15 luglio 2022

Il coraggio (mancato) della visione: i riti poco speciali della riforma Cartabia- di Claudia Rosini

 


Spiace constatare che, ancora una volta e nonostante l’impellenza dettata dalle esigenze del PNRR, che facevano ben sperare fosse arrivata l’ora della “rivoluzione” tanto attesa del sistema giustizia, è mancato il coraggio della visione, ovvero sia il coraggio delle riforme, sia la visione complessiva della “macchina” giudiziaria, e si sia scelto di ripiegare su una miriade di micro interventi normativi in tema di riti speciali, davvero di poco respiro, che nulla potranno cambiare in termini di recupero di efficienza e di celerità nella definizione dei processi penali.

Sappiamo tutti - noi operatori del diritto, magistrati, avvocati, personale amministrativo ma anche e soprattutto utenti che del diritto sono spesso “ostaggi” – che erano necessari interventi rivoluzionari, quelli sempre attesi e che mai si è voluto mettere in atto, per frenare la corsa spasmodica ed insensata al giudizio penale, ed a quello dibattimentale visto la scarsa adesione ai riti speciali (solo l’8% delle definizioni innanzi al GIP/GUP avviene con il patteggiamento od il rito abbreviato): poderosa depenalizzazione (dei reati contravvenzionali e bagatellari, ma per l’appropriazione indebita di macchine da cialde di caffè a noleggio
deve essere fissata, incredibilmente grazie alla L. n. 3/2019, addirittura l’udienza preliminare), riforma del gratuito patrocinio, abolizione del divieto di reformatio in peius, riforma dell’art. 131 bis c.p. con innalzamento del limite edittale e la valutazione ex art. 69 c.p., riforma radicale dei riti alternativi, che tanto alternativi non sono e non sono mai stati visto la loro limitata applicazione, in assoluto contrasto con quello che era l’intento del legislatore della riforma del c.p.p. del 1988 secondo cui, giustamente, “il nuovo processo funzionerà se perverrà a dibattimento un esiguo numero di processi” (così A. Giarda Lezioni sul
nuovo processo penale, Giuffrè, Limano 1989, p. 120.).
Ci si deve allora domandare se si è voluto far funzionare quello che era il “nuovo processo penale” nel 1989, e che ormai ha oltre 30 anni, e la risposta non può che essere negativa, e ci si deve domandare ora se si riuscirà a farlo funzionare per il futuro, e la risposta, malgrado le buone intenzioni, è ancora di carattere negativo.
Si doveva avere coraggio il coraggio della visione appunto - per incidere su una situazione ormai incancrenita, ed invece ci si è limitati a pochissimi e circoscritti interventi sul codice di procedura penale, che per la loro limitatezza appaiono poco incisivi, affidandosi per il resto a strade inedite quali quelle della improcedibilità/prescrizione del processo, con l’intento salvifico di “abbattere” letteralmente quei processi che continuano, ostinatamente ma ovviamente, a proliferare.
Quali auspicate riforme sui riti speciali?
Ad avviso di chi scrive poche ma radicali, a partire dal procedimento per decreto penale di condanna e dall’ammissione che trattasi di rito poco utile e virtuoso, che è servito più che altro alla proliferazione dei procedimenti dibattimentali a seguito della sistematica opposizione avanzata dalla parte, sicché tanto varrebbe che fosse del tutto eliminato dall’ordinamento, congiuntamente, beninteso, all’opera di poderosa depenalizzazione sopra accennata.
Gran parte del ruolo monocratico di un giudice penale, che ormai è arrivato in un Tribunale di grandi dimensioni quale quello palermitano, a circa n. 450 procedimenti, è originato da decreti penali di condanna opposti, per reati bagatellari. Perché? Perché conviene, sempre, visto che il tasso di assoluzioni a seguito del giudizio è ben superiore al 50% e che anche in caso di condanna, quest’ultima sarà nella quasi totalità dei casi sospesa (trattandosi di incensurati e di reati puniti con pena ben al di sotto del limite di due anni per godere del beneficio della sospensione condizionale della pena), per cui a nessuno conviene pagare una pena pecuniaria, e dunque privarsi nell’immediatezza di risorse economiche, piuttosto che attivare il giudizio (che sarà pagato dallo Stato con il gratuito patrocinio, nella quasi totalità dei casi).
Invece di prendere atto di ciò, il legislatore ha voluto nella L. n. 134/21 incentivare il ricorso al rito monitorio (per la cui richiesta al GIP il P.M. avrà un termine di un anno, raddoppiato rispetto all’attuale, dall’iscrizione ex art. 335 c.p.p. della persona indagata nel registro) nella improbabile ottica di favorire la riscossione delle pene pecuniarie, prevedendo che per ottenere l’estinzione ex art. 460 co. 5 c.p.p. sia necessario il pagamento della sanzione nonché che, rinunciando alla opposizione, il condannato possa pagare la pena in misura ridotta di un quinto (entro il ristretto termine di 15 gg. dalla notificazione del decreto). Cosa che nessuno se ne ha la certezza farà, trattandosi o di indagati in precarie condizioni economiche che non pagano, o di soggetti che non vogliono pagare, fermo restando che conviene, per le ragioni sopra esposte, sempre e comunque fare opposizione e vedere come finisce il giudizio.
Ma il bello è che proprio con la riforma Cartabia, converrà ancora di più presentare opposizione vista la prevista improcedibilità dei processi ex art. 344 bis c.p.p., che falcidierà in primis proprio questi giudizi: in altre parole, un indagato opponente ha oltre il 50% delle probabilità di venire assolto, e per l’altro 50% di vedersi dichiarare improcedibile il giudizio in appello o Cassazione; perché allora dovrebbe pagare, se pure in misura ridotta, entro 15 gg. dalla notificazione del decreto penale di condanna? Il corto circuito delle (buone) intenzioni è palese.
Veniamo ora al patteggiamento ed al giudizio abbreviato.
Il coraggio della visione avrebbe forse imposto, oltre alla abrogazione del rito monitorio, anche la semplificazione e persino riconduzione ad unità dei suddetti riti, immaginando, ad esempio, una pena patteggiata anche per gravi delitti, con rimozione della condizione ostativa ex art. 444 co. 1 bis c.p.p. per i quali delitti si sfocia invece, nella quasi totalità dei casi, nella definizione con il rito abbreviato con abbattimento della pena in misura superiore, sino alla metà ad esempio, sì da rendere appetibile tale opzione, motivazione semplificata e limitata appellabilità. Una strada difficile, innovativa, ma che valeva la pena anche solo immaginare di intraprendere, in una visione complessiva del sistema che ed è questo il vero problema sembra mancare.
Ecco che allora si incide “un pò qua e un po’ là” con interventi che hanno il sapore della rassegnazione: si prevede che l’accordo sulla pena possa estendersi alle pene accessorie ed alla confisca (lo avevano già statuito le S.U. n. 21368/19), e soprattutto che la sentenza non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare ed “in altri casi”, quali lo vedremo, così sperando in una rivitalizzazione del patteggiamento che avrà portata, comunque, per l’effetto assai limitata.
Ancora meno significativi sono gli interventi previsti sul rito abbreviato: si prevede normativamente quello che già c’è per consolidata elaborazione giurisprudenziale, ovvero di favorire l’abbreviato condizionato ad integrazione probatoria, in considerazione dell’economia processuale che comunque ne deriva in rapporto al giudizio dibattimentale, e soprattutto l’ulteriore riduzione – ad opera del giudice dell’esecuzione - di un sesto della pena inflitta nel caso in cui l’imputato rinunci a presentare impugnazione, con l’intento – meritevole ma difettosamente elaborato di ridurre i giudizi in appello avverso defatiganti sentenze rese ex art. 438 c.p.p., quasi sempre dal GUP e tuttavia, si tratta di una previsione ad avviso di chi scrive davvero fallace, ai limiti dell’ingenuità.
Invero vengono definiti ex art. 438 c.p.p. la pressocché totalità dei procedimenti per gravi reati, quali la partecipazione di tipo mafioso ed i reati associativi in genere (si pensi a quelli sul narcotraffico), le rapine, i tentati omicidi, per i quali, vista la complessità delle questioni trattate e l’entità elevata delle pene inflitte, lo sconto di un sesto della pena non vale certo la rinuncia ad impugnare la sentenza, che in giudizio di appello o Cassazione, potrebbe essere persino ribaltata e concludersi con un’assoluzione nel merito (si pensi, appunto, ai reati associativi ed alla, spesso problematica da accertare, condotta di cui all’art. 416 bis c.p. o di concorso esterno, nonché alle innumerevoli eccezioni in materia di intercettazioni su cui quasi sempre si basa il compendio accusatorio che potrebbero essere accolte nei gradi successivi, etc.).
Altra parte dei giudizi abbreviati è invece costituita da procedimenti semplici, anche per reati di scarso allarme sociale (i furti di energia elettrica ad esempio), per i quali, parimenti, attesa la bassa entità della pena inflitta, lo sconto di un sesto della medesima non vale certo la “candela” di rinunciare ad una possibile definizione del giudizio in senso favorevole, con assoluzione od anche con la sanzione della improcedibilità ex art. 344 bis c.p.p. dichiarata in appello o in Cassazione, che per questi giudizi appare molto probabile.
Neppure degne di nota sono, infine, ad avviso di chi scrive le modifiche in tema di giudizio immediato, che non hanno nulla di realmente innovativo, mentre positivo è l’intento di incrementare, ancora di più, con il limite edittale elevato a sei anni (per il quale vale il giudizio ex art. 69 c.p. come stabilito dalla Suprema Corte) l’accesso al procedimento con messa alla prova, che è senz’altro l’unico rito alternativo “di successo” dell’ordinamento, in relazione al quale però gli Uffici EUEPE già sono sull’orlo del collasso, per l’enorme quantità dei procedimenti esistenti.
In conclusione, la rivoluzione meritoriamente immaginata con l’innovativo Ufficio del Processo e la giustizia riparatoria che (si auspica) verrà, è stata ancora una volta rinviata in punto di procedura penale, speriamo ad altre date da destinarsi.

 

Claudia Rosini
Ufficio GIP/GUP Tribunale di Palermo

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