Spiace constatare che, ancora una volta e nonostante l’impellenza dettata dalle esigenze del PNRR, che facevano ben sperare fosse arrivata l’ora della “rivoluzione” tanto attesa del sistema giustizia, è mancato il coraggio della visione, ovvero sia il coraggio delle riforme, sia la visione complessiva della “macchina” giudiziaria, e si sia scelto di ripiegare su una miriade di micro interventi normativi in tema di riti speciali, davvero di poco respiro, che nulla potranno cambiare in termini di recupero di efficienza e di celerità nella definizione dei processi penali.
Sappiamo
tutti - noi operatori del diritto, magistrati, avvocati, personale
amministrativo ma anche e soprattutto utenti che del
diritto sono spesso “ostaggi” – che erano necessari
interventi rivoluzionari, quelli sempre attesi e che mai
si è voluto mettere in atto, per frenare la corsa spasmodica ed insensata al
giudizio penale, ed a quello dibattimentale visto la scarsa adesione ai
riti speciali (solo l’8% delle definizioni innanzi al
GIP/GUP avviene con il patteggiamento od il rito abbreviato): poderosa
depenalizzazione (dei reati contravvenzionali e bagatellari, ma per
l’appropriazione indebita di macchine da cialde di caffè a noleggio
deve essere fissata, incredibilmente grazie alla L. n.
3/2019, addirittura l’udienza preliminare), riforma del gratuito
patrocinio, abolizione del divieto di reformatio in peius, riforma dell’art. 131 bis c.p. con innalzamento
del limite edittale e la valutazione ex art. 69 c.p., riforma radicale dei riti
alternativi, che tanto alternativi non sono e non sono mai stati visto la loro
limitata applicazione, in assoluto contrasto con quello che
era l’intento del legislatore della riforma del c.p.p. del 1988 secondo cui, giustamente, “il
nuovo processo funzionerà se perverrà a dibattimento un esiguo
numero di processi”
(così A. Giarda Lezioni sul
nuovo processo penale, Giuffrè, Limano 1989, p. 120.).
Ci
si deve allora domandare se si è voluto far
funzionare quello che era il “nuovo processo penale” nel 1989,
e che ormai ha oltre 30 anni, e la risposta non può che essere negativa, e ci
si deve domandare ora se si riuscirà a farlo
funzionare per il futuro, e la risposta, malgrado le buone intenzioni, è ancora
di carattere negativo.
Si
doveva avere coraggio – il
coraggio della visione appunto - per incidere su una situazione ormai incancrenita,
ed invece ci si è limitati a pochissimi e circoscritti interventi sul codice di
procedura penale,
che per la loro limitatezza appaiono poco incisivi,
affidandosi per il resto a strade inedite quali quelle della improcedibilità/prescrizione
del processo, con l’intento salvifico di “abbattere” letteralmente quei
processi che continuano, ostinatamente ma ovviamente, a proliferare.
Quali
auspicate riforme sui riti speciali?
Ad
avviso di chi scrive poche ma radicali, a partire dal procedimento per decreto
penale di condanna e dall’ammissione che
trattasi di rito poco utile e virtuoso, che è servito più che altro alla
proliferazione dei
procedimenti dibattimentali a seguito della sistematica
opposizione avanzata dalla parte, sicché tanto varrebbe
che fosse del tutto eliminato dall’ordinamento, congiuntamente, beninteso, all’opera
di poderosa depenalizzazione sopra accennata.
Gran
parte del ruolo monocratico di un giudice penale, che ormai è arrivato in un
Tribunale di grandi
dimensioni quale quello palermitano, a circa n. 450
procedimenti, è originato da decreti penali di condanna opposti,
per reati bagatellari. Perché? Perché conviene, sempre, visto che il tasso di
assoluzioni a seguito del giudizio è ben
superiore al 50% e che anche in caso di condanna, quest’ultima sarà nella quasi
totalità dei casi sospesa (trattandosi di incensurati e di reati
puniti con pena ben al di sotto del limite di due anni per godere del beneficio della sospensione condizionale
della pena), per cui a nessuno conviene pagare una pena
pecuniaria, e dunque privarsi nell’immediatezza di risorse economiche, piuttosto che attivare il giudizio (che sarà pagato dallo Stato con il gratuito patrocinio,
nella quasi totalità dei casi).
Invece
di prendere atto di ciò, il legislatore ha voluto nella L. n. 134/21
incentivare il ricorso al rito monitorio (per la cui
richiesta al GIP il P.M. avrà un termine di un anno, raddoppiato rispetto all’attuale, dall’iscrizione
ex art. 335 c.p.p. della persona indagata nel registro) nella improbabile
ottica di favorire la riscossione delle pene pecuniarie, prevedendo che per
ottenere l’estinzione ex art. 460 co. 5 c.p.p. sia necessario
il pagamento della sanzione nonché che, rinunciando alla opposizione, il
condannato possa pagare la pena in misura ridotta di un quinto (entro il
ristretto termine di 15 gg. dalla notificazione del decreto). Cosa che nessuno – se ne ha la certezza –
farà,
trattandosi o di indagati in precarie condizioni economiche
che non pagano, o di soggetti che non vogliono pagare, fermo restando che
conviene, per le ragioni sopra esposte, sempre e comunque fare opposizione e
vedere come finisce il giudizio.
Ma
il bello è che proprio con la riforma Cartabia, converrà ancora di più
presentare opposizione vista la prevista improcedibilità
dei processi ex art. 344 bis c.p.p., che falcidierà in primis proprio questi
giudizi: in altre parole, un indagato opponente ha oltre il 50% delle probabilità
di venire assolto, e per l’altro 50% di vedersi dichiarare improcedibile il giudizio in appello o
Cassazione; perché allora dovrebbe pagare, se pure in
misura ridotta, entro 15 gg. dalla notificazione del decreto penale di
condanna? Il corto circuito delle (buone) intenzioni è
palese.
Veniamo
ora al patteggiamento ed al giudizio abbreviato.
Il
coraggio della visione avrebbe forse imposto, oltre alla abrogazione del rito
monitorio, anche la semplificazione e persino
riconduzione ad unità dei suddetti riti, immaginando, ad esempio, una pena patteggiata
anche per gravi delitti, con rimozione della condizione ostativa ex art. 444
co. 1 bis c.p.p. – per
i quali delitti si sfocia invece, nella quasi totalità dei
casi, nella definizione con il rito abbreviato – con abbattimento
della pena in misura superiore, sino alla metà ad esempio, sì da rendere
appetibile tale opzione, motivazione semplificata e limitata appellabilità.
Una strada difficile, innovativa, ma che valeva la pena
anche solo immaginare di intraprendere, in una visione complessiva del sistema
che – ed
è questo il vero problema – sembra
mancare.
Ecco
che allora si incide “un pò qua e un po’ là” con interventi che hanno il sapore
della rassegnazione: si prevede che l’accordo sulla pena possa estendersi alle pene
accessorie ed alla confisca (lo avevano già
statuito le S.U. n. 21368/19), e soprattutto che
la sentenza
non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare ed “in altri casi”, quali lo vedremo, così
sperando in una rivitalizzazione
del patteggiamento che avrà portata, comunque,
per l’effetto assai limitata.
Ancora
meno significativi sono gli interventi previsti sul rito abbreviato: si prevede
normativamente quello che già c’è per
consolidata elaborazione giurisprudenziale, ovvero di favorire l’abbreviato
condizionato ad integrazione probatoria, in considerazione dell’economia
processuale che comunque ne deriva in rapporto al
giudizio dibattimentale, e soprattutto l’ulteriore riduzione –
ad opera del
giudice dell’esecuzione - di un sesto
della pena inflitta nel caso in cui l’imputato rinunci a presentare
impugnazione, con l’intento – meritevole ma
difettosamente elaborato – di
ridurre i giudizi in appello avverso defatiganti sentenze rese ex
art. 438 c.p.p., quasi sempre dal GUP e tuttavia, si tratta di
una previsione ad avviso di chi scrive davvero fallace, ai
limiti dell’ingenuità.
Invero
vengono definiti ex art. 438 c.p.p. la pressocché totalità dei procedimenti per
gravi reati, quali la partecipazione di tipo
mafioso ed i reati associativi in genere (si pensi a quelli sul narcotraffico),
le rapine, i tentati omicidi, per i quali, vista la complessità delle
questioni trattate e l’entità elevata delle pene inflitte, lo sconto di un sesto della pena non vale certo la rinuncia
ad impugnare la sentenza, che in giudizio di appello
o Cassazione, potrebbe essere persino ribaltata e concludersi con
un’assoluzione nel merito (si pensi, appunto, ai reati
associativi ed alla, spesso problematica da accertare,
condotta di
cui all’art. 416 bis c.p. o di concorso
esterno, nonché alle innumerevoli eccezioni in materia di intercettazioni –
su cui quasi
sempre si basa il compendio accusatorio – che potrebbero essere
accolte nei gradi successivi, etc.).
Altra
parte dei giudizi abbreviati è invece costituita da procedimenti semplici,
anche per reati di scarso allarme sociale (i furti
di energia elettrica ad esempio), per i quali, parimenti, attesa la bassa
entità della pena inflitta, lo sconto di un sesto della medesima non vale
certo la “candela” di rinunciare ad una possibile definizione del giudizio in senso favorevole, con
assoluzione od anche con la sanzione della improcedibilità ex
art. 344 bis c.p.p. dichiarata in appello o in Cassazione, che per questi
giudizi appare molto probabile.
Neppure
degne di nota sono, infine, ad avviso di chi scrive le modifiche in tema di
giudizio immediato, che non hanno nulla di
realmente innovativo, mentre positivo è l’intento di incrementare, ancora di
più, con il limite edittale elevato a sei anni (per il quale vale il
giudizio ex art. 69 c.p. come stabilito dalla Suprema Corte) l’accesso al procedimento con messa alla prova, che è
senz’altro l’unico rito alternativo “di successo” dell’ordinamento,
in relazione al quale però gli Uffici EUEPE già sono sull’orlo del collasso,
per l’enorme quantità dei procedimenti esistenti.
In
conclusione, la rivoluzione meritoriamente immaginata con l’innovativo Ufficio del Processo e la
giustizia riparatoria che (si auspica) verrà, è stata ancora una volta
rinviata in punto di procedura penale, speriamo ad
altre date da destinarsi.
Claudia Rosini
Ufficio GIP/GUP Tribunale di Palermo