27 giugno 2025

5 domande al Professor Adelmo Manna su recenti riforme e proposte di riforma.

 

Professore, l’attuale Governo è massicciamente intervenuto in tema di “delitti e pene”, quale cultura penale esprimono gli interventi dell’Esecutivo? 

 A mio avviso esprimono una cultura penale che è ben lontana dall’idea del diritto penale liberale come extrema ratio o addirittura dal c.d. diritto penale minimo di Luigi Ferrajoli (L. FERRAJOLI, Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Bari, 2024, spec. pag. 278 ss.), ma invece inverano la tendenza, già magistralmente delineata da Filippo Sgubbi (F. SGUBBI, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, 2019) verso il diritto penale totale, di un diritto penale di stampo simbolico-espressivo” cioè a dire populistico-sicuritario, addirittura di tendenza “bulimica”, come giustamente rilevato di recente da Giovanni Fiandaca (G. FIANDACA, La bulimia punitiva aumenterà il consenso, ma non serve a niente, in Sistema penale, 22 marzo 2025). Ciò nel senso che per l’esecutivo, che ha sostanzialmente esautorato il compito dell’organismo parlamentare, il diritto penale, dal decreto rave party, al decreto Caivano e ora anche alla legge sicurezza, esprime chiaramente la tendenza, alimentata dai mezzi di comunicazione di massa, di “calmare i bisogni emotivi di pena” solo che questa operazione si rivela, in realtà, illusoria, perché non è con l’aumento indiscriminato del numero dei reati e dell’aumento altrettanto indiscriminato della pena, soprattutto se di tipo carcerario, che si può ottenere tale risultato, quando, in realtà, si ottiene l’effetto opposto, cioè l’aumento dei suicidi in carcere -compreso quello delle guardie carcerarie- ed il fatto che la popolazione carceraria è arrivata a oltre 60 mila unità, quando il sistema carcerario italiano ne può contenere circa 40 mila.

 

L’Esecutivo ha introdotto dei reati o li ha riformati ricorrendo allo strumento della decretazione di urgenza. Per quanto si tratti di un fenomeno già noto nella storia repubblicana, non crede che l’ampiezza assunta dal fenomeno sia divenuta definitivamente incompatibile con la Carta costituzionale?

 L’utilizzazione del decreto legge in materia penale ha suscitato autorevoli critiche come quelle di Franco Bricola (voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. It., XIX, 1973, 7 ss.), che giustamente ha rilevato come la materia penale dovrebbe par excellence essere affidata al Parlamento e non già al Governo con il sistema dei decreti legge, perché necessita, vista la delicatezza e importanza della materia, che incide sulla libertà personale del cittadino, che sia il Parlamento che per l’appunto consente il più ampio gioco contrapposto di maggioranza e opposizione, di varare e in tal modo con le migliori garanzie la norma penale. Non ritengo, però, che la giurisprudenza della Corte costituzionale sia ancora giunta a dichiarare l’incompatibilità del decreto legge con la materia penale anche se, con riferimento al d.d.l. sicurezza poi diventato legge sicurezza, non va dimenticato che trattavasi originariamente di un disegno di legge, poi trasformato in decreto legge, proprio per evitare l’influenza dell’opposizione, intanto è vero che alla stessa opposizione è stato inibito il contraddittorio sostanzialmente anche nella fase di conversione del decreto legge stesso. In quest’ultima ipotesi si pone quindi -e speriamo che su questa intervenga anche la Corte costituzionale- la problematica relativa alla sussistenza delle “ragioni di assoluta necessità e urgenza” che sole consentono “l’espropriazione” del potere legislativo del Parlamento, per concederlo eccezionalmente al Governo giacché, in tal caso, le stesse non sembrano affatto sussistere.

 

Con il d.l. sicurezza è stato espunto dal nostro ordinamento il differimento obbligatorio della pena per le donne incinte o madri di prole di età inferiore ad un anno. Non Le pare che, almeno a tratti, il codice Rocco fosse più conforme alla Costituzione dell’attuale legislatore?

 In primo luogo la legge sicurezza, mi permetto di rilevare, per quanto attiene al differimento obbligatorio della pena per le donne incinte o madri di prole inferiore ad un anno, ha modificato sia il Codice Rocco del 1930 (sub specie art. 146) e, conseguentemente, il regolamento penitenziario del 1931. In secondo luogo certamente il differimento obbligatorio, seppure disciplinato all’epoca della vigenza dello Statuto Albertino, sinora è risultato più conforme anche alla vigente Carta costituzionale, giacché al contrario l’aver reso il differimento puramente facoltativo contrasta non solo con l’art. 27, comma 3, della Costituzione ma anche, e soprattutto, con l’art. 31, comma 2, Cost., che infatti “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Né, d’altro canto, la problematica costituzionale viene risolta, laddove si tratti di madri con figli di età sino a tre anni, perché per entrambi è previsto il ricovero in istituti a custodia attenuata, che però, come tali, essendo comunque di carattere limitativo della libertà personale, incidono anch’essi soprattutto con la norma costituzionale da ultimo richiamata e, per di più, sono funzionanti in maniera assai ridotta.

 

Il d.d.l., 1433 A.S., presentato dal Ministro Nordio, è volto a introdurre il delitto di femminicidio. Come giudica la proposta ministeriale ?           

In senso del tutto negativo, come anche hanno dimostrato i saggi recentemente usciti e assai critici di Giovanni Fiandaca (G. FIANDACA, Cari prof. di diritto penale, è ora di protestare contro il delitto di femminicidio, in Sistema penale, 14 marzo 2025) e di Vittorio Manes (V. MANES,  Perché il reato di femminicidio non sta in piedi, in Il Foglio, 11 marzo 2025) nonché il Documento sottoscritto da oltre settanta tra colleghe, ricercatrici e giovani studiose penaliste che si esprime in senso critico nei confronti della proposta di legge volta ad introdurre il delitto di femminicidio (Il reato di feminicidio presentato dal Governo: le ragioni della nostra contrarietà, pubblicato a cura dell’AIPDP, che infatti lo ha anche approvato, seppure solo a maggioranza). A mio avviso le ragioni contrarie all’introduzione del delitto di femminicidio riguardano in primo luogo la fattispecie criminosa, caratterizzata dalla prevalenza dei c.d. motivi a delinquere e, quindi, di un c.d. diritto penale “dell’atteggiamento interiore”, rispetto, al fatto di reato, che, ovviamente, non può che essere quasi identico a quello di cui all’art. 575 c.p. e in secondo luogo attengono all’aspetto sanzionatorio perché se è pur vero che nell’art. 575 c.p. si prevede la pena della reclusione “non inferiore ad anni 21” bisogna, però, calcolare le aggravanti, di cui ai successivi artt. 576 e 577 c.p., che pertanto conducono la pena a livello massimo, cioè all’ergastolo, ovverosia a quella pena prevista di base per il femminicidio. Con ciò intendo riferirmi alla concreta prassi giurisprudenziale, come anche avvenuto nel recente caso di cronaca dell’omicidio Cecchettin, ove in primo grado il presunto autore del reato, Turetta, ha subìto la pena dell’ergastolo, pur se non è stata riconosciuta l’aggravante della crudeltà e quella dello stalking.

 

Il Presidente della Commissione giustizia del Senato, Sen. Bongiorno, dopo alcuni efferati fatti di cronaca, ha fatto riferimento alla possibilità di ridurre l’imputabilità a 12 anni. Le pare una proposta conforme al principio di colpevolezza ?  

È una proposta che da tempo aleggia, tanto è vero che vi sono stati anche in passato settori pure attenti della dottrina penalistica, come il collega Andrea Castaldo che, proprio a causa del rigurgito della criminalità da strada, avevano effettuato analoga proposta (A. CASTALDO, Tradizione e obsolescenza nel diritto penale, in ID (a cura di), Il diritto penale del futuro, Salerno, 2006, 5 ss. e, quivi, 6). Io però, francamente, sia allora, che attualmente, sono contrario perché un individuo di anni 12 in genere non ha ancora sviluppato integralmente la sua personalità e quindi non si può sostenere fondatamente che possegga in maniera completa soprattutto la capacità di intendere, ma anche, e conseguentemente, quella di volere e pertanto -siccome è noto che l’imputabilità è strettamente collegata, facendone parte, al principio di colpevolezza, soprattutto se quest’ultimo viene inteso in senso normativo, quale “rimproverabilità” legata alla “capacità di rendersi conto del valore sociale degli atti che si compiono”- tale proposta da un punto di vista politico criminale mi sembra confermi l’attuale tendenza verso un diritto penale “simbolico-espressivo”.

 

Prof. Avv. Adelmo Manna

Emerito di diritto penale nell’Università di Foggia

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