condotte di omesso e/o ritardato versamento consumate dal gestore di una struttura alberghiera e commesse in epoca successiva al 19 maggio 2020;

2) rimane invece incerto, in assenza di una normativa intertemporale, cosa ne sia delle condotte consumate in epoca antecedente al 19 maggio 2020: per esse il delitto di peculato non è più configurabile giusta abrogazione ex art 180 cit. oppure rimane la illiceità penale?

La novella legislativa, che non ha previsto alcuna disciplina intertemporale, è frutto di una scelta consapevole o di una "distrazione" del legislatore? 

Si ricorderà che la norma, introdotta dal Governo Conte II, fu oggetto di un'aspra polemica politica perché additata di essere legge ad personam per gli effetti che essa ha avuto nell'incidente di esecuzione proposto dal suocero dell'ex premier.

Certo è che l'interpretazione fornita da una parte della giurisprudenza di legittimità e dall'ordinanza che si allega, rischia di creare una palese disparità di trattamento tra condotte analoghe; disparità che non pare compatibile con gli obiettivi dichiarati dal legislatore della riforma (agevolare la ripresa del settore duramente colpito dalla crisi pandemica).

Nel prossimo futuro è auspicabile un intervento legislativo risolutivo oppure il coinvolgimento della Corte Costituzionale.

Riportiamo di seguito due memorie difensive depositate in un processo in corso di celebrazione innanzi al GUP di Trapani e l'ordinanza di quest'ultimo che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla difesa.

  1. Memoria difesa n. 1
  2. Memoria difesa n. 2
  3. Ordinanza GUP Trapani del 2 luglio 2021

19 luglio 2021

Costituisce illecito disciplinare l’utilizzo di whatsapp?

L’uso della messaggistica, che consente una comunicazione più immediata e veloce, non può ritenersi in sé in violazione dell’art. 9 del NCDF poiché, per molti aspetti, ormai rappresenta un vero e proprio metodo di comunicazione avente anche valore legale e, che per di più, fornisce anche una valida prova nel processo (Nel caso di specie, il professionista scriveva all’assistito diversi “messaggini”, chiedendo di essere contattato con urgenza perché nominato suo difensore di ufficio in un procedimento penale, di cui allegava l’avviso ex art. 415 c.p.p. Per tale comportamento, l’avvocato veniva sanzionato con la censura dal Consiglio territoriale. In applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha annullato la sanzione disciplinare).



16 luglio 2021

L’OMESSO VERSAMENTO DELLE IMPOSTE DI SOGGIORNO DOPO IL DECRETO RILANCIO. QUESTIONI DI DIRITTO INTERTEMPORALE - di Gianluca Prosperini






Durante la vigenza del precedente assetto normativo, la condotta dell’albergatore che ometteva o ritardava il versamento delle imposte di soggiorno veniva sussunta nel reato di peculato ex art. 314 cp, poiché, il titolare di una struttura ricettiva veniva considerato, seppur in via interpretativa, un agente della riscossione, un soggetto quindi qualificato e riconducibile alla categoria dell’incaricato di pubblico servizio, disciplinata dall’articolo 358 del codice penale.

Con l’approvazione del decreto rilancio, e la consequenziale legge di conversione, il legislatore pone in essere un netto cambio di rotta rispetto al passato. L’articolo 180 del decreto, infatti, qualifica l’albergatore come semplice incaricato alla riscossione, mero riscossore di fatto, soggetto al quale viene, quindi, sottratta la qualifica necessaria per configurare il delitto tipizzato dall’articolo 314 del codice penale.

Prendendo atto della nuova disciplina, che sanziona in via amministrativa la condotta di omesso versamento delle imposte di soggiorno, è opportuno soffermarsi sulle questioni di diritto intertemporale: nel silenzio del legislatore occorre chiedersi se il nuovo assetto normativo possa essere applicato anche ai fatti pregressi, in virtù della disciplina generale della successione delle leggi nel tempo, regolamentata dall’articolo 2 del codice penale.

Sul punto si è recentemente espressa la sezione sesta della Corte di Cassazione (sent. n. 36317/20) che, discostandosi da diverse pronunce della giurisprudenza di merito (v. tribunali di Rimini, Roma e Perugia), ha optato per l’inapplicabilità dell’articolo 2 non potendo, secondo i giudici di legittimità, considerarsi l’intervento del legislatore una vera e propria abolitio criminis.  

Riepilogando brevemente il ragionamento della Cassazione: i giudici di legittimità affermano, come precedentemente esposto, che prima dell’intervento del decreto rilancio, il titolare di strutture ricettiva era considerato soggetto qualificato riconducibile alla categoria dell’incaricato di pubblico servizio di cui all’art. 358 cp, qualifica soggettiva che giustificava la sussunzione della condotta dell’albergatore che ometteva il versamento della imposta di soggiorno nell’art. 314 cp; successivamente, dopo l’intervento legislativo, l’albergatore non è più considerato soggetto qualificato, ma mero riscossore di fatto, semplice incaricato alla riscossione, che non possiede più la qualifica soggettiva necessaria per sussumere la condotta nell’articolo 314 del codice penale.

Conclude la Cassazione affermando che, trovandosi dinnanzi a due situazioni giuridiche astratte diverse, verrebbe meno quella c.d. continuità normativa, necessaria, secondo i giudici di legittimità, per applicare l’art. 2. cp, essendo quello del legislatore un intervento limitato a escludere una determinata categoria dal novero degli incaricati di pubblico servizio, non alterando la struttura del reato di peculato.

Il ragionamento giuridico della Corte di Cassazione non è condivisibile, poiché basato su un presupposto errato: i giudici di legittimità, infatti, si limitano a porre in essere una comparazione tra le situazioni giuridiche astratte pre e post decreto rilancio, relegando a un ruolo totalmente secondario il fatto concreto. 

Ora, se si sposa l’idea della Corte di Cassazione, limitandosi a comparare le situazioni giuridiche astratte, le conclusioni logiche della sezione sesta sono incensurabili; ma se invece si fa un passo indietro, spostando l’attenzione e l’oggetto dell’analisi sul fatto concreto, allora il ragionamento dei giudici di legittimità è destinato a soccombere.

Il nostro diritto penale è un “diritto penale del fatto”, “sul fatto”, motivo per cui nel momento in cui il giurista è chiamato a valutare la rilevanza penale di una condotta, deve avviare la sua analisi inevitabilmente dal fatto concreto; fatto concreto che solo successivamente verrà sussunto nella norma incriminatrice di riferimento al fine di poterne valutare la rilevanza penale.

Ebbene, non è un caso che nell’art. 2 il legislatore utilizzi la parola fatto e non (ad esempio) la parola reato: il legislatore del 1930, infatti, redige il codice penale sposando pienamente l’idea del diritto penale del fatto. 

Si tratta di una chiara scelta legislativa dalla quale, poi, la dottrina penalistica ha elaborato la c.d. teoria dell’incorporazione, secondo la quale, ai fini dell’applicabilità della disciplina disposta dall’art. 2, occorre tenere in considerazione tutti gli interventi legislativi diretti, indiretti, mediati, sul precetto penale, sulle norme penali in bianco, sulle norme extrapenali, purché l’intervento legislativo abbia ad oggetto un elemento necessario ai fini di una completa sussunzione del fatto materiale.

Fatte queste doverose premesse, appare evidente che, se si sposta l’attenzione sul fatto concreto, ci si rende conto che il fatto materiale, nonostante l’intervento legislativo, è rimasto identico: prima del decreto rilancio l’oggetto di analisi era la condotta dell’albergatore che omette di versare le imposte di soggiorno; analogamente, dopo il decreto rilancio, l’oggetto di analisi rimane la condotta dell’albergatore che omette di versare le imposte di soggiorno. Soltanto dopo la sussunzione del fatto concreto nelle norme di riferimento, pre e post decreto rilancio, ci troviamo dinnanzi a due situazioni giuridiche diverse.

Dinanzi a un’identità del fatto materiale è opportuno, anzi doveroso, chiedersi cosa è cambiato con l’intervento legislativo del maggio 2020. Non c’è motivo di dubitare che ad esser cambiata è la risposta dell’ordinamento giuridico ad una determinata situazione di fatto, la reazione dello stato ad un determinato comportamento al quale è stata indubbiamente sottratta rilevanza penale.

Non c’è ragione di dubitare sull’applicazione della disciplina dettata dall’articolo 2 del codice penale. Il legislatore pone in essere una scelta ben precisa, quella di non perseguire più penalmente una determinata situazione di fatto. Si tratta di una vera e propria abolitio criminis al cospetto della quale diversi giudici di merito hanno emesso sentenza di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.



Gianluca Prosperini, nato a Erice il 10 ottobre 1990. Avvocato iscritto alla Camera Penale di Trapani. Consegue la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Palermo nell'anno accademico 2015/2016 con la votazione di 108/110, discutendo una tesi in diritto penale dal titolo “la rilevanza penale dell’eutanasia tra elaborazioni filosofiche e soluzioni giurisprudenziali nazionali ed europee”. Ottiene l'abilitazione alla professione forense nella sessione 2018 presso la Corte di Appello di Palermo. Collabora con la rivista giuridica online “Salvis Juribus – fatti salvi i diritti.”

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