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26 febbraio 2023

La ferocia del nuovo sistema processuale italiano: il rinviato a giudizio è un guilty man walking

 



A margine del Convegno organizzato dalla Camera Penale "G. Bellavista di Palermo, pubblichiamo l'intervento del presidente della Camera Penale di Trapani, avv. Marco Siragusa.

Nei prossimi giorni pubblicheremo gli interventi del dott. Giuliano Castiglia e dell’avv. Maurizio Gemelli. 


- La ferocia del nuovo sistema processuale italiano: il rinviato a giudizio è un guilty man walking - 


Buongiorno e grazie agli amici della Camera Penale di Palermo per questo invito particolarmente gradito per varie ragioni sulle quali ne prevalgono almeno tre: 1) il tema dell’incontro; 2) l’affetto per la Camera Penale Bellavista e il Foro di Palermo, essendomi formato qui, da praticante, presso lo studio dell'avvocato Nino Mormino all’epoca (1996) in cui egli era il Presidente della CP Bellavista; 3) i miei compagni di avventura, colleghi e magistrati seri ed apprezzati.


Io credo che il tema di questo incontro sia particolarmente stimolante.

Oggi discuteremo di “Le Udienze Filtro. Deflazione?” e ritengo che il punto interrogativo finale sia più che opportuno.


Perché - vedete - sullo sfondo delle riflessioni che faremo vi è certamente la Riforma Cartabia, cioè una legge di “scopo” che ha un fine dichiarato: ridurre il carico del contenzioso per centrare gli obbiettivi del PNRR con le conseguenze in termini di finanziamento che ormai tutti conosciamo.


Ma - io credo - noi faremmo torto a noi stessi se ci limitassimo a ragionare sulla modificazione della regola del giudizio preliminare introdotta dalla Riforma Cartabia, senza ragionare sui fini propri del filtro preliminare. Perché se omettessimo questa riflessione non centreremo l’obbiettivo che ci siamo dati: cercare di rispondere alla domanda del titolo di questo convegno.


E allora io vi propongo una sintesi storica, intanto senza riferimenti a norme e leggi. Una riflessione, insomma, che miri ai principi generali.


La prima considerazione da fare è che ogni procedura processuale si regge su un delicato sistema di equilibri.

L’alterazione di questi equilibri - nei quali gioca un ruolo fondamentale l’obbiettivo che il sistema persegue - non è indifferente nella “economia” della procedura.


Farò subito un esempio che spiegherà: se parliamo di udienza preliminare non possiamo trascurare il giudizio abbreviato, e non solo perché medesimo è il giudice di entrambi e analoghe sono le “piattaforme cognitive” di quel giudice (il fascicolo), sebbene come sappiamo siano “tarate” diversamente. 

Ma perché la modificazione della regola di accesso al rito abbreviato ridonda necessariamente sull’udienza preliminare e, ancor prima, sulle indagini preliminari.


Facciamo un passo avanti nel ragionamento: quando s’immaginò il nuovo codice di procedura penale - che non esiste ormai più - si cercò un “equilibrio” di sistema che tendesse al fine dichiarato: il dibattimento è la sede “naturale” per l’accertamento di un fatto. 

Il dibattimento è pubblico per consentire il controllo dei cittadini nel cui nome la giustizia è amministrata; la prova si forma nel contraddittorio tra le parti per la formazione di essa; il processo è senza fronzoli, easy quanto alle formalità; vige la libertà delle forme, il favor (impugnationis, libertatis) e via di seguito.


In questo sistema le indagini erano necessariamente preliminari e celeri; le “testimonianze” erano informazioni testimoniali sommarie; i tecnicismi erano “accertamenti”. 


Tutto il materiale raccolto dal PM, nel segreto dell’indagine, era una mera - e sottolineo mera - fonte di prova destinata ad una ed una sola funzione: determinare l’accusa all’archiviazione oppure all’azione.


Guardate che non a caso ho detto all’archiviazione, perché chi scrisse il codice del 1989 sapeva il fatto suo, al contrario dei legislatori e della giurisprudenza successiva … La regola era l’archiviazione perché la Costituzione prevede il principio di non colpevolezza.

Dunque le risultanze delle indagini - che dovevano essere per ontologia brevi - servivano solo al PM e per decidere il da farsi (art. 125 n. att. c.p.p. pre-vigente).


In quel “sistema” era coerente che laddove il PM si determinasse all’azione e chiedesse al GUP il processo, la richiesta dell’imputato di trasformare le fonti di prova in prova sulla quale rendere il giudizio di merito (id est: l’abbreviato) fosse subordinata al consenso/dissenso del pubblico ministero. E sia l’uno (il consenso) sia l’altro (il dissenso) non necessitavano di una motivazione. Necessitavano di quel che il questo disgraziato Paese rifuggiamo sempre: della responsabilità della decisione!


Sappiamo com’è andata finire: prima la giurisprudenza costituzionale e poi il Legislatore hanno trasformato l’abbreviato in un diritto potestativo: lo chiedo, e ne ho diritto.


Questa scelta - non discuto se giusta o sbagliata - non è stata indifferente per il “sistema processuale”. 

Da allora il pubblico ministero ha dovuto immaginare e costruire la sua indagine non più soltanto come preliminare ma come autosufficiente, capace cioè di resistere all’esercizio del diritto potestativo dell’imputato richiedente il giudizio abbreviato e pertanto capace di fondare non più solo le determinazioni dell’accusa sull’azione ma anche quelle sulla colpevolezza.

Con una sola eccezione che conferma la regola: l’abbreviato ostativo per i delitti puniti con l’ergastolo, voluto dallo scellerato legislatore pentastellato.

Ma qui, vedete, siamo alla cartina di tornasole: con una mano vieto di abbreviare e impongo il dibattimento; con l’altra recupero la premialità se, alla fine del dibattimento, escludo il titolo che vieta l’accesso al rito speciale. L’esatto contrario della deflazione … e dell’economicità …


Questa rivoluzione copernicana - la prima, non quella sull’abbreviato ostativo - è stata indifferente rispetto alla alterazione sistematica del codice originario? 


Da allora, e per l’effetto di quella modifica legislativa, le indagini sono diventate elefantiache nella “raccolta” di informazioni e nei “tempi” di svolgimento.


Una tendenza - quella dell’anticipazione e dell’allontanamento del dibattimento - che nel tempo è stata costante e che oggi è massima: le indagini e la cautela sono il cuore della procedura penale nel 2023.

L’esatto contrario di quell’ideologia che animava il codice del 1989…


E’ giusto? E’ sbagliato? Io ho la mia idea che non esprimo. Non lo faccio non certo per reticenza, ma perché voglio qui limitarmi a ragionare su piani di oggettività affinché ciascuno maturi un proprio convincimento sull’analisi che propongo.


Dunque la procedura è cambiata e con essa è cambiato (e cambierà ancora) il modo di esercitare la professione. Non saremo più chiamati ad imparare le magnifiche sorti e progressive della faccenda accusatoria, le indagini difensive, la comunicazione persuasiva, le tecniche dell’esame e del controesame … Non più o, per meglio dire, non più prevalentemente.


Saremo invece chiamati ad imparare a far altro: i negoziatori per l’assistito ovvero gli artificieri della bomba feroce che il sistema processuale gli appronta contro, riducendo il luogo delle garanzie: il dibattimento!


Anzi dirò di più: saremo finanche chiamati a domandare, con odiose formalità, che il nostro assistito, un cittadino presunto innocente, debba chiedere di accedere fisicamente all’aula nella quale si celebra il suo processo. Che se non lo facciamo o lo facciamo in modo formalmente scorretto non è neppure detto che l’imputato veda in faccia il suo giudice …


Affermo quindi che il sistema processuale è stato stravolto; è stato inferocito e mostra oggi il suo volto più autoritario.


Il processo non è più il luogo delle garanzie costruito intorno all’imputato per la pacificazione sociale nell’amministrazione della giustizia in nome di tutti i cittadini.


Il processo è ormai diventato “uno strumento di difesa sociale, [che è una] tipica della funzione dell’accusa”, ma che, con altrettanta certezza, non si appartiene al processo (così, Valerio Spigarelli su Il Dubbio del 16.2.2023).


E torno ancora una volta al passato: questo cambio di concezione ideologica del processo ha avuto inizio all’indomani delle stragi mafiose del 1992, quando la giurisprudenza prima e il legislatore poi hanno ritenuto di utilizzare le regole processuali come strumenti di prevenzione, funzione che è invece tipica del diritto sostanziale. E chiudo la parentesi.


Torniamo a noi, alla deflazione e riponiamoci la domanda: lo stravolgimento della regola di accertamento di un fatto (che non è più dibattimentale, ma che è  stata spostata verso l’investigazione) ridonda sulla deflazione?


Io credo che a questa domanda debba darsi - con dolore - risposta affermativa!


Una risposta affermativa che reca con sé tutte le conseguenze di quel che affermo: il processo non è più un luogo di garanzia, ma è un sistema feroce dal quale uscire nel modo meno dannoso possibile.

Prima il processo poteva essere una pena esso stesso.

Oggi rischia di diventare una tortura.

Ma la pena si può espiare, anche con cristiana rassegnazione per chi è credente.

Dalla tortura ci si può solo liberare, pietendo che essa cessi nel più breve tempo possibile.


Conosco già l’obiezione al ragionamento: il processo accusatorio “funziona” solo e soltanto se una percentuale ridotta di “casi” arriva al dibattimento.

Non funziona se la deflazione da rito speciale fallisce.


E’ una considerazione vera, verissima, ma che a mio modo di vedere prova troppo, come si dice, e si presta a numerose repliche.

Vediamone alcune.


Se si vuole veramente la deflazione del dibattimento:


  1. non v’è ragione di mantenere così tanti riti speciali, tutti differenti quanto ad effetti, scopi e procedure. E dunque tutti potenzialmente fonte di ritardi, errori e inefficienze del sistema;
  2. non v’è ragione per impedire che oggetto dell’accordo tra le parti sia anche il titolo del reato contestato;
  3. occorrerebbe consentire il “patteggiamento” senza alcun limite edittale;
  4. occorre abbandonare il panpenalismo;
  5. è necessario attuare una seria depenalizzazione;
  6. è necessario introdurre la discrezionalità dell’azione penale con l’assunzione della responsabilità conseguente alla scelta;
  7. è necessario introdurre diversi modelli di accertamento in funzione della “natura” e del “titolo” di reato;
  8. e potrei continuare …



Riassumendo e tirando le fila, prima delle conclusioni.


Abbiamo negli anni interpolato la proceduta penale del 1989, violentandola e stravolgendola.


Abbiamo spostato l’asse sulla indagini e sulla cautela, allungando i tempi e allontanando il dibattimento.


Oggi sperimentiamo anche il divieto di accesso fisico dell’imputato al palazzo di giustizia e pretendiamo la soluzione della vicenda secondo dispute alternative, che vengono offerte con “clemenza”, quasi a lenire la ferocia di una procedura che è diventata autoritaria.



Io trovo che sia sconvolgente ritrovare la cartina di tornasole del ragionamento nella modificazione della regola del giudizio preliminare e nell’estensione del filtro preliminare addirittura al giudizio monocratico.


Dico da subito che né l’una (la modifica della regola di giudizio) né l’altra (l’estensione al monocratico del filtro preliminare) avranno effetti deflativi.


Vediamo perché.

Noi veniamo da un passato in cui l’udienza preliminare era inutile.

Lo era, come ho accennato in premessa, perché negli anni abbiamo reso autosufficiente l’indagine del PM, e il GUP era chiamato a decidere su una domanda semplice postagli dall’accusa: mi fai celebrare il processo?

La risposta a quella domanda era scontata: sì, certamente.


E lo era proprio per l’autosufficienza del fascicolo del PM, che doveva essere capace non solo (come lo si era immaginato in origine) di fondare la prosecuzione della sequenza processuale (il rinvio a giudizio), ma in ipotesi di fondare la colpevolezza (in caso di richiesta di abbreviato).

E siccome la regola del giudizio preliminare era (ed è) prognostica tanto bastava a rispondere affermativamente alla richiesta di azione avanzata dal PM.


Qual era la funzione dell’udienza preliminare? 

E quali erano le caratteristiche del giudizio che la definiva? Poteva definirsi “giudizio di merito” la valutazione del giudice dell’udienza preliminare?


Queste le domande che ci ponevamo in tempi pre Cartabia e che rimangono ancora attuali.


L’udienza preliminare era un orpello della sequenza procedimentale al quale aveva cercato di restituire dignità l’art. 1 della L. 105/1993, che aveva“espunto” l’evidenza dal criterio di giudizio del non luogo a procedere.


A monte del non luogo a procedere v’era l’ontologica differenza della discussione da udienza preliminare: l’accusa insiste perché il procedimento acceda al processo; la difesa perché s’arresti. Entrambi “taravano” la discussione sul piano prognostico: di idoneità a sostenere l’accusa in giudizio, da una parte; di superfluità della ribalta dibattimentale, dall’altra.

Non è casuale che la terminologia utilizzata dal codice sia “non luogo a procedere”, anziché assoluzione.

Del resto - ricordo - la sentenza di non luogo a procedere è revocabile in caso di sopravvenienza o di scoperta di nuove fonti di prova. 

La valutazione che era richiesta al g.u.p. era predittiva e atteneva all’utilità del giudizio.


Fuori dalle ipotesi c.d. “chiuse”, nelle quali cioè l’arresto del procedimento s’imponeva per l’evidente insufficienza degli elementi di prova a carico e per la valutazione negativa della loro integrazione, permanevano dubbi sui criteri di giudizio nel caso di soluzioni c.d. “aperte”.

Si tratta di tutti quei casi in cui il materiale offerto dall’accusa a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio appare, in potenza, capace di ricevere un ulteriore apporto nella fase dibattimentale. Se ne ha conferma dai parametri del comma 3 dell’art. 425 c.p.p.: gli elementi insufficienti o contraddittori non rappresentano la regola del “giudizio preliminare”. 

Invero, anche elementi contraddittori a “carico” possono, in prognosi, risultare insuscettibili di ulteriore sviluppo dibattimentale e impongono il non luogo a procedere. 

Di converso s’imporrà il rinvio a giudizio, laddove la valutazione consenta di prevedere la soluzione dibattimentale degli elementi contraddittori.

Infatti, il “giudizio preliminare” non pronuncia(va) sulla colpevolezza o sull’innocenza dell’imputato e, per quanto esso “tenda” verso il merito, si colloca nella sequenza degli atti come se fosse una decisione procedimentale. 

Esso era coerentemente calibrato sugli stessi parametri del

giudizio di archiviazione (art. 125 disp. att. c.p.p. pre Cartabia).


In quest’ottica, si spiegano anche i poteri officiosi in materia di “prova” dei quali dispone il g.u.p.. 

Essi sono distinti in “poteri di impulso” integrativo (art. 421 bis c.p.p.) oppure di integrazione vera e propria (art. 422 c.p.p.), e “tendono a superare le incertezze del proscioglimento” (Marandola e Bronzo, Procedura Penale teoria e pratica del processo, vol. II, a cura di A. Marandola, Milanofiori Assago, 2015, 1013).


Ma proprio le prerogative “probatorie” del g.u.p. offrono un ulteriore spunto nel tentativo di delineare il “giudizio preliminare”, muovendo dalla similitudine del disposto di cui all’art. 422 c.p.p. con quello di cui all’art. 441 comma 5 c.p.p.. 

In entrambi i casi la “disposizione delle nuove prove” trova ragione in una situazione di stallo (impossibilità di decidere allo stato degli atti) che è tuttavia differente quanto agli epiloghi decisori.

Infatti, nel primo caso (art. 422 c.p.p.) l’opzione probatoria s’atteggia come facoltativa: vi si accederà se la contraddizione e/o l’incompletezza degli elementi a carico possono risolversi nel non luogo a procedere, ma nulla toglie che la soluzione del contrasto venga “affidata” alla sede (dibattimentale) propria.


Nel caso del giudizio abbreviato (art. 441 comma 5 c.p.p.) la regola di giudizio è calibrata sul ragionevole dubbio, sicché l’opzione integrativa della piattaforma probatoria è obbligatoria laddove il surplus di prove appaia (l’unico) idoneo a risolvere lo stallo (fermo restando che, non risolto il dubbio, la decisione dovrà essere assolutoria).


Il che acclara la prevalente natura processuale del “giudizio preliminare”. 


Se, come è, si tratta di un giudizio nel quale rimane estranea l’affermazione o meno di colpevolezza, l’obbligo di

integrazione probatoria rileva ai soli fini della inutile sperimentazione del dibattimento e dunque per la (eventuale) emissione della sentenza di non luogo a procedere.


A ragionare diversamente, dovrebbe immaginarsi l’anticipazione all’udienza preliminare del contraddittorio sulla prova mediante un’istruzione che si formi “lontano” dagli occhi e dalle orecchie del giudice dibattimentale.


Fino a prima della Cartabia, in conclusione, la regola del giudizio preliminare era invertita: nel giudizio di accertamento della responsabilità il dubbio opera(va) pro reo; nel giudizio preliminare, al contrario, il dubbio era il propellente dell’azione penale. 


Una conseguenza che, al di là dei tecnicismi, appariva irragionevole e in contrasto con la “percezione di giustizia”: justice must not only be done, it must also be seen to be done.


E su questa giudizio - credo da tutti condiviso, tranne forse dalla Corte di Cassazione - s’innesta l’improvvida idea di aggiungere alla norma l’inciso ragionevole previsione di condanna”.


Un’idea che trova concordi - stranamente concordi, devo dire - sia l’Avvocatura sia la Magistratura.


Mi avvio alla conclusione.


Cambierà qualcosa nella regola di giudizio preliminare? Non credo.


La funzione dell’udienza preliminare rimane prevalentemente processuale.


Se voi foste il giudice preliminare vietereste al PM di sperimentare al dibattimento la fondatezza delle ipotesi aperte?


Dunque l’unica differenza con il passato è che da adesso lo stigma del rinvio a giudizio recherà anche quello della ragionevole previsione di condanna.


Tanto sarebbe valso, come suggerisce Paolo Ferrua, prevedere l’udienza preliminare su richiesta dell’imputato oppure obbligare il GUP a motivare - assumendosene la responsabilità! - il decreto di rinvio a giudizio.


La mia opinione è dunque che con la Riforma Cartabia non cambierà nulla quanto alla regola di giudizio dell’udienza preliminare.


E credo anche che noi avvocati dovremmo seriamente pensare di proporre ai nostri assistiti la rinuncia all’udienza preliminare (io ho ormai inserito la procura speciale alla rinuncia nel modello di studio).


A meno che non si debba abbreviare o patteggiare, è preferibile che l’imputato arrivi al dibattimento per la (sua) rinuncia all’udienza preliminare, senza ipoteche sulla sua responsabilità e senza vantaggi per il PM (il rinvio a giudizio conferirà di per sé legittimazione all’indagine, snellendo la ricostruzione dibattimentale che tenderà a presumere fondata l’indagine).


Affermo: che l’imputato arrivi al dibattimento senza quello che ho definito lo stigma di un colpevole presunto, quando invece egli è un presunto innocente.


Un colpevole presunto in cammino per le fasi e i gradi del processo la cui destinazione finale sembra essere una sola: la condanna! O almeno così sono stati “ritarati” gli equilibri di sistema (si veda ad esempio l’art. 545 bis cpp).


Insomma: un guilty man walking 



Rispondo, alla fine, alla domanda del nostro incontro.


Nel caso dell’udienza preliminare, la Riforma potrà avere un effetto deflattivo: in udienza preliminare si definirà alternativamente oppure si rinuncerà ad essa.


Tuttavia per la gran parte dei reati, cioè per quelli da “citazione diretta a giudizio”, l’udienza pre-dibattimentale non è rinunciabile com’è l’udienza preliminare.


La conseguenza è che nelle ipotesi pre-dibattimentali non solo non si deflazionerà, ma si dovrà subire il processo sotto l’insegna di ragionevole colpevolezza.


Un risultato mostruoso, orribile e inutile. Anzi, feroce.


La ferocia del nuovo sistema processuale italiano: il rinviato a giudizio è un guilty man walking.


Vi ringrazio.