Durante la vigenza del precedente assetto normativo, la condotta dell’albergatore che ometteva o ritardava il versamento delle imposte di soggiorno veniva sussunta nel reato di peculato ex art. 314 cp, poiché, il titolare di una struttura ricettiva veniva considerato, seppur in via interpretativa, un agente della riscossione, un soggetto quindi qualificato e riconducibile alla categoria dell’incaricato di pubblico servizio, disciplinata dall’articolo 358 del codice penale.
Con l’approvazione del decreto rilancio, e la consequenziale legge di conversione, il legislatore pone in essere un netto cambio di rotta rispetto al passato. L’articolo 180 del decreto, infatti, qualifica l’albergatore come semplice incaricato alla riscossione, mero riscossore di fatto, soggetto al quale viene, quindi, sottratta la qualifica necessaria per configurare il delitto tipizzato dall’articolo 314 del codice penale.
Prendendo atto della nuova disciplina, che sanziona in via amministrativa la condotta di omesso versamento delle imposte di soggiorno, è opportuno soffermarsi sulle questioni di diritto intertemporale: nel silenzio del legislatore occorre chiedersi se il nuovo assetto normativo possa essere applicato anche ai fatti pregressi, in virtù della disciplina generale della successione delle leggi nel tempo, regolamentata dall’articolo 2 del codice penale.
Sul punto si è recentemente espressa la sezione sesta della Corte di Cassazione (sent. n. 36317/20) che, discostandosi da diverse pronunce della giurisprudenza di merito (v. tribunali di Rimini, Roma e Perugia), ha optato per l’inapplicabilità dell’articolo 2 non potendo, secondo i giudici di legittimità, considerarsi l’intervento del legislatore una vera e propria abolitio criminis.
Riepilogando brevemente il ragionamento della Cassazione: i giudici di legittimità affermano, come precedentemente esposto, che prima dell’intervento del decreto rilancio, il titolare di strutture ricettiva era considerato soggetto qualificato riconducibile alla categoria dell’incaricato di pubblico servizio di cui all’art. 358 cp, qualifica soggettiva che giustificava la sussunzione della condotta dell’albergatore che ometteva il versamento della imposta di soggiorno nell’art. 314 cp; successivamente, dopo l’intervento legislativo, l’albergatore non è più considerato soggetto qualificato, ma mero riscossore di fatto, semplice incaricato alla riscossione, che non possiede più la qualifica soggettiva necessaria per sussumere la condotta nell’articolo 314 del codice penale.
Conclude la Cassazione affermando che, trovandosi dinnanzi a due situazioni giuridiche astratte diverse, verrebbe meno quella c.d. continuità normativa, necessaria, secondo i giudici di legittimità, per applicare l’art. 2. cp, essendo quello del legislatore un intervento limitato a escludere una determinata categoria dal novero degli incaricati di pubblico servizio, non alterando la struttura del reato di peculato.
Il ragionamento giuridico della Corte di Cassazione non è condivisibile, poiché basato su un presupposto errato: i giudici di legittimità, infatti, si limitano a porre in essere una comparazione tra le situazioni giuridiche astratte pre e post decreto rilancio, relegando a un ruolo totalmente secondario il fatto concreto.
Ora, se si sposa l’idea della Corte di Cassazione, limitandosi a comparare le situazioni giuridiche astratte, le conclusioni logiche della sezione sesta sono incensurabili; ma se invece si fa un passo indietro, spostando l’attenzione e l’oggetto dell’analisi sul fatto concreto, allora il ragionamento dei giudici di legittimità è destinato a soccombere.
Il nostro diritto penale è un “diritto penale del fatto”, “sul fatto”, motivo per cui nel momento in cui il giurista è chiamato a valutare la rilevanza penale di una condotta, deve avviare la sua analisi inevitabilmente dal fatto concreto; fatto concreto che solo successivamente verrà sussunto nella norma incriminatrice di riferimento al fine di poterne valutare la rilevanza penale.
Ebbene, non è un caso che nell’art. 2 il legislatore utilizzi la parola fatto e non (ad esempio) la parola reato: il legislatore del 1930, infatti, redige il codice penale sposando pienamente l’idea del diritto penale del fatto.
Si tratta di una chiara scelta legislativa dalla quale, poi, la dottrina penalistica ha elaborato la c.d. teoria dell’incorporazione, secondo la quale, ai fini dell’applicabilità della disciplina disposta dall’art. 2, occorre tenere in considerazione tutti gli interventi legislativi diretti, indiretti, mediati, sul precetto penale, sulle norme penali in bianco, sulle norme extrapenali, purché l’intervento legislativo abbia ad oggetto un elemento necessario ai fini di una completa sussunzione del fatto materiale.
Fatte queste doverose premesse, appare evidente che, se si sposta l’attenzione sul fatto concreto, ci si rende conto che il fatto materiale, nonostante l’intervento legislativo, è rimasto identico: prima del decreto rilancio l’oggetto di analisi era la condotta dell’albergatore che omette di versare le imposte di soggiorno; analogamente, dopo il decreto rilancio, l’oggetto di analisi rimane la condotta dell’albergatore che omette di versare le imposte di soggiorno. Soltanto dopo la sussunzione del fatto concreto nelle norme di riferimento, pre e post decreto rilancio, ci troviamo dinnanzi a due situazioni giuridiche diverse.
Dinanzi a un’identità del fatto materiale è opportuno, anzi doveroso, chiedersi cosa è cambiato con l’intervento legislativo del maggio 2020. Non c’è motivo di dubitare che ad esser cambiata è la risposta dell’ordinamento giuridico ad una determinata situazione di fatto, la reazione dello stato ad un determinato comportamento al quale è stata indubbiamente sottratta rilevanza penale.
Non c’è ragione di dubitare sull’applicazione della disciplina dettata dall’articolo 2 del codice penale. Il legislatore pone in essere una scelta ben precisa, quella di non perseguire più penalmente una determinata situazione di fatto. Si tratta di una vera e propria abolitio criminis al cospetto della quale diversi giudici di merito hanno emesso sentenza di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Gianluca Prosperini, nato a Erice il 10 ottobre 1990. Avvocato iscritto alla Camera Penale di Trapani. Consegue la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Palermo nell'anno accademico 2015/2016 con la votazione di 108/110, discutendo una tesi in diritto penale dal titolo “la rilevanza penale dell’eutanasia tra elaborazioni filosofiche e soluzioni giurisprudenziali nazionali ed europee”. Ottiene l'abilitazione alla professione forense nella sessione 2018 presso la Corte di Appello di Palermo. Collabora con la rivista giuridica online “Salvis Juribus – fatti salvi i diritti.”