In questo blog, ci siamo occupati della “cultura dell’inammissibilità in Cassazione”, secondo la felice espressione del Professore Oliviero Mazza.
La recente pronuncia della Corte Edu, resa nell’affare Succi e altri contro Italia, offre l’occasione per una nuova meditazione sull’argomento (sentenza al link; il commento su Filodiritto; il commento su Canestrinilex). La CEDU ha infatti condannato l’Italia per la violazione dell’art. 6 della Convenzione, a motivo dell’interpretazione eccessiva formalistica dei criteri di redazione dei ricorsi di legittimità e della conseguente inammissibilità.
Per quanto il processo domestico in cui è intervenuta la violazione convenzionale non avesse natura penale, è evidente che il tema è senz’altro trasversale (sulle ricadute nel processo penale della sentenza CEDU si interroga Andrea Chelo, "L'eccessivo formalismo rende il processo non equo. Qunado la forma non è sostanza: ovvero, se a difendersi dal processo non è l'imputato ma il giudice").
Al riguardo colpisce come le considerazioni impiegate a commento della pronuncia da un processualcivilista, ben possano risuonare familiari al processualpenalista. Infatti quest’ultimo può senz’altro condividere le locuzioni del professor Capponi, riguardo ad <<una giurisdizione che, di questi tempi, tende a esaltare la funzione deterrente e sanzionatoria delle norme processuali e soprattutto delle loro interpretazioni>>, secondo la logica <<della cittadella assediata: un colpo tira l’altro, nella speranza che arrivi, magari casualmente, quello che possa mettere definitivamente in fuga il nemico>> (cfr. Bruno Capponi, “Il formalismo in Cassazione”, in Giustizia insieme).
Del resto, poco più di un anno fa, sempre il Giudice convenzionale aveva aperto una breccia nella cultura dell’inammissibilità, rilevando una violazione dell’art. 7 della Convenzione da parte delle sezioni penali della Corte di legittimità italiana (cfr. volendo Daniele Livreri, “Felloni contro Italia: caso isolato o breccia nella cultura dell’inammissibilita’?” in Penale Diritto e Procedura).
Ci si potrebbe chiedere se le pronunce sovranazionali non siano che meri episodi, su cui non vale la pena soffermarsi.
Tuttavia chi scrive ritiene che i casi portati innanzi alla CEDU manifestino un rischio strutturale del sistema italiano: deflazionare impedendo l’accesso alla giurisdizione e nel caso del processo penale impedendo, anche, il maturare della prescrizione.
Al riguardo della pervasività di tale logica, per il processo civile si è rilevato che <<abbracciata da anni la logica del respingimento, il nostro legislatore ha … disseminato in modo un po’ casuale per i vari gradi fattispecie di inammissibilità, non rispondenti a una logica unitaria e a volte neppure troppo chiare nel lessico (il prototipo-modello negativo ci sembra debba continuare a essere l’art. 348-bis c.p.c.), la cui sola funzione è quella di scoraggiare e sanzionare l’accesso alle corti. Addirittura dinanzi al giudice di primo grado vediamo moltiplicarsi le pronunce di “inammissibilità” (che nascondono valutazioni sanzionatorie dell’accesso stesso al giudice)>> (cfr. Bruno Capponi, “Il formalismo in Cassazione”, in Giustizia insieme).
Nel processo penale il campo di elezione della cultura dell’inammissibilità è quello dell’impugnazione in Cassazione.
Il consueto rapporto semestrale della Corte nomofilattica (rapporto al link) indica che su 18554 procedimenti ordinari (cioè al netto dei procedimenti inerenti le misure cautelari e altri fattispecie particolari) esauriti nel primo semestre dell’anno, ben 14.146 sono stati ritenuti inammissibili, dunque una percentuale del 76.28%.
Si noti che il dato in realtà potrebbe non essere del tutto esaustivo, posto che <<oggetto delle rilevazioni statistiche operate dalla Corte sono i procedimenti e non i ricorsi>> (cfr. Fabio Alonzi “Lettura ragionata dei dati dati delle inammissibilità in Cassazione per l'anno 2016). Ciò significa che vi sono esiti di singoli ricorsi non rilevati.
A fronte di tali dati, v’è da dire che l’opinabilità dei criteri di individuazione della causa sanzionatoria è duttile strumento della propensione al respingimento.
Non è infatti un caso che oltre il 33% delle declaratorie di inammissibilità provengano da sezioni diverse da quella stralcio. Chi segue il nostro blog ricorderà che l’anno scorso avevamo considerato a campione 10 sentenze per ciascuna sezione ordinaria, rilevando come p.g. e Giudici soltanto raramente concordassero sulla inammissibilità del ricorso, peraltro sfuggita al vaglio preliminare dello spogliatore (contributi al link, al link e al link).
V’è da chiedersi se vertendosi in tema di ricorsi insuscettibili di instaurare un rapporto giuridico processuale, tali divergenze non dovrebbero essere invece assolutamente marginali.
V’è da chiedersi se lì dove a fronte di cause di inammissibilità tali da sfuggire allo spoglio preliminare e al p.g. sia giusto sanzionare economicamente il ricorrente: davvero non potrebbe ritenersi costui immune da colpa nel proporre il ricorso? (Senza dire che anni fai le Sezioni Unite "sventarono" il tentativo di estendere la condanna all'avvocato del ricorrente, nel caso di ricorso inammissibile, cfr. le sentenze "gemelle" Cass. SS.UU. nn. 40517/2016 e 40518/2016).
Ma al di là dei numeri, non si può sottacere quanto manifestato da “fonti interne” alla Corte con riferimento all’inammissibilità conseguente alla manifesta infondatezza del ricorso. Invero ormai più di un lustro fa si è segnalato <<un uso, nei casi concreti, spesso incontrollabile e qualche volta spregiudicato del potere di qualificazione dei motivi di ricorso come “manifestamente infondati”>> (cfr. Gioacchino Romeo "Allegria di naufragi" in D.P.C., 12 ottobre 2015).
A tali osservazioni hanno fatto eco quelle di altro consigliere, secondo cui si è innalzata <<sensibilmente la ‘soglia’ della ‘manifesta infondatezza’, rendendo quel parametro di apprezzamento dei ricorsi sempre più evanescente e tale da atteggiarsi come una sorta di inespresso potere di cestinazione>> (Alberto Macchia, “Prescrizione, Taricco e dintorni: spunti a margine di un sistema da riformare”, in Quest.giust., 2017, 1 ss.).
Del resto, le Sezioni Unite, prima di essere affascinate dalla “logica del respingimento”, avevano ammonito che << … il discrimine tra manifesta infondatezza e (semplice) infondatezza dei motivi è incerto e pone il giudice di fronte a una scelta talvolta opinabile>> (Cfr. S.U., 11.11.2000, n.21, Cresci e S.U., 30.06.1999, n.15, Piepoli in Foro Italiano, 2/2000). Più recentemente la Corte costituzionale ha qualificato come “scivoloso” il crinale della distinzione tra manifesta infondatezza e mera infondatezza dei motivi di ricorso (C. cost, 24.01.2019, n. 25).
Ma il Legislatore, il primo interessato a chiarire le condizioni di accesso dei suoi cittadini alla giurisdizione, è rimasto ora silente, ora impotente, spesso ansioso di introdurre nuovi quanto irragionevoli filtri, come quello previsto dall'art. 24 d.l. 137/2000 in tema di inammissibilità dell'impugnazione, a cagione dei formalismi che devono accompagnare gli atti allegati (su questo blog si veda Come e cosa si deposita ... di Marco Siragusa, al link ed inoltre il contributo Il regalo di Natale del Legislatore ..., al link).
Se il dibattito si è concentrato prevalentemente sul distinguo tra infondatezza e manifesta infondatezza del ricorso, altre “fonti interne” hanno pubblicamente lamentato l’“infondatezza” normativa del criterio di autosufficienza del ricorso e ciò pur dopo la riforma Orlando, che novellò l'art. 165 bis norme att. (cfr. Sergio Beltrani, “Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione dopo il d.lgs. 11/2018”, in Il Penalista, 12 novembre 2018).
Nonostante le criticità che accompagnano un uso così massiccio della sanzione de qua, la stessa ha guadagnato campo, financo contro il dettato normativo, estendendosi dal ricorso ai singoli motivi, sì da impedire il maturare della prescrizione per i capi della sentenza attinti dai motivi inammissibili (cfr. Sez. Un., n. 6903 del 27 maggio 2016 - dep. 14 febbraio 2017, Aiello, aspramente criticata da Oliviero Mazza, “La nuova cultura dell’inammissibilità fra paradossi e finzione legislativa”, in C.P. n. 10/2017).
A fronte di ciò, malinconicamente ci si può chiedere se la figura dell’“imputato per sempre”, introdotta dalle recenti riforme non possa attenuare in parte la “cultura dell’inammissibilità”: gli assedianti non possono più giungere all’ambito trofeo. Ma forse, con altrettanta malinconia, val la pena di rammentare che in un paese in cui pendono oltre 1.600.000 processi penali, non si può lamentare la proposizione di qualche decina di migliaia di ricorsi per cassazione: non sono troppi quest’ultimi sono un’enormità i primi.