29 luglio 2022

Pornografia minorile – Delitto di cui all’art. 600-ter, comma secondo, cod. pen. – Nozione di “commercio” di materiale pedopornografico.

 


La Terza sezione penale, in tema di pornografia minorile, ha affermato che la nozione di commercio di materiale pedopornografico postula: a) lo svolgimento dell’attività in maniera organizzata, ancorché non abituale; b) l’esistenza di una struttura funzionale all’offerta e alla distribuzione di tale materiale ad un numero mutevole e non predeterminato di fruitori; c) la ricorrenza di una finalità lucrativa, di natura non necessariamente patrimoniale, che può consistere anche nell’acquisizione della disponibilità di ulteriore materiale pedopornografico, procurato dai cessionari.

Scarica la sentenza Cass. pena. Sez. III, n. 26969/2022


28 luglio 2022

Autoriciclaggio in bitcoin: sussiste per la Cassazione

 


La Seconda Sezione penale ha affermato che integra il delitto di autoriciclaggio la condotta di chi, in qualità di autore del delitto presupposto di truffa, impieghi le somme accreditategli dalla vittima trasferendole, con disposizione “on line”, su un conto intestato alla piattaforma di scambio di “bitcoin” per il successivo acquisto di tale valuta, così realizzando l’investimento di profitti illeciti in operazioni finanziarie a fini speculativi, idonee a ostacolare la tracciabilità dell’origine delittuosa del denaro.

Scarica la sentenza, Cass. pen. sez. II, n. 27023/2022

27 luglio 2022

Affidamento in prova all'ESTERO. Ordinanza Tribunale Genova.



 Per l'interesse rivestito, diamo conto dell'ordinanza 2327/2022 (al link) con cui il Tribunale di sorveglianza ligure ha ammesso un condannato all'affidamento in prova al servizio sociale per espiare la residua pena di anni tre di reclusione, in altro paese dell'UE

Nel caso di specie, il condannato, peraltro affetto da gravi patologie che già avevano comportato il differimento della pena, aveva allegato di vivere stabilmente in Francia, chiedendo di essere ammesso alla misura alternativa da espletarsi nel paese dell'Unione. Al riguardo si rammenti che ricorrere apposita normativa che sussiste la "Decisione quadro 2008/947/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive", oggetto di recepimento interno in forza della del d.l.vo 38/2016. 

Sulla scorta di tale normativa, l'A.G. italiana ha ammesso l'istante all'affidamento in prova, impartendo le prescrizioni del caso, subordinatamente al riconoscimento del provvedimento medesimo da parte dell'Autorità giudiziaria estera.  

Scarica l'ordinanza al link

26 luglio 2022

La Cassazione che vorrei- di Guido Todaro

  

  


 

 La Corte di Cassazione - amichevolmente: il Palazzaccio - è, nell’immaginario collettivo, simbolo di Giustizia, la sublimazione - fattasi edificio - della dea Dike.

   Da questa immaginifica rappresentazione non si discosta - almeno per me - l’Avvocatura. Il difensore vede nella Suprema Corte la speranza di una giusta decisione, il ribaltamento di una sentenza che ritiene contra ius, inficiata da vizi di legittimità variamente disseminati nel percorso argomentativo dei giudici di merito. Chi si induce a fare un ricorso – atto dall’elevato tecnicismo e che presuppone cognizioni giuridiche acquisite grazie alla comprovata esperienza e al superamento di un apposito percorso formativo (è noto infatti che, per poter essere iscritti nell’Albo speciale dei Cassazionisti, la mera anzianità, intesa quale risalenza nel tempo della iscrizione quale avvocato, non è più sufficiente) – è mosso dalla volontà di sovvertire la decisione di merito e – assumendo che il ricorso non si faccia tanto per fare: la qual cosa non è da escludere completamente, considerato che l’interposizione del ricorso consente comunque di ritardare il formarsi del giudicato e l’esecuzione della pena – compie un’attenta disamina della sentenza, valutando la sussistenza o meno di taluno dei vizi tassativi, elencati nell’art. 606 c.p.p. e concretizzanti un numerus clausus (a parte la fattispecie dell’abnormità processuale), che soli consentono di impugnare dinanzi alla Suprema Corte.

   Sennonché, a questa idealità fa da contraltare la realtà. Un segnale di anomalia del sistema è invero rappresentato dalla percentuale dei ricorsi dichiarati inammissibili: secondo l’Annuario Statistico 2021 del 18 gennaio 2022, a cura dell’Ufficio di Statistica presso la Corte di Cassazione, ben il 70,8%, pari a 33.083 ricorsi. È un dato costante, nell’ordine di grandezza, e in progressiva crescita negli ultimi anni, nonostante la riforma Orlando (art. 1, comma 63, l. 23 giugno 2017, n. 103) abbia eliminato la facoltà dell’imputato di fare ricorso personalmente (l’unico legittimato è dunque il difensore, tecnico del diritto). Oltre la metà dei ricorsi dichiarati inammissibili - il 59,4% - proviene dalla Sezione Settima. La restante percentuale dei ricorsi è divisa – più o meno equamente – tra gli altri possibili esiti: il 10,2% è andato incontro al rigetto; il 10,4% ha avuto quale epilogo l’annullamento con rinvio; il 7,2% l’annullamento senza rinvio.

   Interessante è anche il dato relativo alla tipologia dei ricorrenti: il solo imputato – ora per il tramite esclusivo del difensore – copre il 96,6% dei casi; il pubblico ministero il 3,8%. L’inammissibilità – dall’angolo prospettico degli impugnanti – è invece marcatamente sbilanciata: il 73,4% riguarda infatti i ricorsi proposti dalla parte privata a fronte del 33,8 % riferito alla pubblica accusa.

    Le percentuali consentono di sfatare anche un falso mito: che l’imputato punti alla prescrizione del reato. L’incidenza della prescrizione nel giudizio di legittimità è infatti davvero scarna: solo l’1,6% dei procedimenti è stato definito in Cassazione con la declaratoria di prescrizione del reato, un esito che, con l’entrata in vigore della riforma Cartabia (l. 27 settembre 2021, n. 134) e l’introduzione del discusso istituto della improcedibilità, non sarà più possibile.

    Volendo sintetizzare, il risultato è certamente lontano dalle aspettative del ricorrente: solo il 17,6% dei ricorsi viene accolto.

   Certo, il diritto non può essere ridotto ad una formula matematica: ma i numeri sono importanti, scolpiscono la nostra vita, riflettono dati intellegibili e consentono di muoversi in un quadro dalle coordinate chiare.

    Se il dato riflesso è quello riferito, bisogna dunque domandarsi se la declaratoria d’inammissibilità sia una conseguenza necessitata e correlata ineludibilmente all’attuale normativa o se, in qualche misura, non sia la stessa Corte di Cassazione a interpretare in modo eccessivamente rigoroso l’attuale assetto, così restringendo ancor di più il ventaglio dei casi di ricorso per Cassazione ammissibili. Forse, il paradigma andrebbe rivisto: non è un caso che, di recente, sull’eccessivo formalismo della Cassazione sia intervenuta la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, con una sentenza del 28 ottobre 2021 (n. 55064/11, Succi contro Italia), ha condannato l’Italia per l’interpretazione eccessivamente formalistica dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione in violazione del diritto di accesso al giudice, previsto dall’art. 6 della Convenzione Europea. I diritti garantiti dalla Convenzione, tra cui quello propedeutico di accesso a un tribunale (art. 6, appunto) devono essere concreti ed effettivi e non meramente teorici: le norme che limitano l’accesso a un tribunale e le procedure per le impugnazioni devono essere chiare, prevedibili e proporzionate, per evitare che la forma prevalga sulla sostanza. In breve: i criteri previsti dal codice di procedura civile in ordine alla redazione del ricorso in cassazione sono stati considerati stridenti rispetto al tenore dell’art. 6 § 1 della Convenzione.

    Viene da chiedersi se, mutatis mutandis, la ratio della decisione della Corte di Strasburgo non possa valere anche con riguardo al giudizio penale: in fondo, «l’accertamento dell’innocenza è una posta troppo importante, per essere sacrificata agli idoli della procedura» (F. Cordero, Il procedimento probatorio, in Id., Tre studi sulle prove penali, Giuffrè, Milano, 1963, p. 143 s.) e «il risultato conforme a giustizia può uscire anche da una felice disubbidienza del giudice» (F. Cordero, Prove illecite, in Id., Tre studi sulle prove penali, cit., p. 171).

    La Cassazione che vorrei potrebbe dunque rinunciare, con le opportune cautele, alle eccessive rigidità del sistema: bene inteso, non si tratta di un lasciapassare, ma di ammorbidire un po' gli spazi di intervento, conferendo al vaglio di ammissibilità del ricorso – pur nel solco dei motivi tracciati – margini di elasticità più ampi, ove si tratti di rispondere ad esigenze di giustizia sostanziale, non altrimenti tutelabili.

   Ma al di là dell’eccessivo formalismo, i problemi sono altri.   

   Guardando alla casistica giurisprudenziale, sembra che lo stesso giudice di legittimità abbia coniato nuove cause d’inammissibilità dei ricorsi, andando oltre la lettera della legge: se in base all’art. 606 comma 3 c.p.p., «il ricorso è inammissibile se è proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati ovvero, fuori dei casi previsti dagli artt. 569 e 609 comma 2, per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello», le decisioni della Suprema Corte – movendosi formalmente nel solco dei motivi consentiti – hanno enucleato limiti che la lettera della legge non pare dispiegare. Ne risulta un percorso ad ostacoli, ancor più impervio di quanto non sarebbe osservando pedissequamente il codice. Il problema è che si gioca sul filo, tutt’altro che sottile, della distinzione tra disposizione e norma: disposizione è il testo scritto; la norma è il precetto che da quella disposizione, attraverso l’esegesi, si ricava. Sono concetti noti, come nota – da Crisafulli in poi – è la consapevolezza che tra una disposizione e una norma non vi sia sempre un parallelismo perfetto. Su questa diversificazione si sono così innestate limitazioni che formalmente la Suprema Corte riconduce al law in the books, ma che in realtà rappresentano un vero e proprio law in action, per riprendere l’espressione di Roscoe Pound. Temi quali la doppia conforme, il rigore nella interpretazione del vizio di motivazione, il principio di autosufficienza del ricorso, la prova di resistenza e il concetto di decisività configurano elementi che non sembrano potersi ricondurre specificamente all’art. 606 c.p.p.: piuttosto, sono vincoli, ostacoli, declinazioni liberamente tratte dalla Cassazione, fiorite praeter legem e tali da disegnare nuovi e diversi volti dell’inammissibilità, oltre la fisiologica soglia di quello che la legge, intesa letteralmente, rivela.

    Facciamo qualche esempio.    

    In caso di doppia conforme di condanna – sentenze di primo e di secondo grado che abbiano recepito l’ipotesi accusatoria – il ricorso per cassazione è quasi sempre destinato ad essere dichiarato inammissibile: lo spazio del vizio di motivazione, già ridotto di suo, riceve un ulteriore ridimensionamento. Il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso in parola, solo quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Cass., Sez. IV, sent. n. 35963 del 3 dicembre 2020). Considerato che, secondo i giudici di legittimità, si ha doppia conforme quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale, in queste ipotesi il difensore si trova a dover redigere un ricorso che di fatto deve travolgere non solo la sentenza di appello ma anche quella di prime cure, con uno sforzo giuridico invero non richiesto dalla lettera della legge ma che appare l’esclusivo portato dell’indirizzo ermeneutico della Corte Suprema. Doppia conforme: ergo, un doppio ostacolo per il ricorrente.

     Non meno insidioso il percorso ad ostacoli per il difensore che rediga il ricorso ai sensi dell’art. 606 c.p.p. lett. e) tout court. Ad onta del chiaro tenore letterale – già di suo non semplice – sono andati aggiungendosi profili nuovi e inusitati, tali da configurarsi quali ulteriori fattori di complicazione: si è così affermato che «il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato» (tra le altre, Cass., Sez. VI, sentenza n. 10795 del 16 febbraio 2021). Oneri addossati sul ricorrente – alcuni dei quali davvero difficili da superare – che riducono sensibilmente le maglie dell’ammissibilità: il pertugio diventa simile alla classica cruna dell’ago.

   A risultati non dissimili conduce il principio di autosufficienza del ricorso, che trasforma il ricorrente in una sorta di notaio: occorre “certificare” tutto, pena l’inammissibilità dell’atto. Con indirizzo pressoché costante vengono infatti considerati inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei ricorsi che deducano il vizio di manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione (tra le molte, Cass., Sez. II, sentenza n. 20677 dell’11 aprile 2017). Sennonché, stando all’art. 606 c.p.p., la lett. e) richiede solo l’indicazione degli atti, non certo l’integrale trascrizione o allegazione degli stessi, oneri questi ultimi che – non richiesti dalla legge – rischiano solamente di determinare un sovradimensionamento degli atti difensivi, senza alcuna effettiva utilità (peraltro, è il caso di evidenziare che il Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale, del 17 dicembre 2015, declina il principio di autosufficienza intendendolo come necessità della mera indicazione degli atti).

    Pure la prova di resistenza equivale ad un impaccio creato in via interpretativa: nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (ex plurimis, Cass., Sez. II, sentenza n. 7986 del 18 novembre 2016). La prova di cui si lamenti l’inutilizzabilità deve dunque essere decisiva: eventuali violazioni di legge attinenti alla legalità della prova sono degradate a meri accidenti, irrilevanti per il diritto, ove non si colorino di tale carattere di decisività. L’indirizzo monocorde non convince: la lett. c) dell’art. 606 c.p.p. non richiede alcuna decisività della prova illegittimamente acquisita. Soprattutto, come efficacemente è stato detto, «la decisività del vizio denunciato attiene al risultato della impugnazione e non alla sua ammissibilità. In altri termini, se il vizio sussiste e tuttavia non potrebbe, in caso di annullamento con rinvio, condurre  ad un ribaltamento della pronuncia, l’impugnazione deve essere rigettata, ma non dichiarata inammissibile» (così D. Livreri, La Corte ribadisce l’onere della prova di resistenza ai fini dell’ammissibilità. E se sbagliasse?, in forogiurisprudenzacptp.blogspot.com, 15 giugno 2022).

   Se il sogno illuministico che si perpetua nella Cassazione e ne è alla base è quello di un giudice di legittimità che fa prevalere la legge sulla interpretazione del giudice di merito (la Cassazione quale Giudice dei Giudici), il sogno, almeno in parte, non si è realizzato: da custode del diritto, il rischio di una deriva verso altri modelli è latente. È il rischio di una Cassazione che «per fronteggiare la colata lavica dei ricorsi cerca barriere selettive più efficaci, come l’interesse, la specificità e decisività dei motivi» (F.M. Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Giuffrè, 2013).

    La Cassazione che vorrei potrebbe dunque fare un passo indietro: se formalismo deve essere, allora si rispettino le forme anche là dove esse sono funzionali a tutelare il ricorrente. Un’aderenza maggiore al principio di legalità processuale consentirebbe di mettere al bando quel florilegio di limiti al ricorso – disegnati a pena d’inammissibilità – ulteriori e ultronei rispetto al dettato normativo. Senza considerare che l’inammissibilità è una forma di invalidità e, dunque, le cause che la determinano devono essere tipizzate, stante il principio di tassatività che governa la materia (G. Conso, Il concetto e le specie d’invalidità. Introduzione alla teoria dei vizi degli atti processuali penali, Giuffrè, Milano, 1955).

   Un ultimo aspetto. Anche il concetto di manifesta infondatezza dei motivi è pericoloso: dai contorni slabbrati e vaghi, si presta ad interpretazioni ondivaghe, rimesse all’apprezzamento insindacabile del giudice, in mancanza di una tassativa descrizione legislativa: celebre la metafora del «territorio senza legge» (così F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 809). Eppure, dalla manifesta infondatezza discendono l’inammissibilità del ricorso e l’inapplicabilità dell’art. 129 c.p.p. La lacuna normativa – rectius: l’assenza di una definizione puntuale – non è riempita dalla giurisprudenza. Come osservato, «anziché cercare di chiarire i concetti, la Cassazione sfrutta la loro indeterminatezza», rinunciando, in tal modo, a «distinguere infondatezza e manifesta infondatezza» e dando l’abbrivio ad una «illogicità del diritto vivente» (F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 809). Come discernere la infondatezza dalla manifesta infondatezza? Come individuare la misura atta a tracciare il discrimine che segna il passaggio dall’atto valido, semmai destinato ad essere rigettato, a quello inammissibile?

    La Cassazione che vorrei dovrebbe, almeno in parte, essere rivista: in questo caso, la modifica dovrebbe passare necessariamente da un intervento del Legislatore. Una interpolazione necessaria che o elimini dalle cause d’inammissibilità la manifesta infondatezza dei motivi (la tricotomia fondatezza/infondatezza/manifesta infondatezza diventerebbe materia esclusiva di una decisione di accoglimento del ricorso o di rigetto) ovvero dia una definizione, in modo quanto più preciso, del concetto di cui si discute. Meglio la prima soluzione, ma, in assenza, una perimetrazione dell’istituto, rispondente ai requisiti di tassatività e determinatezza della fattispecie, sarebbe un notevole passo in avanti. Si eviterebbero contrasti giurisprudenziali e soluzioni diverse per casi simili e il sistema ne guadagnerebbe in coerenza: e, secondo un magistero che non deve mai essere dimenticato, il «primo pregio di un sistema è la coerenza» (F. Cordero, Linee di un processo accusatorio, in Aa.Vv., Criteri direttivi per una riforma del processo penale, Giuffrè, Milano, 1965, p. 81).  

  

(*) Guido Todaro: Avvocato del Foro di Bologna, Cassazionista, è Dottore di Ricerca in Diritto e Processo Penale presso l’Università di Bologna, nonché Professore a contratto di Procedura Penale presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali afferente alla medesima Università. È componente del Comitato di Gestione della Scuola Territoriale della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”, nonché membro della Redazione della Rivista Cassazione penale.  

È Autore di oltre 50 pubblicazioni in riviste scientifiche, nonché coautore del libro “La difesa nel procedimento cautelare personale”, Giuffrè, 2012, e con-curatore del Volume “Custodia cautelare e sovraffollamento carcerario”, Studi Urbinati, v. 65, n. 1, 2014.

 

  

25 luglio 2022

Omessa declaratoria della prescrizione in Cassazione. Quale rimedio ?


Dall'ordinanza n. 24782 resa il 27.06 dalla sesta sezione della Corte (ordinanza al link) si evince che in caso di rigetto del ricorso, in luogo dell'annullamento senza rinvio, per intervenuta estinzione del reato, l'interessato può esperire il ricorso per correzione dell'errore materiale.

22 luglio 2022

Camerale non partecipato: diritto alla refusione delle spese in favore della p.c.. Precisazioni.


La settima sezione (ord. 25753/2022, rel. Scordamaglia) ha ribadito il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, <<secondo cui nel procedimento che si svolge dinanzi alla Corte di cassazione in camera di consiglio nelle forme previste dagli artt. 610, 611 c.p.p., l'imputato, il cui ricorso sia dichiarato inammissibile, è condannato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, la domanda di restituzione o di risarcimento del danno della quale sia stata accolta in sede di merito ovvero non sia stata presa in considerazione dal giudice per fatto alla parte non addebitabile (art. 444, c.p.p.), purché la stessa abbia effettivamente esplicato, nei modi e nei limiti consentiti (artt. 74, segg. c.p.p.), un'attività diretta alla tutela dei propri interessi>> (cfr. SS.UU.5466/2004). Tuttavia, nel caso di specie, la Corte ha ritenuto di non dovere liquidare alcunchè alla parte civile <<essendosi la difesa di quest'ultima limitata a costituirsi in giudizio senza formulare conclusioni in ordine alla sorte del ricorso>> (ordinanza al link)

21 luglio 2022

La Riforma che vorrei per la magistratura onoraria- di Sabrina Argiolas

 
 


Mi è stata offerta la possibilità di esprimere in modo semplice e diretto la Riforma che vorrei sulla Magistratura Onoraria, tralasciando di rievocare il travagliato iter che dopo decenni di <<battaglie>> portate avanti dalle organizzazioni rappresentative di categoria, perveniva all’attuale situazione, ancora incerta da un punto di vista normativo interno sul suo legittimo status giuridico. 

Sono veramente grata per questa offerta che mi permette di esprimere, in un tentativo di sintesi, il senso di fedeltà allo Stato da parte dei magistrati onorari,  una categoria – disconosciuta - di lavoratori, che si sono profusi per oltre vent’anni – nel garantire a tutti gli altri cittadini un servizio pubblico essenziale, con tutti gli oneri e doveri connessi, ma senza il riconoscimento del loro status di lavoratori ed i conseguenti diritti giuslavoristici, in termini di equa retribuzione, tutela assistenziale e previdenziale.  

Ma una piccola premessa è necessaria, almeno per tentare di spiegare da cosa scaturiscano le illusioni di questa categoria di <<lavoratori>> e non appaiano utopistiche pretese.         

É stata da tutti riconosciuta l’importanza dell’apporto fornito dai magistrati onorari al funzionamento della Giustizia del nostro Paese, definiti ripetutamente – e forse beffardamente - i <<PILASTRI della Giustizia>>, senza i quali si assisterebbe all’immediata paralisi delle attività giurisdizionali.

Giusto per chiarire, la magistratura onoraria italiana è costituita da figure eterogenee, molto diverse tra loro, che sono state istituite dal Legislatore nel corso degli anni ed hanno sempre mantenuto funzioni e caratteristiche diverse. Si va dalla partecipazione diretta dei cittadini all'amministrazione della giustizia, pur rimanendo questi estranei alla magistratura (art. 102 comma 3 Costituzione: esperti delle Sezioni Agrarie, giudici popolari della Corte d'Assise etc.), ai magistrati onorari nominati ai sensi dell'art. 106 comma 2 Costituzione (in virtù della quale sono stati istituiti: i c.d. G.O.A. (Giudici Onorari Aggregati); i c.d. G.O.T. (Giudici Onorari di Tribunale) ed i V.P.O. (Vice Procuratori Onorari), tutti previsti in via del tutto transitoria e con funzioni di supplenza dei magistrati togati; i Giudici di Pace, ai quali sono state attribuite funzioni giurisdizionali civili e penali da svolgere in piena autonomia (quasi in un circuito parallelo).

Si può certamente sorvolare sulla nuova figura – introdotta dal D.L. n. 69/2013, convertito in Legge 98/2013 - del Giudice Ausiliario presso le Corti d’Appello, poiché con la sentenza n. 41/2021 la Corte Costituzionale ne ha già dichiarato l’illegittimità, sebbene concedendo loro una <<temporanea tollerabilità costituzionale>>, sino alla data del 31 ottobre 2025, che consenta loro di continuare a ridurre l’arretrato ed assicurare <<una necessaria gradualità nell’attuazione della normativa costituzionale>>. 

Ma i <<PILASTRI della Giustizia>>, a cui sopra si faceva riferimento, sono quelli che operano all’interno dei Tribunali e negli Uffici del Giudice di Pace, sulla cui legittimità costituzionale non vi è alcun dubbio e che secondo quanto prevede l’ancora vigente art. 4 del Regio Decreto n. 12/1941, <<appartengono all’ordine giudiziario>>, con garanzia di autonomia, indipendenza e imparzialità nell’esercizio delle rispettive funzioni.

Statistiche alla mano, emerge incontestabile un dato: i Giudici Onorari di Tribunale smaltiscano le gravi pendenze del carico giudiziario e garantiscano una produttività superiore al 50 %, mentre per i Giudici di Pace la produttività sale al 100%. I Vice Procuratori Onorari, con delega del Procuratore della Repubblica, rappresentano la pubblica accusa nel 100% delle udienza penali innanzi al Giudice di Pace ed almeno nel 90% delle udienze penali in Tribunale.

La situazione che si é in concreto determinata è lo specchio della necessità sorta nell’amministrazione della Giustizia, in conseguenza delle carenza di organico nei ruoli della magistratura professionale e del sempre maggiore aumento del contenzioso civile e penale registratosi nel tempo. La stratificazione disorganica delle norme, che si sono succedute e che hanno determinato un quadro di precariato mortificante ed insoddisfacente per la stessa condizione personale/professionale/economica dei magistrati onorari e per la programmazione e gestione dell’attività giudiziaria, imponeva da anni una revisione organica della magistratura onoraria, divenuta ormai indispensabile per lo svolgimento dell'attività giudiziaria di primo grado.

A fronte di tale indiscussa e concreta realtà, la scelta contenuta nella c.d. Riforma Orlando è stata quella di ridurre fortemente l’apporto della Magistratura Onoraria rispetto all’attuale carico di lavoro, che alla data del 15.08.2021 avrebbe spiegato i suoi più nefasti effetti, determinando gravi disagi nell’amministrazione della Giustizia, nell’organizzazione del lavoro degli Uffici Giudicanti, costringendo i Presidenti dei Tribunali, già in sofferenza per le note carenze di organico, a ridurre ulteriormente l’attività giurisdizionale dei Giudici Onorari, con conseguente aggravio nello smaltimento e nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo.

All’esito di un periodo difficilissimo, ancor più esasperato dalle criticità emerse nel corso dell’emergenza pandemica da COVID-19, proprio per evitare il disastro definitivo e dovendo garantire l’attuazione delle riforme del PNRR, con Legge 6.08.2021 n. 113, in sede di conversione del D.L. 9.06.2021 n. 80, veniva prevista la proroga dell’entrata in vigore della parte più nefasta della Riforma Orlando, differendola sino al 31 dicembre 2021.

Con la Legge di Bilancio 2022 – anche al fine di raffreddare la procedura di infrazione UE avviata nel luglio scorso, che avrebbe minato l'erogazione dei fondi del PNRR secondo il regolamento dell’Unione – il Governo ha previsto per i magistrati onorari in servizio la possibilità di presentare istanza per partecipare ad una procedura di selezione-conferma sino all’età di 68 anni, a pena di decadenza immediata per chi non avesse ritenuto di parteciparvi, con rinuncia ex lege ad ogni pretesa sul pregresso. Pur non qualificandosi quali lavoratori subordinati, ai magistrati onorari selezionati-confermati da tale procedura, nel caso in cui vorranno optare per il regime di esclusività verrà corrisposta <<un’indennità>> parametrata al trattamento economico, assistenziale e previdenziale spettante al funzionario amministrativo di area III, in relazione agli anni di servizio prestati.

Lasciando ancora i magistrati onorari in un limbo senza fine.

Neanche l’urgenza dei correttivi, auspicata anche dal Presidente della Corte Costituzionale, nel giorno del suo insediamento in data 16 dicembre 2020, aveva avuto l’esito di compulsare l’ennesima Commissione ministeriale, istituita dal nuovo Ministro Marta Cartabia per definire l’ineludibile annosa questione e consegnare un testo condiviso, frutto di un ulteriore prezioso lavoro di studio, ove ancora ci fossero stati dubbi o temi inesplorati negli ultimi vent’anni.

Ma cosa non può essere riconosciuto ai magistrati onorari dal Legislatore?

Supportati da una Costituzione che garantisce uguaglianza e pari dignità sociale a tutti i cittadini, quale ostacolo impedisce il riconoscimento e la tutela del lavoro svolto dai magistrati onorari, garantendo loro una retribuzione conforme ai parametri costituzionali di proporzionalità e sufficienza, la contribuzione per la pensione di vecchiaia o di anzianità, le ferie, la tutela della maternità, la garanzia retributiva di matrice costituzionale, la tutela previdenziale in caso di malattia, il trattamento di fine rapporto ed ogni altro diritto fondamentale riconosciuto ai lavoratori subordinati?

È innegabile che ai magistrati onorari l’ordinamento interno abbia sinora riservato un trattamento <<economico>> e normativo indiscutibilmente deteriore non solo rispetto al lavoratore comparabile, ma anche rispetto a qualunque altro lavoratore.

La Riforma che vorrei – o meglio <<che avrei voluto>> - per garantire ai magistrati onorari di poter continuare a svolgere serenamente le loro funzioni, con le tutele giuslavoristiche riconosciute a tutti i lavoratori subordinati, ricalca quella che già veniva attuata con la Legge 18 maggio 1974 n. 217, con la quale si disponeva semplicemente la <<conservazione dell’incarico>> con la retribuzione del magistrato di Tribunale per i vice pretori onorari, svolgenti all’epoca funzioni di magistrati onorari.  

Quale dogma inconfessabile si infrangerebbe?

Sulla Legge 18 maggio 1974 n. 217 non vi è mai stata alcuna pronuncia di illegittimità costituzionale. 

Al contrario la tesi secondo cui l’attività prestata dai magistrati onorari non potrebbe mai essere qualificata alla stregua di un rapporto di lavoro - sfuggendo di conseguenza all’applicazione dei diritti fondamentali applicabili alla generalità dei lavoratori in materia retributiva, previdenziale ed assicurativa - deve ritenersi in aperto conflitto con quanto sancito dalla Corte Europea, e ogni sua riproposizione non potrebbe che risolversi in un contrasto inammissibile fra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento europeo.

Non appare più realistico e legittimo sul piano interpretativo e metodologico, sia con riferimento al diritto interno che con riferimento alle statuizioni della Corte di Lussemburgo, continuare a trincerarsi sotto l’impostazione qualificatoria di <<rapporto volontario di carattere onorario>> con attribuzione di funzioni pubbliche, al fine di ritenere non configurabile un rapporto di lavoro subordinato, trattandosi di una categoria concettuale incompatibile con quelle proprie del diritto dell’Unione. Secondo il noto e costante orientamento della Corte di Giustizia Europea, sono infatti riconducibili alla nozione di lavoratore, valida ai fini dell’applicazione del diritto del­l’Unione, tutti quei rapporti la cui “caratteristica essenziale (…) è la circostanza che una persona fornisca prestazioni di indiscusso valore economico a un’al­tra persona e sotto la direzione della stessa, riceven­do come contro­partita una retribuzione. Il campo in cui le prestazioni sono for­nite e la natu­ra del rapporto giuridico fra lavoratore e datore di lavoro sono irrilevanti ai fini dell’art. 48 del trattato” (sentenza 03.07.1986, C-66/85, Lawrie-Blum).

Nonostante le battaglie giudiziarie interne, nonostante le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nonostante la Commissione Europea abbia già più volte riconosciuto la violazione della normativa nazionale in relazione all’applicazione del diritto del lavoro dell’Unione Europea, i Magistrati Onorari di Tribunale ed i Giudici di Pace ancora ad oggi sono rimasti privi di tutele retributive e previdenziali, ma soprattutto ancora privi dello stesso riconoscimento dello status di LAVORATORI SUBORDINATI.

Sabrina Argiolas     


La dott.ssa Sabrina Argiolas sin dall’anno 1999 svolge le funzioni di magistrato

onorario, prima in qualità Vice Procuratore Onorario presso la Procura della Repubblica di Palermo e dal 2005 in qualità di Giudice Onorario di Tribunale presso il Tribunale di Palermo, ove tutt’ora esercita le sue funzioni in modo esclusivo. Per la situazione determinatasi nel periodo 2010-2012 – per il carico lavorativo e l’impegno richiestole, venendo meno la stessa possibilità materiale di continuare a dedicarsi in modo continuativo allo svolgimento della professione di Avvocato, richiedeva la cancellazione dall’Albo Avvocati del Consiglio dell’Ordine di Termini Imerese.
A seguito di elezioni straordinarie, indette a seguito dell’emissione del D.L.vo 31
maggio 2016 n. 92 e svoltesi nei giorni 24-25 luglio 2016, veniva eletta in
rappresentanza dei Giudici Onorari di Pace del Distretto di Palermo, quale componente della Sezione Autonoma del Consiglio Giudiziario della Corte d’Appello di Palermo, sino al 5 ottobre 2020.



20 luglio 2022

Condizione prevista dall’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000 per l’ammissibilità del patteggiamento – Applicabilità al delitto di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000 ove sussista il debito tributario ex art. 21, comma 7, d.P.R. n. 633 del 1972.

 




La Terza Sezione penale, in tema di reati tributari, ha affermato che la preclusione al patteggiamento, posta dall’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per il caso di mancata estinzione del debito tributario prima dell’apertura del dibattimento, opera anche con riferimento al delitto di cui all’art. 8 del citato d.lgs., ove sussista il debito tributario ex art. 21, comma 7, d.P.R. n. 633 del 1972.

Scarica la sentenza, Cass. pen. Sez. III n. 25656/2022


19 luglio 2022

Minaccia volta a ottenere la restituzione del compenso corrisposto per l’acquisto di un minore in violazione procedimento di adozione – Tentata estorsione – Configurabilità – Ragioni.



Integra il delitto di tentata estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa posta in essere onde ottenere la restituzione del compenso corrisposto per l’acquisto di un minore in violazione del procedimento legale di adozione, stante la natura non solo illecita, ma anche contraria al buon costume del contratto concluso, che determina l’impossibilità di accedere alla tutela giudiziaria per ottenere la restituzione di quanto versato ovvero l’adempimento coattivo della prestazione.

Scarica la sentenza n. Cass. pen., sez. II, 25519/2022

18 luglio 2022

15 luglio 2022

Il coraggio (mancato) della visione: i riti poco speciali della riforma Cartabia- di Claudia Rosini

 


Spiace constatare che, ancora una volta e nonostante l’impellenza dettata dalle esigenze del PNRR, che facevano ben sperare fosse arrivata l’ora della “rivoluzione” tanto attesa del sistema giustizia, è mancato il coraggio della visione, ovvero sia il coraggio delle riforme, sia la visione complessiva della “macchina” giudiziaria, e si sia scelto di ripiegare su una miriade di micro interventi normativi in tema di riti speciali, davvero di poco respiro, che nulla potranno cambiare in termini di recupero di efficienza e di celerità nella definizione dei processi penali.

Sappiamo tutti - noi operatori del diritto, magistrati, avvocati, personale amministrativo ma anche e soprattutto utenti che del diritto sono spesso “ostaggi” – che erano necessari interventi rivoluzionari, quelli sempre attesi e che mai si è voluto mettere in atto, per frenare la corsa spasmodica ed insensata al giudizio penale, ed a quello dibattimentale visto la scarsa adesione ai riti speciali (solo l’8% delle definizioni innanzi al GIP/GUP avviene con il patteggiamento od il rito abbreviato): poderosa depenalizzazione (dei reati contravvenzionali e bagatellari, ma per l’appropriazione indebita di macchine da cialde di caffè a noleggio
deve essere fissata, incredibilmente grazie alla L. n. 3/2019, addirittura l’udienza preliminare), riforma del gratuito patrocinio, abolizione del divieto di reformatio in peius, riforma dell’art. 131 bis c.p. con innalzamento del limite edittale e la valutazione ex art. 69 c.p., riforma radicale dei riti alternativi, che tanto alternativi non sono e non sono mai stati visto la loro limitata applicazione, in assoluto contrasto con quello che era l’intento del legislatore della riforma del c.p.p. del 1988 secondo cui, giustamente, “il nuovo processo funzionerà se perverrà a dibattimento un esiguo numero di processi” (così A. Giarda Lezioni sul
nuovo processo penale, Giuffrè, Limano 1989, p. 120.).
Ci si deve allora domandare se si è voluto far funzionare quello che era il “nuovo processo penale” nel 1989, e che ormai ha oltre 30 anni, e la risposta non può che essere negativa, e ci si deve domandare ora se si riuscirà a farlo funzionare per il futuro, e la risposta, malgrado le buone intenzioni, è ancora di carattere negativo.
Si doveva avere coraggio il coraggio della visione appunto - per incidere su una situazione ormai incancrenita, ed invece ci si è limitati a pochissimi e circoscritti interventi sul codice di procedura penale, che per la loro limitatezza appaiono poco incisivi, affidandosi per il resto a strade inedite quali quelle della improcedibilità/prescrizione del processo, con l’intento salvifico di “abbattere” letteralmente quei processi che continuano, ostinatamente ma ovviamente, a proliferare.
Quali auspicate riforme sui riti speciali?
Ad avviso di chi scrive poche ma radicali, a partire dal procedimento per decreto penale di condanna e dall’ammissione che trattasi di rito poco utile e virtuoso, che è servito più che altro alla proliferazione dei procedimenti dibattimentali a seguito della sistematica opposizione avanzata dalla parte, sicché tanto varrebbe che fosse del tutto eliminato dall’ordinamento, congiuntamente, beninteso, all’opera di poderosa depenalizzazione sopra accennata.
Gran parte del ruolo monocratico di un giudice penale, che ormai è arrivato in un Tribunale di grandi dimensioni quale quello palermitano, a circa n. 450 procedimenti, è originato da decreti penali di condanna opposti, per reati bagatellari. Perché? Perché conviene, sempre, visto che il tasso di assoluzioni a seguito del giudizio è ben superiore al 50% e che anche in caso di condanna, quest’ultima sarà nella quasi totalità dei casi sospesa (trattandosi di incensurati e di reati puniti con pena ben al di sotto del limite di due anni per godere del beneficio della sospensione condizionale della pena), per cui a nessuno conviene pagare una pena pecuniaria, e dunque privarsi nell’immediatezza di risorse economiche, piuttosto che attivare il giudizio (che sarà pagato dallo Stato con il gratuito patrocinio, nella quasi totalità dei casi).
Invece di prendere atto di ciò, il legislatore ha voluto nella L. n. 134/21 incentivare il ricorso al rito monitorio (per la cui richiesta al GIP il P.M. avrà un termine di un anno, raddoppiato rispetto all’attuale, dall’iscrizione ex art. 335 c.p.p. della persona indagata nel registro) nella improbabile ottica di favorire la riscossione delle pene pecuniarie, prevedendo che per ottenere l’estinzione ex art. 460 co. 5 c.p.p. sia necessario il pagamento della sanzione nonché che, rinunciando alla opposizione, il condannato possa pagare la pena in misura ridotta di un quinto (entro il ristretto termine di 15 gg. dalla notificazione del decreto). Cosa che nessuno se ne ha la certezza farà, trattandosi o di indagati in precarie condizioni economiche che non pagano, o di soggetti che non vogliono pagare, fermo restando che conviene, per le ragioni sopra esposte, sempre e comunque fare opposizione e vedere come finisce il giudizio.
Ma il bello è che proprio con la riforma Cartabia, converrà ancora di più presentare opposizione vista la prevista improcedibilità dei processi ex art. 344 bis c.p.p., che falcidierà in primis proprio questi giudizi: in altre parole, un indagato opponente ha oltre il 50% delle probabilità di venire assolto, e per l’altro 50% di vedersi dichiarare improcedibile il giudizio in appello o Cassazione; perché allora dovrebbe pagare, se pure in misura ridotta, entro 15 gg. dalla notificazione del decreto penale di condanna? Il corto circuito delle (buone) intenzioni è palese.
Veniamo ora al patteggiamento ed al giudizio abbreviato.
Il coraggio della visione avrebbe forse imposto, oltre alla abrogazione del rito monitorio, anche la semplificazione e persino riconduzione ad unità dei suddetti riti, immaginando, ad esempio, una pena patteggiata anche per gravi delitti, con rimozione della condizione ostativa ex art. 444 co. 1 bis c.p.p. per i quali delitti si sfocia invece, nella quasi totalità dei casi, nella definizione con il rito abbreviato con abbattimento della pena in misura superiore, sino alla metà ad esempio, sì da rendere appetibile tale opzione, motivazione semplificata e limitata appellabilità. Una strada difficile, innovativa, ma che valeva la pena anche solo immaginare di intraprendere, in una visione complessiva del sistema che ed è questo il vero problema sembra mancare.
Ecco che allora si incide “un pò qua e un po’ là” con interventi che hanno il sapore della rassegnazione: si prevede che l’accordo sulla pena possa estendersi alle pene accessorie ed alla confisca (lo avevano già statuito le S.U. n. 21368/19), e soprattutto che la sentenza non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare ed “in altri casi”, quali lo vedremo, così sperando in una rivitalizzazione del patteggiamento che avrà portata, comunque, per l’effetto assai limitata.
Ancora meno significativi sono gli interventi previsti sul rito abbreviato: si prevede normativamente quello che già c’è per consolidata elaborazione giurisprudenziale, ovvero di favorire l’abbreviato condizionato ad integrazione probatoria, in considerazione dell’economia processuale che comunque ne deriva in rapporto al giudizio dibattimentale, e soprattutto l’ulteriore riduzione – ad opera del giudice dell’esecuzione - di un sesto della pena inflitta nel caso in cui l’imputato rinunci a presentare impugnazione, con l’intento – meritevole ma difettosamente elaborato di ridurre i giudizi in appello avverso defatiganti sentenze rese ex art. 438 c.p.p., quasi sempre dal GUP e tuttavia, si tratta di una previsione ad avviso di chi scrive davvero fallace, ai limiti dell’ingenuità.
Invero vengono definiti ex art. 438 c.p.p. la pressocché totalità dei procedimenti per gravi reati, quali la partecipazione di tipo mafioso ed i reati associativi in genere (si pensi a quelli sul narcotraffico), le rapine, i tentati omicidi, per i quali, vista la complessità delle questioni trattate e l’entità elevata delle pene inflitte, lo sconto di un sesto della pena non vale certo la rinuncia ad impugnare la sentenza, che in giudizio di appello o Cassazione, potrebbe essere persino ribaltata e concludersi con un’assoluzione nel merito (si pensi, appunto, ai reati associativi ed alla, spesso problematica da accertare, condotta di cui all’art. 416 bis c.p. o di concorso esterno, nonché alle innumerevoli eccezioni in materia di intercettazioni su cui quasi sempre si basa il compendio accusatorio che potrebbero essere accolte nei gradi successivi, etc.).
Altra parte dei giudizi abbreviati è invece costituita da procedimenti semplici, anche per reati di scarso allarme sociale (i furti di energia elettrica ad esempio), per i quali, parimenti, attesa la bassa entità della pena inflitta, lo sconto di un sesto della medesima non vale certo la “candela” di rinunciare ad una possibile definizione del giudizio in senso favorevole, con assoluzione od anche con la sanzione della improcedibilità ex art. 344 bis c.p.p. dichiarata in appello o in Cassazione, che per questi giudizi appare molto probabile.
Neppure degne di nota sono, infine, ad avviso di chi scrive le modifiche in tema di giudizio immediato, che non hanno nulla di realmente innovativo, mentre positivo è l’intento di incrementare, ancora di più, con il limite edittale elevato a sei anni (per il quale vale il giudizio ex art. 69 c.p. come stabilito dalla Suprema Corte) l’accesso al procedimento con messa alla prova, che è senz’altro l’unico rito alternativo “di successo” dell’ordinamento, in relazione al quale però gli Uffici EUEPE già sono sull’orlo del collasso, per l’enorme quantità dei procedimenti esistenti.
In conclusione, la rivoluzione meritoriamente immaginata con l’innovativo Ufficio del Processo e la giustizia riparatoria che (si auspica) verrà, è stata ancora una volta rinviata in punto di procedura penale, speriamo ad altre date da destinarsi.

 

Claudia Rosini
Ufficio GIP/GUP Tribunale di Palermo

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