Dopo aver dato notizia del recente soffermo delle SS.UU. (Le Sezioni Unite definiscono la tipicità della partecipazione all'associazione mafiosa alla luce dei principi di materialità e offensività. Depositata la sentenza n. 36958 dell'11.10.2021, ud. 27.5.2021 al link) abbiamo pubblicato il commento di Mariangela Miceli Il delitto di partecipazione all'associazione mafiosa alla luce della recente sentenza SSUU 36958/2021.
Contiamo di fornire ai lettori una serie di commenti sulla sentenza. Proseguiamo con il prezioso commento che segue del prof. avv. Massimiliano Annetta.
Commento a Cass. Sez. Un. 11 ottobre 2021, n. 36958 - di Massimiliano Annetta
Abstract
Nella sentenza che si annota viene approfondito l’iter logico-ermeneutico percorso dalle Sezioni Unite, analizzandolo in chiave critica e diacronica rispetto alla genesi della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. Figura di reato quest’ultimo che ha avuto una storia travagliata ed è stata oggetto di acceso dibattito giurisprudenziali. Ancora oggi, dopo le note pronunce in materia resta attuale il tema della rilevanza penale, in termini di partecipazione all’associazione, della condotta di adesione rituale dell’affiliando. Il panorama che si staglia di fronte all’interprete è quello dei fondamentali principi di offensività e materialità del reato, della personalità della responsabilità penale, nonché dell’oltre ogni ragionevole dubbio. La sentenza annotata ha il pregio della chiarezza e a ben vedere costituisce un monito per ogni interpretazioni di tipo presuntivo, tutte sostanzialmente riconducibili alla matrice del c.d. diritto penale di autore.
1. Il reato di cui all’art. 416 bis c.p. ed i recenti orientamenti giurisprudenziali; il richiamo ai principi di tipicità ed offensività.
La sentenza che si annota va ricondotta al solco già tracciato dai più recenti approdi giurisprudenziali in materia di associazione a delinquere di stampo mafioso. Infatti, proprio in tempi recenti, i giudici della nomofilachia si sono mostrati particolarmente attenti circa la delimitazione dei confini applicativi della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p.
Senza richiamare la pietra angolare rappresentata dalla sentenza “Mannino”, è sufficiente rammentare le in realtà plurime vicende giudiziarie “giornalisticamente” note col nome di “mafia capitale”.
In particolare, la Corte ha dapprima sottolineato che bisogna evitare automatismi applicativi e probatori, non potendo la natura mafiosa dell’associazione essere desunta dalla particolare caratura criminale di uno dei suoi membri.
Analogamente, chiamata a pronunciarsi sulla criminalità organizzata operativa sul litorale di Ostia, la Corte ha affermato che la forza di intimidazione e l'assoggettamento e l'omertà che ne conseguono devono scaturire da 'fatti', quindi, devono formare oggetto di prova, sgombrando il capo una volta per tutte da letture di tipo sociologico o culturale in ordine alla definizione di mafia.
Nella sentenza che si annota, le Sezioni Unite tornano ad occuparsi dei confini applicativi dell’art. 416 bis c.p., con specifico riguardo alla rilevanza della condotta di semplice adesione rituale del neo-affiliato.
È noto che l’introduzione nell’impianto del codice Rocco della fattispecie in esame aveva lo scopo di superare le difficoltà applicative che tradizionalmente si presentavano ogniqualvolta si tentava di ricomprendere il fenomeno mafioso all’interno dello schema tradizionale di cui all’art. 416 c.p. Si era, quindi, provveduto a tipizzare una specifica ipotesi di reato, la quale non mirava a colpire il semplice fenomeno associativo, bensì un metodo, ovverosia quello mafioso, con ciò prescindendo dall’esistenza di un programma criminoso e dal raggiungimento degli obiettivi (spesso anche leciti), in quanto ritenuti garantiti dalla forza intimidatrice dell’associazione medesima.
Sin da subito, tuttavia, si era evidenziato che la nuova fattispecie avrebbe comportato non pochi problemi applicativi e interpretativi. La condotta di partecipazione all’associazione mafiosa e la definizione stessa di “mafia” hanno del resto sempre costituito l’oggetto di un acceso dibattito giurisprudenziale. La dottrina, in particolare, sin da subito aveva evidenziato la necessità di contemperare le esigenze di repressione del fenomeno mafioso con i pericoli inevitabilmente connessi ad una dilatazione applicativa della fattispecie. Era, pertanto, necessario - ed ancora oggi lo è – individuare rispetto al fatto tipico descritto dalla norma quali condotte si potessero effettivamente considerare offensive del bene giuridico tutelato dalla fattispecie. Spesso, infatti, il fenomeno mafioso può anche essere legato a realtà socio-familiari, a retaggi e legami tra più individui, in cui il singolo non è detto che si presti ad aderire al c.d. “metodo mafioso”, ben potendo lo stesso limitarsi a far parte della “famiglia” in una veste soltanto rituale.
Da qui le due problematiche interpretative che restano attualissime ai giorni nostri. La prima, concernente la natura di pericolo presunto o concreto del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e la seconda, conseguente, inerente la individuazione dei fatti sussumibili nella condotta di partecipazione all’associazione.
Riguardo alla prima delle due questioni, le Sezioni Unite, sgombrano il campo da possibili interpretazioni contrastanti con il principio di offensività e di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.), nonché con la fondamentale regola espressa dall’art. 115 c.p..
Secondo un primo orientamento, la fattispecie in esame costituirebbe un reato di pericolo presunto. In questa interpretazione, l’esistenza dell’associazione ed il suo essere “mafiosa” sono di per sé elementi sufficienti ad integrare il reato. Secondo questo primo indirizzo, tutto l’accertamento del fatto-tipico si incentra sulla qualificazione “mafiosa” del gruppo criminale, senza che sia necessario verificare in concreto la possibilità che il metodo mafioso possa effettivamente comportare una coercizione nei confronti dei terzi; è sufficiente l’astratta possibilità. È naturale che se questa è la natura del reato, assume un ruolo di secondo piano qualsivoglia accertamento sulla condotta di semplice adesione all’associazione.
Un secondo orientamento, sostanzialmente accolto dalle Sezioni Unite nella sentenza annotata, al contrario, riconduce la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. alla categoria dei reati di pericolo concreto. Ciò impone un rigoroso accertamento sulla forza di intimidazione che l’associazione conferisce ad i singoli affiliati. Pur non essendo richiesta dal legislatore la prova del compimento dei singoli atti di intimidazione, è, comunque, necessario verificare la effettiva capacità coercitiva del metodo mafioso, che deve essere dedotta da elementi obiettivi, tali da porre concretamente in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica. In questa seconda ottica – senza alcun dubbio più garantista – non è sufficiente aver fatto ritualmente ingresso nell’associazione, poiché la condotta del neo-affiliato deve pur sempre essere in grado di ledere concretamente il bene giuridico tutelato dalla fattispecie. Da qui la seconda questione affrontata dalle Sezioni Unite, tutta incentrata sulla delimitazione della condotta di partecipazione all’associazione mafiosa.
2. La condotta di partecipazione nel caso della adesione rituale all’associazione.
La condotta di partecipazione all’associazione mafiosa è, come noto, a forma libera. Il legislatore, all’evidente scopo di ricomprendervi il maggior numero possibile di comportamenti, non ha tipizzato le possibili ipotesi partecipative. La condotta di colui che “fa parte” dell’associazione può, dunque, consistere in un qualsiasi contributo, non occasionale ed apprezzabile sotto il profilo causale, con riferimento all’esistenza ed al rafforzamento dell’associazione. Da qui le numerose ed evidenti problematiche interpretative rispetto a qualsivoglia ipotesi in limine, quale, appunto, la semplice adesione rituale all’associazione mafiosa.
Richiamando il ragionamento sotteso alle precedenti pronunce delle Sezioni Unite sul tema, la parte motiva della sentenza annotata individua innanzitutto la condotta di partecipazione distinguendola da quella del concorrente esterno. Infatti, attraverso l’interpretazione a contrariis di tutte quelle condotte riconducibili alla fattispecie concorsuale è possibile delimitare significativamente l’ambito applicativo dell’art. 416 bis c.p.
Ed invero, nella elaborazione giurisprudenziale del concorso esterno, un consolidato orientamento si incentra sulla struttura del reato associativo e sulla sua natura di “reato contratto” a concorso necessario. Le sentenze “Demitry”, “Mannino” e “Carnevale” ci offrono un quadro chiarissimo sul punto: affinché sussista la condotta di partecipazione all’associazione è necessario che si crei un vincolo sinallagmatico, che deve essere accettato reciprocamente dal singolo affiliato e dai singoli componenti dell’associazione ed in virtù del quale il “nuovo” componente acquisisce obblighi (quali l’obbedienza, l’omertà etc.) e vantaggi (quali il potere di dare ordini, il diritto di trarre profitto dalle attività associative etc.). Qualora non ricorra alcuna corrispettività duratura nel rapporto tra il singolo individuo e l’associazione, l’unico ed episodico rapporto deve essere ricondotto al più alla figura del concorrente esterno, il quale, pur venendo in contatto con l’associazione, apportandovi un contributo solo ausiliario, ne rimane extraneus.
Ciò premesso, le Sezioni Unite nella sentenza in discorso affrontano poi la specifica problematica relativa alla rilevanza penale della semplice adesione formale all’associazione, sottolineando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale singolarmente sorto successivamente alla sentenza “Mannino”, la quale pure aveva affermato con grande chiarezza una serie di principi. Quest’ultima pronuncia, pur col fine ultimo di delineare la condotta del concorrente esterno, ha, infatti, il pregio di aver tracciato nettamente i confini applicativi della condotta di partecipazione all’associazione. Il semplice accordo e la sola volontà di far parte dell’associazione non sono sufficienti ad integrare la fattispecie; è richiesto un quid pluris. L’astratta “messa a disposizione” nei confronti dell’associazione non sarebbe altro che un accordo a commettere un reato, non punibile per espressa disposizione di legge, ai sensi dell’art. 115 c.p., in ossequio al principio di materialità ed offensività del reato (art. 25 Cost.). Pertanto, da un lato, sotto il profilo soggettivo è necessario riscontrare l’affectio societatis, ovverosia la volontà e la consapevolezza del singolo di far parte dell’associazione, da altro lato occorre anche accertare la sussistenza di un «fattivo inserimento» nella consorteria criminale, attraverso il riscontro – anche indiziario – del ruolo svolto dall’agente e di tutte quelle circostanze che per la loro «capacità dimostrativa» possano ritenersi «indici rilevatori» dell’avvenuto inserimento nella realtà dinamica dell’associazione. Detto altrimenti, la condotta di partecipazione deve sempre essere connotata da elementi attivi e dinamici; non è sufficiente la sola “partecipazione formale ovvero statica” al sodalizio.
Per quanto chiara fosse la sentenza Mannino successive pronunce, tanto di merito, quanto di legittimità – forse figlie, sia pure illegittime, del peso mediatico dei vari casi concreti – si sono nettamente discostate dai principi sopra enunciati. Nell’ambito di questo contrasto le Sezioni Unite con la pronuncia in discorso sottolineano l’esistenza di due “modelli” ermeneutici distinti. Quello c.d. “organizzatorio” e quello “causale”.
Secondo la teoria organizzatoria, la semplice adesione iniziatica del singolo è di per sé sufficiente ad integrare il reato di cui all’art. 416 bis c.p. Tale ricostruzione, inevitabilmente, risente del “peso storico” della fattispecie e della concezione sociologica della criminalità organizzata, ancora spesso intesa come mafia tradizionale. Come evidenziato – a ragion veduta – nella parte motiva della sentenza annotata, la genesi del principio di sufficienza del giuramento di mafia risale probabilmente alle diffuse convinzioni maturate nei più risalenti processi di mafia celebrati in particolare a partire degli anni ’70. In quelle aule “bunker”, i “pentiti” spesso erano in grado di riferire esclusivamente sulla sola affiliazione rituale dell’imputato, non essendo in grado di testimoniare sugli effettivi contributi che fossero stati forniti all’associazione. Inevitabilmente, secondo questa ricostruzione ermeneutica, la stessa affiliazione, quale unico fatto di per sé preso in considerazione, accresce, per ciò solo, la potenziale capacità operativa e la temibilità dell’associazione. Il neo-affiliato, infatti, si impegna a mettere a disposizione le proprie energie, ne condivide gli ideali del consesso criminoso e si presta per il successo e la potenza del medesimo. Il rituale del “battesimo”, non è, quindi, considerato un fatto neutro, poiché il simbolismo e le cadenze costituiscono indici univoci ed espressivi del fenomeno mafioso, di per sé punibili in quanto tali; il nuovo affiliato acquista così uno status, quale quello di uomo d’onore, dal momento in cui entra a far parte dell’“onorata società”.
Non v’è chi non veda che la teoria dell’organizzazione, intrinsecamente legata all’idea che l’associazione mafiosa debba ricondursi alla categoria dei reati di pericolo presunto, è figlia di un retaggio culturale ormai anacronistico. Essa è, non solo antistorica rispetto al fenomeno mafioso, ma pure pericolosa sotto un duplice profilo: in primo luogo perché rischia di non leggere le poliedriche forme che le associazioni criminali vanno assumendo nel tempo e, in secondo luogo, poiché rischia di colpire “lombrosianamente” il tipo criminoso e non il fatto tipico; non pare eccessivo di fronte a certe interpretazioni evocare il “diritto penale di autore”.
Proprio prendendo atto delle evidenti frizioni con i principi di offensività e materialità del reato che la suddetta interpretazione portava con sé, un altro orientamento giurisprudenziale ha elaborato un modello alternativo, detto “causale”. Secondo questa diversa ricostruzione ermeneutica, l’affiliazione senza un’effettiva attivazione, non può mai integrare la fattispecie. È, infatti, necessario accertare che il neo-affiliato abbia prestato un minimum di contributo effettivo, non più solo astrattamente possibile, ma anche causalmente apprezzabile al fine di realizzare gli scopi dell’associazione. Benché a questo secondo orientamento vada riconosciuto il merito di percorrere una via certamente più garantista, esso pecca per eccesso di interpretazione della fattispecie, rispetto ai limiti di stretta legalità; ciò che esce dalla finestra rientra così dalla porta. Ed invero, richiedere che la condotta di partecipazione si manifesti per facta concludentia ulteriori all’adesione, ma anche tali per cui sia necessario individuare un apporto causale, snatura la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., che è di pericolo e non di danno, per cui non richiede la prova, né di un evento, né di un nesso causale.
Ebbene, le Sezioni Unite hanno troncato il nodo gordiano costituito dal contrasto giurisprudenziale in discorso, ponendo l’attenzione sulla reale portata della problematica interpretativa che, attenendosi ai principi già espressi dalla sentenza Mannino, non coinvolge profili di diritto sostanziale, bensì di diritto processuale penale. La condotta di partecipazione presuppone un accertamento rigoroso, che non può consentire alcun automatismo probatorio, che abbia ad oggetto la stabile compenetrazione nella compagine associativa da parte del singolo ed è in ciò che si deve indivisuare l’ubi consistam della condotta che il legislatore intende sanzionare. La semplice adesione rituale all’associazione, pertanto, lungi dall’identificarsi nella condotta stessa di partecipazione all’associazione mafiosa, costituisce semplicemente uno degli «indici rilevatori», che solo unitamente ad altri elementi può contribuire a fornire la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, della sussistenza della condotta partecipativa di cui all’art. 416 bis c.p.
3.dalla legge sostanziale ai profili processuali: il confinamento degli automatismi probatori
Le Sezioni Unite concludono la propria ricostruzione ermeneutica della condotta di partecipazione con una costatazione di principio – per vero ovvia - rispetto al vero nodo problematico della questione da dirimere.
Ciò che occorre effettivamente accertare risulta, infatti, lo stabile inserimento del singolo all’interno del sodalizio criminoso e ciò solo, a ben vedere, deve essere oggetto di accertamento probatorio. Pertanto, è evidente che la formale adesione rituale è solo uno degli indici, ma l’ingresso nell’organizzazione criminale può avvenire anche attraverso altre modalità, quali la semplice “messa a disposizione” o il compimento di azioni preventivamente assegnate dall’associazione (si pensi all’omicidio commissionato dall’associazione al soggetto non affiliato). Pertanto, la condotta di adesione rituale all’associazione stessa non può assumere un significato univoco; essa necessita di essere valutata in riscontro con ulteriori evidenze probatorie, pure indiziarie, ma tutte teleologicamente orientate al perseguimento degli scopi del sodalizio, tali da consentire di desumere uno stabile inserimento nel tessuto criminale da parte dell’agente. Le circostanze in discorso, però, non devono essere valutate in termini causali, bensì in termini di “rilevanza” probatoria, poiché costituiscono appunto degli indici, ovverosia degli elementi fondanti la c.d. circostanza indiziante.
A titolo esemplificativo, ma non esaustivo, costituiscono “indici rilevatori”: «“la qualità” dell’adesione ed il tipo di percorso che l’ha preceduta, la dimostrata affidabilità criminale dell’affiliando, la “serietà” del contesto ambientale in cui al decisione è maturata, il rispetto delle forme rituali, anche con riferimento all’accertamento dei “poteri” di chi sceglie, di chi presenta e di chi officia il rito dei nuovi adepti, la tipologia del reciproco impegno preso, la misura di disponibilità pretesa e/o offerta ed ogni altro elemento di fatto che, sulla base di tutte le fonti di prova utilizzabili e di comprovate massime di esperienza, costituisca circostanza concreta, capace di rendere inequivoco e certo il contributo attuale dell’associato a favore della consorteria mafiosa».
Attraverso uno sforzo ermeneutico invero apprezzabile, le Sezioni Unite, non solo riportano l’accertamento del reato alla dimensione probatoria, ma si curano di indicare alcuni dei possibili indici.
La soluzione è più che ovvia: l’adesione rituale, per quanto pregnante di significato simbolico, necessita un accertamento concreto, che deve avvenire caso per caso. Del resto, se si sanzionasse unicamente il rito del “battesimo”, senza ulteriori accertamenti di sorta, si rischierebbe di perseguire una “mafia” a geometria variabile, poiché non tutte le organizzazioni criminali prevedono dei riti iniziatici, essendo tipico sostanzialmente delle mafie “nostrane” (Cosa Nostra, Ndrangheta, Camorra; S.C.U). Al contrario, il solo ingresso rituale non comporta necessariamente un’effettiva assunzione del ruolo assegnato o promesso all’affiliante, ben potendo quest’ultimo assumere condotte contrastanti con l’impegno già assunto (disobbedienza, allontanamento fisico, disinteresse); verrebbe così a mancare lo stabile inserimento all’interno del tessuto criminale.
In definitiva, l’ingresso rituale nella consorteria mafiosa non può altro che costituire un indizio, da valutarsi secondo la regola di valutazione scolpita nell’art. 192 c.p.p. E’, pertanto, necessario individuare la presenza di ulteriori circostanze indizianti, tutte necessariamente gravi, precise e concordanti nel senso della serietà e continuità della scelta adesiva dell’affiliato.
L’ingresso rituale costituisce, pertanto, un fatto che necessita di ulteriori riscontri indiziari che siano certi e può costituire solo l’incipit del ragionamento probatorio; non può, infatti, quest’ultimo identificarsi con il fatto stesso che si necessita provare, costituito, di contro, esclusivamente dall’inserimento stabile e duraturo dell’affiliato. Il ragionamento del giudice dovrà essere, in questo come in tutti i casi, di tipo logico-induttivo e non deduttivo-presuntivo.
In conclusione, attraverso il ricorso alle massime di esperienza, gli indici rilevatori indicati dalle Sezioni Unite potranno al più costituire la base di partenza per desumere l’id quod plerumque accidit. Solo plurimi fatti, unitariamente considerati e valutati, attraverso un corretto percorso logico, potranno consentire di attribuire ad un fatto non univoco una qualche valenza probatoria.
L’esercizio della professione non gli ha impedito di continuare l’attività universitaria: conseguito il dottorato di ricerca, è stato per oltre dieci anni docente di diritto penale presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università degli studi di Firenze. È stato poi docente a contratto di Diritto delle Prove Penali e Criminologia presso l’Università Mercatorum di Roma e Direttore e Coordinatore del Master Universitario di I livello in Anticorruzione: un nuovo modello di etica pubblica. Risposte ordinamentali e nuovi protagonisti presso la Link Campus University di Roma. È attualmente docente di diritto penale, nonché direttore del Master Universitario di I livello in Compliance degli enti: modello integrato 231, anticorruzione, antiriciclaggio e privacy presso l’Università IUL. Accanto alle molteplici pubblicazioni scientifiche, si segnalano numerosi convegni che lo vedono come relatore. È inserito nella rete “Penalnet” della Commissione Europea (elenco europeo degli avvocati penalisti abilitati a patrocinare dinanzi alle Corti dell’Unione Europea).