Avevamo già dato notizia del recente soffermo delle SS.UU. (Le Sezioni Unite definiscono la tipicità della partecipazione all'associazione mafiosa alla luce dei principi di materialità e offensività. Depositata la sentenza n. 36958 dell'11.10.2021, ud. 27.5.2021 al link).
Contiamo di fornire ai lettori una serie di commenti sulla sentenza. Iniziamo con il commento che segue della Collega Mariangela Miceli, socia di CP Trapani.
Al quesito di cui sopra, le Sezioni Unite (sentenza n. 36958/2021 al link) hanno dato la seguente soluzione: “La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi.
Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione”.
La soluzione del Supremo Consesso a Sezione Unite ha messo in discussione il modello delle SS.UU. Mannino, le quali accoglievano una nozione di partecipazione ridotta alla mera affiliazione rituale. [In Cass. Sez. V, 3 giugno 2019, Geraci n. 27672], difatti, si era stabilito che “Il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si consuma nel momento in cui il soggetto entra a far parte dell’organizzazione criminale, senza che sia necessario il compimento, da parte dello stesso, di specifici atti esecutivi della condotta” programmata (riferendosi al reato di pericolo presunto).
Da quanto sopra premesso, tenuto conto dell’espresso riferimento ai principii di materialità ed offensività, le SS.UU. in ossequio al principio cogitationis poenam nemo patitur, hanno ribadito come non possa esservi reato se la volontà criminosa non si materializza in un comportamento esterno. Ed ancora, ottemperando al c.d. principio di necessaria lesività o offensività, è stato evidenziato come essendo fine ultimo del diritto penale quello della tutela di beni giuridici socialmente rilevanti, ai fini della sussistenza non basta la realizzazione di un comportamento materiale, ma è necessario che tale comportamento leda o metta in pericolo beni giuridici.
Appare chiaro che le SS.UU. abbiano chiarito se la mera affiliazione rituale alla ‘ndrangheta non accompagnata da ulteriori indicatori fattuali, sia fatto idoneo a fondare la conferma del giudizio di gravità indiziaria espresso ai sensi dell’art. 416 bis.
A questo punto, non appare superfluo ricordare che, l’art. 416 bis c.p. abbia avuto più di una ragione giustificatrice, poiché, si pone sia in rapporto di specialità rispetto al precedente art. 416 c.p. da un lato, sia perché dall’altro, la configurazione di una fattispecie incriminatrice ad hoc, tende ad un obiettivo pratico: rimediare alla spesso lamentata inadeguatezza della tradizionale fattispecie incriminatrice dell’associazione per delinquere.
Posto che, la norma di cui si discute oggi, dal punto di vista degli interessi protetti ha natura plurioffensiva e che soggetto attivo del reato può essere chiunque, per ciò che qui ci interessa, deve essere ricordato l’ultimo comma dell’art. 416 bis, il quale estende l’applicabilità delle disposizioni “alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.
La formula appena richiamata, presa alla lettera, sembra esporsi a obiezioni sotto il profilo del principio di tassatività, per porlo a riparo da censure di incostituzionalità, non rimane che considerarlo una puntualizzazione superflua, nel senso che, l’associazione che viene in questione dovrà pur sempre presentare tutti gli elementi tipici dell’associazione mafiosa: quindi si dovrà tenere conto sia dei mezzi usati sia dei fini perseguiti dagli associati di mafia.
Proprio sulla base di questo ultimo punto, le SS.UU. hanno tenuto conto sia della natura della norma, sia del suo profilo ‘strumentale’, ovvero, che l’associazione di tipo mafioso si caratterizza per la circostanza che i suoi membri si avvalgono della “forza intimidazione del vincolo associativo”.
Pertanto, nello sforzo definitorio posto in essere dal Supremo Consesso, si è posto l’accento sul carattere ‘dinamico’ e non statico della lettera della norma di cui all’art. 416 bis, posto che dalle attività di intercettazione emergevano le modalità rituali con cui i soggetti venivano ‘battezzati’ dall’associazione e ciò aveva consentito al Tribunale del riesame di Reggio Calabria di affermare l’esistenza di rapporti consortili tra i ricorrenti e i vertici del sodalizio. Tuttavia, rispetto a tali risultanze probatorie, il Collegio si è posto un problema ermeneutico preliminare, di qui l’intervento chiarificatore delle SS.UU.
Queste ultime, infatti, hanno posto in luce con la soluzione al quesito, come nel caso de quo fosse necessario sottolineare il carattere unitario degli elementi tipici del reato al fine di verificare l’unitario momento funzionale del bene giuridico protetto dalla norma, ponendo in risalto la specifica funzione strumentale nel processo di interazione sociale tra associazione mafiosa, ordine democratico e pubblico, libertà di mercato e di iniziativa economica.
Del resto, la soluzione delle SS. UU. ci ricorda come il principio di legalità con i suoi corollari quali, i principii di materialità ed offensività, abbia una genesi non strettamente penalistica, ma squisitamente politica e garantista.
Del resto abbracciando soltanto un’interpretazione della prova del fatto istantaneo della cerimonia rituale, anche la natura giuridica del reato permanente verrebbe svilita. Il rischio, nondimeno, potrebbe essere quello di dar vita ad una nuova fattispecie incriminatrice – di sola matrice interpretativa estensiva o addirittura analogica - che si porrebbe in contrasto con il principio di tipicità e di offensività, fondando l’incriminazione del reo per “chi è” e non per “ciò che ha posto in essere”, tesi nota e biasimata in dottrina, conosciuta come “diritto penale d’autore”.
In conclusione, la soluzione in commento ha evidenziato come il precetto penale, nella sua funzione di norma comando, abbia come scopo primario quello di tutelare il diritto del privato alla prevedibilità delle conseguenze penali di una condotta contraria all’ordinamento.
Tale giudizio dovrà seguire sempre un procedimento d’interpretazione della norma “sulla mera condotta”, adeguatamente sviluppato nei suoi requisiti minimi, qualora l’interprete argomenti sia sulle somiglianze che sulle differenze tra classi di casi raffrontate. Pertanto, un giudizio che non comporti il riconoscimento di tutti gli elementi di fattispecie dedotti dalla lettura della norma, dovrà concludersi con una incriminazione differente, non potendosi discostare nel procedere ad un giudizio di rilevanza dei beni giuridici protetti e dalle condotte poste dall’imputato che fanno capo alla ratio legis, quale perno dell’azione penale e delle ragioni incriminatrici.
(*) Mariangela Miceli: Avvocato del Foro di Trapani. Già dottoranda di ricerca in diritto commerciale e docente a contratto presso l'Università di Roma Unitelma Sapienza. Autrice di pubblicazioni scientifiche. Contributor per il blog Econopoly24 del Sole24ore