Intendiamoci, l’allora costituente propose un testo ("una base di discussione", secondo le sue parole) intitolato “Del potere giudiziario”, in cui si faceva riferimento sin dai primi articoli all’indipendenza del giudice e del pubblico ministero (per quest'ultimo, nell’esercizio dell’azione penale e delle altre funzioni demandategli dalla legge), rifiutando un modello in cui <<il Ministro della giustizia risponda politicamente al Governo e alle Camere del buon funzionamento della giustizia>>; tuttavia Calamandrei, pur avvertendo l’esigenza di evitare il rischio di un condizionamento del potere politico sulla magistratura, temeva anche il rischio di un corpo giudiziario in conflitto con gli altri poteri. A ciò si aggiungeva il contingente tema, rispetto al quale il giurista espresse pubblicamente delle riserve, della fedeltà di una magistratura, formatasi in altro contesto storico politico, alla neonata Repubblica.
Tutto ciò ben emerge dal resoconto
sommario della seduta del 5 dicembre 1946, durante la quale la seconda
sottocommissione iniziò la discussione sul potere giudiziario. Queste le parole dell’illustre giurista:
<<passando quindi ad esaminare quello che, a suo avviso, è il
punto più delicato di tutta la materia, e cioè i rapporti fra la magistratura e
il Governo, rileva che, con le norme previste, si avrebbe un corpo di
magistrati completamente indipendente, il quale deciderebbe delle nomine,
provvederebbe alla designazione ai vari uffici, autoeserciterebbe la disciplina
e delibererebbe delle spese. Con una magistratura così chiusa e appartata, si
potrebbero verificare conflitti con il potere legislativo o con quello
esecutivo, in quanto la magistratura potrebbe, per esempio, rifiutarsi
all'applicazione di una legge o attribuirsi il potere di stabilire criteri
generali di interpretazione delle leggi. Un caso del genere si verificò in
Francia prima della Rivoluzione e il conflitto si trascinò a lungo tra il
Governo centrale del monarca e le Corti di appello.
S'impone pertanto la ricerca
di un rimedio, per il quale possono aversi tre sistemi. Il primo è di lasciare
le cose allo stato attuale, con un Ministro della giustizia che risponda
politicamente al Governo e alle Camere del buon funzionamento della giustizia.
Rileva però che in tal caso, dovendosi attribuire al Ministro Guardasigilli
determinati poteri, verrebbe meno l'assoluta indipendenza della Magistratura,
la quale continuerebbe ad essere controllata da un organo politico, per il
tramite del Pubblico Ministero. Il secondo sistema è di ricorrere ad una
rigorosa separazione tra il potere giudiziario e quelli legislativo-esecutivo,
senza alcun organo di collegamento e con il primo Presidente della Corte di
cassazione capo assoluto della magistratura. Ma anche così non si
eliminerebbero tutti i pericoli, in quanto potrebbe sempre avvenire in astratto
che il primo Presidente della Cassazione, unendosi agli altri magistrati,
decidesse di rifiutarsi all'applicazione di una legge. Rimane allora un terzo
sistema, intermedio, da lui proposto nel suo progetto, ma per il quale dichiara
di avere egli stesso dei dubbi, consistente nella creazione di un «Procuratore
generale commissario della giustizia» rappresentante l'organo di collegamento
tra Magistratura e Governo. Tale commissario avrebbe in parte la figura del
magistrato, in quanto sarebbe scelto tra i Procuratori generali della Corte
d'appello o di Cassazione, e in parte quella di rappresentante politico, in
quanto sarebbe nominato dal Presidente della Repubblica su designazione della
Camera, prenderebbe parte alle sedute del Consiglio dei Ministri con voto
consultivo e risponderebbe di fronte alle Camere del buon andamento della
magistratura. Di modo che, essendo tale commissario il capo dell'organo di
accusa, con potere disciplinare sui magistrati, ove si verificassero
nell'interno del corpo giudiziario inconvenienti di carattere politico, a lui
potrebbesi far carico di non aver saputo esercitare le sue funzioni. Qualche
cosa di simile si ha nell'ordinamento inglese, con qualche differenziazione che
potrebbe essere indicata, ove l'argomento dovesse essere approfondito.
Ritiene che rispetto agli
inconvenienti che le altre due soluzioni indubbiamente presentano, questa terza
possa essere presa in considerazione, anche perché, personalmente, non è del
tutto favorevole a concedere alla Magistratura il massimo dell'indipendenza. In
un momento particolarmente delicato come l'attuale, in un regime che, essendo
sorto da poco e dovendo consolidarsi in un certo numero di anni, ha bisogno
della assoluta fedeltà di tutti i suoi organi, potrebbe essere pericoloso
riconoscere alla Magistratura un'autonomia assoluta, quando sulla fedeltà del
corpo giudiziario alla Repubblica possono ancora nutrirsi dei dubbi>> (resoconto al link).
Chissà se qualcuno inviterà Antonio Albanese a leggere questo resoconto, in modo da rendere a Calamandrei la complessità del suo pensiero.