13 settembre 2022

Riforma Cartabia - Il giudizio dell'udienza preliminare e il criterio prognostico: il GUP di Milano anticipa la riforma

 





Un'interessante pronuncia del GUP di Milano che, nel noto caso SAIPEM, s'interroga de iure condendo sulla nuova regola di giudizio dell'udienza preliminare.

Nel far rimando alla sentenza (link), riteniamo di riproporre l'excursus - come sviluppatasi prima della Riforma Cartabia - della questione che negli anni ha occupato sia la dottrina sia la giurisprudenza.

Qual è la funzione dell'udienza preliminare? E quali sono le caratteristiche del giudizio che la definisce? Può definirsi giudizio di merito la valutazione del giudice dell'udienza preliminare?

La risposta agli interrogativi necessita di un breve excursus storico alla ricerca della evoluzione dei criteri del giudizio preliminare.

Com'è noto, secondo l'impostazione originaria del codice del 1988, l'udienza preliminare aveva la funzione di filtro delle imputazioni azzardate e il giudizio del Gup rimaneva processuale.

Ma le riforme degli anni successivi hanno ridefinito qualità, funzione perimetro del giudizio preliminare.

L'art. 1 della l. 105/1993 ha “espunto” l'evidenza dal criterio di giudizio di non luogo a procedere e ha restituito all'udienza preliminare quella dignità “mortificata” dalla prassi: l’udienza preliminare era divenuta un inutile orpello ed era stata relegata a momento di mero “passaggio” dalla sequenza procedimentale a quella processuale (si ricorderà peraltro che non era ancora vigente la “barriera preclusiva” di accesso ai riti speciali e deflattivi). Sin da allora, dunque, s'era innovato lo statuto dell'udienza preliminare, adeguandone la regola di giudizio a quella sull'archiviazione: l'infondatezza della notizia di reato (art. 125 dispatt. c.p.p.).

Con la successiva riforma introdotta dalla l. 479/1999 s'è ulteriormente “ampliata” la funzione dell'udienza preliminare ed è stato attribuito al Gup il potere di integrare le indagini (art. 421-bis c.p.p.) ovvero di disporre ex officio le “prove” decisive ai fini della emissione della sentenza di non luogo a procedere.

Il nuovo statuto dell’udienza preliminare ha comportato la necessità di adeguare le regole indicate dalla giurisprudenza costituzionale sulle cause di incompatibilità. E così, alle “incompatibilità additive” della norma campione mondiale di incostituzionalità (art. 34 c.p.p.), deve ora aggiungersene un' ulteriore: quella del Gup che abbia svolto funzioni di Gip.

Infatti le valutazioni compiute dal Gip – e non più solo in relazione all'adozione di una misura cautelare personale (Corte cost.,n. 432/1995) – comportano il medesimo pregiudizio sul merito dell'accusa (Corte cost., n. 224/2001), sicché la sua imparzialità rimane assorbita e gli è preclusa la funzione di Gup.

Il giudizio preliminare s’è quindi evoluto verso un giudizio di merito, precluso alla medesima persona fisica che si è già pronunciata sulla res judicata.

A monte del non luogo a procedere v’è l’ontologica differenza della discussione da udienza preliminare: l’accusa insiste perché il procedimento acceda al processo; la difesa perché s’arresti. Entrambi “tarano” la discussione sul piano prognostico: di idoneità a sostenere l’accusa in giudizio, da una parte; di superfluità della ribalta dibattimentale, dall’altra.

Non è casuale che la terminologia utilizzata dal codice sia non luogo a procedereanziché assoluzione.

Questi essendo i piani di indagine che il contraddittorio offre al giudizio preliminare, si comprende perché la valutazione che è richiesta al Gup sia predittiva e attenga all’utilità del giudizio.

Fuori dalle ipotesi c.d. “chiuse”, nelle quali cioè l’arresto del procedimento s’impone per l’evidente insufficienza degli elementi di prova a carico e per la valutazione negativa della loro integrazione, permangono dubbi sui criteri di giudizio nel caso di soluzioni c.d. “aperte”.

Si tratta di tutti quei casi in cui il materiale offerto dall’accusa a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio appaia, in potenza, capace di ricevere un ulteriore apporto nella fase dibattimentale. Se ne ha conferma dai parametri del comma 3 dell’art. 425 c.p.p.: gli elementi insufficienti o contraddittori non rappresentano la regola del giudizio preliminare. Invero, anche elementi contraddittori a “carico” possono, in prognosi, risultare insuscettibili di ulteriore sviluppo dibattimentale e impongono il non luogo a procedere. Di converso s’imporrà il rinvio a giudizio, laddove la valutazione consenta di prevedere la soluzione dibattimentale degli elementi contraddittori.

Infatti, il giudizio preliminare non pronuncia sulla colpevolezza o sull’innocenza dell’imputato e, per quanto esso “tenda” verso il merito, si colloca nella sequenza degli atti come decisione procedimentale. Come s’è già accennato, esso è infatti calibrato sugli stessi parametri del giudizio di archiviazione (art. 125 dispatt. c.p.p.).

Quella delineata appare l’interpretazione più coerente con l’architettura del codice, pur considerata la sua evoluzione storica sul punto. Altrimenti non si spiegherebbe perché s’è voluto un decreto non motivato (che dispone il giudizio) quale alternativa all’arresto procedimentale del non luogo.

Diversamente opinando, si finirebbe per attribuire al decreto ex art. 429 c.p.p. un valore di giudizio che certamente non ha e quasi fosse un’ipoteca sul merito della cosa giudicata.

In quest’ottica, si spiegano anche i poteri officiosi in materia di prova dei quali dispone il Gup. Essi sono distinti in poteri di impulso integrativo (art. 421-bis c.p.p.) oppure di integrazione vera e propria (art. 422 c.p.p.) e tendono a superare le incertezze del proscioglimento (Marandola).

Proprio le prerogative “probatorie” del Gup offrono un ulteriore spunto nel tentativo di delineare il giudizio preliminare, muovendo dalla similitudine del disposto di cui all’art. 422 c.p.p. con quello di cui all’art. 441, comma 5, c.p.p.

In entrambi i casi la disposizione delle nuove prove trova ragione in una situazione di stallo (impossibilità di decidere allo stato degli atti) che è tuttavia differente quanto agli epiloghi decisori.

Infatti, nel primo caso (art. 422 c.p.p.) l’opzione probatoria s’atteggia come facoltativa: vi si accederà se la contraddizione e/o l’incompletezza degli elementi a carico possono risolversi nel non luogo a procedere, ma nulla toglie che la soluzione del contrasto venga affidata alla sede (dibattimentale) propria. Non a caso, infatti, nell’art. 422 c.p.p. si ripropone l’aggettivazione (evidente) che connotava il giudizio preliminare prima della riforma del 1993: il giudizio fonda sulla evidente decisività ed ai soli fini della sentenza di non luogo a procedere.

Nel caso del giudizio abbreviato (art. 441, comma 5, c.p.p.) la regola di giudizio è calibrata sul ragionevole dubbio, sicché l’opzione integrativa della piattaforma probatoria è obbligatoria laddove il surplus di prove appaia (l’unico) idoneo a risolvere lo stallo (fermo restando che, non risolto il dubbio, la decisione dovrà essere assolutoria).

Il che acclara la prevalente natura processuale del giudizio preliminare. Se, come è, si tratta di un giudizio nel quale rimane estranea l’affermazione o meno di colpevolezza, l’obbligo di integrazione probatoria rileva ai soli fini della inutile sperimentazione del dibattimento e dunque per la (eventuale) emissione della sentenza di non luogo a procedere.

A ragionar diversamente, dovrebbe immaginarsi l’anticipazione all’udienza preliminare del contraddittorio sulla prova mediante un’istruzione che si formi “lontano” dagli occhi e dalle orecchie del giudice dibattimentale.

In conclusione, siamo in presenza di una regola invertita: nel giudizio di accertamento della responsabilità il dubbio opera pro reo; nel giudizio preliminare, al contrario, il dubbio è il propellente dell’azione penale. Una conseguenza che, al di là dei tecnicismi, appare irragionevole e in contrasto con la percezione di giustiziajustice must not only be done, it must also be seen to be done).

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