Ci eravamo già più volte occupati della vexata quaestio (link, link, link, link, link).
Il tema è stato oggetto dell'ultima prova di diritto penale al concorso in magistratura.
Affidiamo il commento a Gianluca Porsperini, magistrato in tirocinio, che si era già occupato, da avvocato, della questione per il blog (al link).
Peraltro, sul tema, avevamo segnalato un recente arresto delle SSUU (link) in tema di raccolta del risparmio per "bancoposta".
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Preliminarmente occorre dare atto della nozione di attività amministrativa contemplata dai delitti contro la pubblica amministrazione.
Il diritto penale, appunto, accoglie un’accezione più ampia di attività amministrativa, considerando tale non soltanto l’attività di amministrazione attiva, ma anche l’attività legislativa, l’attività giurisdizionale e più in generale tutto ciò che concerne l’esercizio di uno dei poteri dello Stato.
Non a un caso, infatti, i maggiori fenomeni corruttivi riscontrati negli ultimi decenni si sono manifestati in riferimento a soggetti investiti dell’esercizio del potere legislativo.
Ciò premesso, al fine di individuare ciò che costituisce esercizio di attività amministrativa rilevante per l’imputazione penalistica, secondo la giurisprudenza prevalente può definirsi pubblica funzione soltanto quell’attività esercitata sulla scorta di una previsione di legge o di atti autoritativi che disciplinano l’esercizio della funzione, essendo necessaria una legittimazione di natura pubblicistica tale da giustificare l’esercizio di un pubblico potere, non rientrando, invece, nel concetto di attività amministrativa quella svolta in assenza di un’investitura rilevante per il diritto pubblico.
Orbene, la giurisprudenza più recente si è allontanata da una concezione soggettiva di attività amministrativa che considerava tale tutta l’attività – a qualsiasi titolo – svolta dai soggetti che fossero stati formalmente investiti di pubbliche funzioni.
La concezione oggi dominante è quella oggettiva-funzionale alla luce della quale, premesso che l’attività amministrativa deve comunque trovare una giustificazione in una norma di legge o un atto autoritativo, un soggetto può trovarsi a svolgere attività amministrativa solo a certi fini rilevanti per il diritto pubblico, restando nell’alveo del diritto privato l’attività posta in essere da colui che – seppur investito di prerogative pubblicistiche – non ha una rilevanza di natura pubblicistica.
Recentemente anche la giurisprudenza amministrativa, con riferimento agli enti pubblici, ha accolto il concetto di ente pubblico “a geometria variabile” alla luce del quale una persona giuridica può essere considerata di diritto pubblico solo a certi fini, nello specifico quando svolge determinate attività di natura pubblicistica, rimanendo il resto dell’attività disciplinata dal diritto privato.
Infine, in ordine alla distinzione tra le qualifiche di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio – contemplate dagli artt. 357 e 358 c.p. – occorre rilevare che il discrimen tra le due figure è di natura quantitativa, non qualitativa, alla luce dei più ampi poteri di cui è investito il pubblico ufficiale, il quale può adottare atti autoritativi, deliberativi e certificativi, poteri dei quali è privo il l’incaricato di pubblico servizio.
Orbene, alla luce di quanto esposto e accogliendo una concezione funzionale-oggettiva di attività amministrativa, un soggetto può essere considerato incaricato di pubblico servizio quando, seppur in assenza di un’investitura formale e senza l’adozione di atti autoritativi, deliberativi o certificativi, nello svolgimento di una determinata attività, risulta destinatario di obblighi di natura pubblicistica regolamentati da norme di legge o atti autoritativi.
La sussistenza della qualifica soggettiva è indispensabile ai fini della configurabilità del reato di peculato di cui all’art. 314 c.p., fattispecie incriminatrice che costituisce un reato proprio non esclusivo che viene ad esistenza nel solo caso in cui il soggetto attivo riveste la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
Il peculato, inoltre, è un delitto posto a tutela del buon andamento, dell’imparzialità e del patrimonio della pubblica amministrazione, considerato dalla giurisprudenza prevalente un reato plurioffensivo alternativo (o mono offensivo eventuale), configurabile, quindi, anche in caso di lesione ad uno soltanto dei beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice, essendo quest’ultimi tutti riconducibili alla titolarità della pubblica amministrazione (la fattispecie, appunto, è posta a presidio di tutte le offese suscettibili di essere cagionate alla p.a.).
Recentemente la questione relativa alla configurabilità del reato di peculato da parte dell’incaricato di pubblico servizio è stata oggetto di diversi interventi normativi e giurisprudenziali in riferimento alla vicenda dell’omesso versamento delle imposte di soggiorno da parte dell’albergatore.
Con la vigenza dell’assetto normativo previgente al decreto rilancio l’albergatore era considerato un agente della riscossione, soggetto qualificato riconducibile alla categoria dell’incaricato di pubblico servizio di cui all’art. 358 c.p. e, in quanto tale, suscettibile di commettere il reato di peculato per via del mancato versamento delle imposte di soggiorno.
A seguito dell’entrata in vigore del decreto rilancio (d.l. 34/2020 convertito in legge 77 del 2020) l’albergatore è oggi qualificato come mero incaricato della riscossione, privo quindi della qualifica di incaricato di pubblico servizio necessaria ai fini della sussistenza del reato di peculato.
Sul punto, quindi, si è posta una questione di diritto intertemporale chiedendosi se, ai fatti pregressi al decreto rilancio, possa essere applicato il principio di retroattività favorevole contemplato dall’art. 2 c.p.
Secondo la giurisprudenza prevalente (v. Cass. Pen. SSUU Magera 2007 e Cass. Pen 36317/2020) una modifica mediata come quella oggetto di analisi non è suscettibile di configurare una abolitio criminis, trattandosi di una modifica su una norma richiamata dall’elemento normativo della fattispecie incriminatrice (nello specifico l’elemento normativa riguarda la qualifica soggettiva richiesta dal reato di peculato).
Orbene, essendo l’elemento normativo a dare completa disvalenza penale al fatto tipizzato dalla norma incriminatrice, la modifica mediata deve considerarsi inidonea a integrare il precetto penale già compiutamente tipizzato dalla fattispecie di reato, costituendo l’intervento legislativo una mera esclusione degli albergatori dalla categoria in oggetto dettata da ragioni di opportunità e inidonea ad alterare la struttura della fattispecie incriminatrice.
Secondo un orientamento minoritario che, tuttavia, ha riscosso discreto successo nella giurisprudenza di merito, la modifica mediata, nonostante riguardi una norma richiamata dall’elemento normativo, deve considerarsi idonea a configurare una abolitio criminis con la conseguente applicazione del principio di retroattività favorevole.
Questo secondo filone interpretativo valorizza la “teoria del fatto concreto” basandosi su una lettura sistematica dell’art. 2 c.p. alla luce della quale non è un caso che il legislatore utilizzi la parola “fatto” sia al primo che al secondo comma della norma in questione, poiché, lo stesso legislatore nel 1930, redige il codice penale sposando pienamente l’idea del diritto penale del fatto.
Secondo questo filone interpretativo, essendo cambiata la reazione dell’ordinamento giuridico dinnanzi ad un medesimo fatto materiale, non ci sarebbe motivo per escludere l’applicazione del principio di retroattività favorevole (per approfondire v. “G. Prosperini, L’omesso versamento delle imposte di soggiorno dopo il decreto rilancio. Questioni di diritto intertemporale – in foro & giurisprudenza CPTP”).
La questione degli albergatori, in ogni caso, è stata successivamente risolta da una legge di interpretazione autentica che ha optato per l’efficacia retroattiva della modifica introdotta dal decreto rilancio.
Ebbene occorre precisare che laddove una modifica mediata dovesse essere considerata idonea a configurare una abolitio criminis, in virtù del principio di retroattività favorevole, questa è idonea a travolgere il giudicato con la conseguente possibilità di chiedere la revoca della sentenza di condanna per un fatto che, all’esito della novità normativa, non costituisce più reato.
Viceversa, nel caso di overruling favorevole, fermo restando che il giudice possa decidere di adeguarsi al mutamento giurisprudenziale in riferimento ai processi pendenti, deve escludersi la possibilità di sottrarre disvalenza ai fatti coperti da una sentenza passata in giudicato, costituendo l’overruling favorevole una nuova lettura interpretativa della norma che, in quanto tale, non costituendo una modifica normativa, risulta inidonea a configurare una abolitio criminis.
(*) Gianluca Prosperini
nato a Erice il 10 ottobre 1990. Magistrato Ordinario, già Avvocato del foro Trapani.
Consegue la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Palermo nell'anno accademico 2015/2016 con la votazione di 108/110, discutendo una tesi interdisciplinare in Diritto Penale e Filosofia del Diritto dal titolo “La rilevanza penale dell’eutanasia. Tra elaborazioni filosofiche e soluzioni giurisprudenziali nazionali ed europee”.
Ottiene l'abilitazione alla professione forense nella sessione 2018 presso la Corte di Appello di Palermo.
È vincitore del concorso di Magistratura Ordinaria - indetto con d. m. 18/10/2022 - con la votazione di 131/160 (36/60 agli scritti, 95/100 agli orali) risultando 57° su 360 vincitori nella graduatoria di merito.
Durante la professione di avvocato (esercitata dal 2019 al 2024) ha collaborato con le riviste giuridiche online “Salvis Juribus – fatti salvi i diritti.” e “Foro e Giurisprudenza CPTP”.
Attualmente è M.O.T. presso il Tribunale di Palermo (nominato con d.m. 04/04/2025.)