Siamo felici e onorati di ospitare le riflessioni dell'amico Professore Avvocato Giovanni Flora che, interpretando lo spirito polifonico di questo blog, alimenta il dibattito su due attualissime questioni di legittimità costituzionale.
Uno dei due argomenti trattati (il peculato degli albergatori) ha costituito oggetto di numerosi approfondimenti su questo blog (al link, al link e al link).
Premessa -
Uno dei compiti che l’Osservatorio Corte Costituzionale dell’UCPI, di cui sono responsabile assieme al Prof. Avv. Vittorio Manes, a mio avviso è chiamato ad assolvere è quello di segnalare all’attenzione degli Avvocati Penalisti possibili questioni di costituzionalità da proporre.
Aumentandone la diffusione presso la comunità forense si può sperare che ne aumentino anche le possibilità di devoluzione al giudizio della Consulta e, in prospettiva, di accoglimento; in modo da rendere il sistema sempre più aderente ai principi del diritto penale liberale costituzionalmente orientato e del giusto processo.
Approfittando della cortese ospitalità di Foro e Giurisprudenza vorrei qui limitarmi a prospettarne un paio che mi sembrano di notevole rilevanza pratica.
La prima concerne il delitto di omesso versamento IVA (art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000 e succ. mod.). Delitto di sempre più frequente contestazione soprattutto in questi tempi di grave crisi economica. La norma che lo incrimina, infatti, in base ad una corretta lettura dell’art. 8 della legge delega in materia di riassetto delle fattispecie sanzionatorie (l. 11 marzo 2014 n. 23) e con particolare riguardo a quelle penali, dovrebbe esserne invece espunta per “eccesso di delega” (art. 76 Cost.). Non solo, ma la norma si pone anche in contrasto con l’art. 3 Cost. in riferimento alla fattispecie di dichiarazione infedele (art. 4 d. lgs. n. 74 del 2000), il cui attuale testo sancisce l’irrilevanza penale delle dichiarazioni nelle quali il contribuente abbia violato i criteri di competenza degli elementi attivi o quelli di deducibilità degli elementi passivi: e allora perché invece continuare a punire il mero omesso versamento iva?
La seconda, un po’ più complicata da impostare, riguarda invece la attuale persistenza della rilevanza penale come peculato (secondo un indirizzo della Cassazione più volte riaffermato) degli omessi versamenti della imposta di soggiorno posti in essere prima dell’intervento di depenalizzazione della fattispecie (peraltro di creazione giurisprudenziale) intervenuto con l’art. 180, comma 3 D.L. n. 34 del 2020. Qui – come vedremo – sembra palese la violazione dell’art. 3 Cost. Ipotizzando, infatti, che sia corretta la soluzione in base alla quale i fatti pregressi continuano ad essere puniti come peculato, senso nel quale sembra decisamente orientarsi il c.d. “diritto vivente” (che notoriamente la Consulta prende in considerazione per decidere le questioni di legittimità), risulta davvero irragionevole che l’omesso versamento di una imposta comunale, anche di pochi euro, sia assoggettato ad una pena che va da quattro a dieci anni e sei mesi, mentre l’omesso versamento dell’IVA o delle ritenute d’acconto sia punito con la assai più lieve pena da sei mesi a due anni e solo se si scavalcano elevate soglie di punibilità (150.000 euro per l’omesso versamento di ritenute, 250.000 euro per l’omesso versamento IVA)?
La prima questione -
La prima questione muove dal rilievo che, in base all’art. 8 della legge delega n. 23 del 2014 il legislatore delegato era chiamato ad elevare a reato i soli comportamenti “fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa, tenuto conto anche di adeguate soglie di punibilità”. Ebbene le indicazioni della delega sono tassative, chiare ed ineludibili. Il Parlamento ha imposto dunque di dare rilievo a certe connotazioni della condotta non al fine di graduare l’entità della sanzione, ma, precisamente, proprio ai fini della “configurazione del reato”.
Ora è assolutamente incontrovertibile che la condotta tipica di omesso versamento dell’IVA non risponde a nessuna di quelle caratterizzazioni che la delega imponeva in via esclusiva di considerare. Anzi, nella teoria del reato, la presentazione di una dichiarazione assolutamente fedele costituisce – come è noto – un presupposto della condotta. E la condotta omissiva, per definizione, non ha nulla di fraudolento, né di simulato, né di falso.
Ma la norma in questione sembra poi configurare una irragionevole disparità di trattamento rispetto a quello riservato dallo stesso legislatore alla ipotesi di dichiarazione infedele. In base all’attuale testo dell’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, comma 1-bis , infatti, ai fini della sussistenza del reato “non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali”. In sostanza, il contribuente che presenta una dichiarazione infedele che – non dimentichiamolo – riguarda anche l’IVA oltre alle imposte dirette, e che ovviamente omette di conseguenza il versamento di notevoli importi fiscalmente dovuti, non è punibile ancorché abbia violato regole fiscalmente, ma non penalmente, rilevanti. Ebbene: come giustificare la punizione di chi abbia invece presentato una dichiarazione IVA assolutamente fedele ed abbia meramente omesso il versamento di quanto dovuto, né più né meno coma fa chi presenta una dichiarazione IVA infedele, ma a seguito di violazione di regole fiscali di determinazione del debito?
Si potrebbe conseguentemente proporre una questione di costituzionalità non solo invocando il contrasto con l’art. 76 Cost., ma anche il contrasto con l’art. 3 Cost.
La seconda questione -
La seconda questione è relativamente un po’ più complessa. Essa muove dalla costatazione della presenza nel sistema di una norma, creata, consolidata e perpetuata dalla giurisprudenza di legittimità, in base alla quale l’omesso versamento della imposta di soggiorno da parte del gestore della struttura ricettiva integrava gli estremi del delitto di peculato ed ancora lo integra, per i fatti “pregressi”, a dispetto della trasformazione del fatto in illecito amministrativo in base all’art. 180, comma 3 d.l. n. 34 del 2020 (il c.d. “decreto rilancio”). Insomma, i fatti anteriormente commessi continuerebbero a ricadere nella previsione dell’art. 314 c.p., non essendosi verificato un fenomeno di abolitio criminis (per una panoramica della questione con citazioni di dottrina e giurisprudenza si possono consultare: G. FLORA, La nuova disciplina dell’imposta di soggiorno: peculato addio anche per i fatti pregressi, Rass. Trib. N. 2/ 2021, p. 291 segg. e, da ultimo, G. AMARELLI, “Limitatori della penalità”: il caso del peculato dell’albergatore tra depenalizzazione legislativa e reviviscenza giurisprudenziale, Arch. Pen., n. 2 /2021). La nuova norma non avrebbe, insomma, inciso sugli elementi strutturali della fattispecie che, muovendo dalla natura di “agente contabile” dell’albergatore e approfittando della mancata emanazione del regolamento di attuazione della disciplina del tributo in questione anteriormente vigente, la giurisprudenza riteneva sussumibile sotto lo schema tipico del peculato. Certo riesce difficile ritenere anche minimamente plausibile una soluzione del genere, a fronte di una inequivoca voluntas legis di depenalizzazione, di una modifica del ruolo del gestore (non più qualificabile come “agente contabile”) con conseguente venir meno della qualifica di “denaro altrui” della somma eventualmente riscossa, essendo il gestore destinatario di una obbligazione propria di pagamento del tributo. Orientamento ostinatamente errato, davvero incomprensibile. Ma non è questo il punto che intendo affrontare.
Constatata la sussistenza di questa “norma giurisprudenziale” nel sistema, se ne può eccepire l’incostituzionalità per contrasto con l’art. 3 Cost. ragionando nel seguente modo.
E’ palesemente irragionevole che un fatto (tra l’altro oggi sanzionato solo in via amministrativa) che concerne l’omesso versamento anche di pochi euro di una imposta locale sia punito (continui ad essere punito) con le severissime pene del peculato (da quattro anni a dieci anni e sei mesi), mentre gli omessi versamenti di imposte ben più rilevanti come l’IVA (tra l’altro di interesse euro unitario) o le imposte dirette siano puniti con le ben più modeste pene contemplate dagli artt. 10-bis e 10-ter d. lgs. n.74 del 2000 (da sei mesi a due anni) e solo allo scavalcamento di rilevantissime soglie di punibilità (centocinquantamila euro per le ritenute d’acconto e ben duecentocinquantamila euro per l’IVA). Né l’eventuale applicabilità dell’attenuante contemplata dall’art. 322-bis, comma 1 c.p. (fatto di particolare tenuità) che comporterebbe una modesta riduzione fino ad un terzo, sposterebbe i termini della questione. Qui la discrezionalità legislativa esce fuori dai confini della ragionevolezza (e della decenza). Tanto più che è nota la sempre più accresciuta sensibilità della Corte costituzionale riguardo al principio di proporzionalità dei livelli edittali delle pene: come testimoniano i volumi dello stesso Francesco Viganò, Giudice della Corte (La proporzionalità della pena, Torino, Giappichelli ed. 2021) e di Nicola Recchia, componente dell’Osservatorio Corte Costituzionale UCPI (Il principio di proporzionalità nel diritto penale, Torino, Giappichelli ed., 2020); nonché una sentenza, emessa già nel 2016, della stessa Corte Costituzionale (n. 236 del 10 Novembre 2016).
Il tema è stato poi ampiamente trattato nel primo Seminario “Federico Baffi” organizzato dall’Osservatorio Corte Costituzionale al quale è intervenuto, sia pure e ovviamente “a titolo personale”, lo stesso Prof. Francesco Viganò.
I tempi sembrano dunque particolarmente propizi per sollevare eccezioni di costituzionalità di questo tenore, quali quella che mi sono permesso di proporre.
Il quesito dovrebbe essere impostato chiedendo di sollevare questione di costituzionalità della norma sul peculato nella parte in cui ritiene che continuino a rientrarvi anche i fatti di omesso versamento dell’imposta di soggiorno commessi anteriormente alla entrata in vigore dell’art. 180, comma 3 d.l. n. 34/2020 convertito (senza modificazioni sul punto) nella l. 17 luglio 2020, n. 77.
Giovanni Maria Flora
(*) Giovanni Maria Flora: Professore Ordinario di Diritto Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Firenze fino al 31 ottobre 2018, Avvocato iscritto all’Albo degli Avvocati dell’Ordine di Firenze, Cassazionista dal 1988. Fa parte del panel dei revisori della Casa Editrice Jovene, della Rivista Italiana di diritto e procedura penale, di Diritto Penale e processo, di Giurisprudenza Italiana.
E’ stato componente della Giunta e vice Presidente dell'Unione delle Camere Penali Italiane e ha rivestito in passato il ruolo di Presidente della Camera Penale di Firenze.
E’ membro del Comitato scientifico della rivista “Archivio Penale”, della rivista “Diritto di difesa”, Componente della Direzione della “Rivista Trimestrale di Diritto Penale dell’Economia” nonché membro della Direzione della Rivista Rassegna Tributaria. Docente del modulo penalistico del I anno della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Firenze, nonché titolare del modulo di Diritto Penale tributario presso il Master Berliri di Specializzazione presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna; docente del Corso di perfezionamento post-laurea in Diritto Penale Tributario presso l'Università degli Studi di Firenze, docente al Corso di Alta Formazione dell'Avvocato Penalista organizzata da UCPI, docente al Master breve di Diritto Penale Tributario annualmente organizzato a Firenze da Avvocatura Indipendente; docente della Scuola Allievi Marescialli Carabinieri; attualmente Presidente dell'OdV della società GILBARCO.
E’ autore di numerose pubblicazioni (anche monografiche), sia di parte generale che di parte speciale.