Foro e Giurisprudenza, il blog giuridico della Camera Penale di Trapani, si ferma per le Festività.
Le pubblicazioni riprenderanno nel 2021.
A tutti voi i nostri Auguri di un sereno Natale e Felice 2021
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La sospensione della prescrizione disposta dai decreti legge n. 18 e n. 23 del 2020, emanati per contrastare l’emergenza COVID-19, non è costituzionalmente illegittima in quanto è ancorata alla sospensione dei processi dal 9 marzo all’11 maggio 2020, prevista per fronteggiare l’emergenza sanitaria. La cosiddetta “sospensione COVID” rientra infatti nella causa generale di sospensione della prescrizione stabilita dall’articolo 159 del Codice penale - che prevede, appunto, che il corso della prescrizione rimanga sospeso ogniqualvolta la sospensione del procedimento o del processo penale sia imposta da una particolare disposizione di legge - e quindi non contrasta con il principio costituzionale di irretroattività della legge penale più sfavorevole.
È uno dei passaggi della sentenza n. 278 depositata oggi (redattore Giovanni Amoroso), con cui la Corte costituzionale – come già anticipato nel comunicato stampa del 18 novembre scorso - ha dichiarato in parte non fondate e in parte inammissibili le questioni sollevate dai Tribunali di Siena, di Spoleto e di Roma sull’applicabilità della sospensione della prescrizione anche ai processi per reati commessi prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni, per il periodo 9 marzo -11 maggio 2020.
In particolare, il Giudice delle leggi ha dichiarato la non fondatezza delle questioni con riferimento al principio di legalità sancito dall’articolo 25 della Costituzione, mentre è stata dichiarata l’inammissibilità con riferimento ai parametri europei richiamati dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione.
Il principio di legalità – ha precisato la Corte - richiede che l’autore del reato non solo debba essere posto in grado di conoscere in anticipo quale sia la condotta penalmente sanzionata e la pena irrogabile, ma, si legge in un passaggio della sentenza, “deve avere anche previa consapevolezza della disciplina concernente la dimensione temporale in cui sarà possibile l’accertamento del processo, con carattere di definitività, della sua responsabilità penale (ossia la durata del tempo di prescrizione) anche se ciò non comporta la precisa determinazione del dies ad quem in cui maturerà la prescrizione”.
In tema di sospensione della prescrizione, l’articolo 159 del Codice penale “ha una funzione di cerniera”, spiega la sentenza, perché contiene, da un lato, “una causa generale di sospensione” che scatta quando la sospensione del procedimento o del processo è imposta da una particolare disposizione di legge, e, dall’altro lato, un elenco di casi particolari.
Nelle vicende da cui sono nate le questioni portate all’esame della Corte, opera proprio tale causa generale di sospensione.
La temporanea stasi ex lege del procedimento o del processo determina, in via generale, una parentesi del decorso del tempo della prescrizione, le cui conseguenze investono tutte le parti: la pubblica accusa, la persona offesa costituita parte civile e l’imputato. Così come l’azione penale e la pretesa risarcitoria hanno un temporaneo arresto, per tutelare l’equilibrio dei valori in gioco è sospeso anche il termine per l’indagato o per l’imputato.
La Corte, nel ricondurre la nuova causa di sospensione del processo alla causa generale prevista dall’art. 159 del Codice penale – come tale applicabile anche a condotte pregresse - ha poi precisato che essa non può decorrere da una data anteriore alla legge che la prevede.
Nella sentenza si legge, infine, che la breve durata della sospensione dei processi, e quindi del decorso della prescrizione, è pienamente compatibile con il canone della ragionevole durata del processo. Inoltre, sul piano della ragionevolezza e della proporzionalità, la norma è giustificata dalla tutela del bene della salute collettiva per contenere il rischio di contagio da COVID-19 in un momento di eccezionale emergenza sanitaria.
Il comunicato del 23 dicembre 2020 al 👉🏻 link
La Sentenza n. 278/2020 al 👉🏻 link - Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE Presidente: CORAGGIO - Redattore: AMOROSO Udienza Pubblica del 18/11/2020; Decisione del 18/11/2020 Deposito del 23/12/2020; Pubblicazione in G. U. Norme impugnate: Art. 83, c. 4°, del decreto-legge 17/03/2020, n. 18, convertito, con modificazioni, nella legge 24/04/2020, n. 27, e art. 36, c. 1°, del decreto-legge 08/04/2020, n. 23, convertito, con modificazioni, nella legge 05/06/2020, n. 40.
A cura dell'Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di Cassazione pubblichiamo il prospetto - questioni di diritto penale sostanziale e di diritto processuale penale - dei contrasti giurisprudenziali aggiornato al 30 novembre 2020.
Al 👉link Rel. 96/20 prima parte questioni sostanziali
Al 👉link Rel. 96/20 seconda parte questioni processuali
Se il procedimento disciplinare origina da fatti sanzionati in sede di giurisdizione domestica, il termine di prescrizione decorre dalla commissione del fatto. Se invece il procedimento disciplinare origina da fatti di reato in relazione ai quali sia stata esercitata l'azione penale, ed abbia come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata l'imputazione, l’azione disciplinare è collegata alla pronuncia penale ed ha natura obbligatoria. Ne segue che essa e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta. Fa eccezione il caso in cui il termine di prescrizione dell'azione disciplinare sia già maturato alla data di esercizio dell'azione penale. Invero <<... Ai sensi dell'art. 51 del r.d.l.n. 1578 del 1933, l'azione disciplinare si prescrive nel termine di cinque anni e nel caso in esame lo stesso era già maturato al momento della formulazione della imputazione. Queste Sezioni Unite hanno chiarito che «agli effetti della prescrizione dell'azione disciplinare di cui all'art. 51 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, recante l'ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, occorre distinguere il caso, previsto dall'art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, dal caso, previsto dall'art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e 7 Corte di Cassazione - copia non ufficiale RG n 19206/2020 per i quali sia stata iniziata l'azione penale. Nel primo caso, in cui l'azione disciplinare è collegata ad ipotesi generiche ed a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto; nel secondo, invece, l'azione disciplinare è collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta» (Cass., S.U., n. 10071 del 2011; Cass., S.U., n. 14985 del 2005). A tale principio ha fatto riferimento il CNF nella sentenza impugnata; ma risulta evidente la non pertinenza del principio in questione rispetto al caso di specie, atteso che al momento dell'esercizio dell'azione penale nei confronti della ricorrente (23 maggio 2003) il termine prescrizionale dell'illecito disciplinare era interamente decorso. Il richiamato principio può operare nel solo caso in cui il termine di prescrizione dell'azione disciplinare non sia maturato al momento dell'esercizio dell'azione penale o in quello, anteriore, della formulazione di una imputazione per il medesimo fatto ... PQM La Corte accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata senza rinvio, dichiarando estinto per intervenuta prescrizione l'illecito disciplinare contestato>>. |
In questo blog si è già dato conto dei diversi arresti delle sezioni semplici, in ordine alla c.d. “prescrizione Covid” nel procedimento innanzi alla Corte di Cassazione, ex art. 83 L.27/2020. Nella medesima occasione si è riferito della informazione provvisoria resa dalle Sezioni Unite del 26.11.2020 sul tema (al link).
Nelle
more della pubblicazione della motivazione resa dal massimo consesso nomofilattico,
la quinta sezione, con stringata motivazione, ha nuovamente preso posizione sul
tema (
Per
una migliore intelligenza della decisione, si rileva che originariamente l’udienza
era calendata per il 13.03.2020, quindi in una data ricompresa nel periodo di
sospensione ope legis, e poi rinviata al successivo 16.12., e quindi ad
epoca successiva al termine della c.d. fase cuscinetto.
Si
poneva dunque la questione se, nonostante la smentita del suo arresto operata,
per quanto riportato dall’informazione provvisoria, dalle Sezioni Unite, la
quinta sezione avrebbe confermato il suo precedente orientamento, espresso
dalla sentenza n. 31269, secondo cui, a fronte di una udienza calendata nella
prima fase di sospensione e differita ad epoca successiva al termine della II
fase, si configuri un unico termine di sospensione, giacché una volta adottate
le misure devolute ai Capi degli uffici giudiziari, il periodo di rinvio
obbligatorio- dal 12 maggio al 30 giugno- si salda con il primo (09 marzo- 11
maggio), previsto indistintamente a livello nazionale.
Orbene,
seppure senza richiamare le ultime Sezioni Unite, né invero il proprio
precedente arresto, la Corte ha chiarito che la durata della sospensione della
prescrizione <<deve ritenersi limitata ai 64 giorni decorrenti dal 9
marzo all’11 maggio 2020>>, non potendosi la stessa estendere al periodo
della c.d. fase cuscinetto (ricompreso tra il 12.05. e il 30.06.2020).
Al
riguardo la sentenza che si annota pare fondare il suo ripensamento sul
disposto del comma IV dell’ art. 83, L.27/20, a mente del quale la sospensione del
corso della prescrizione opera per lo stesso periodo in cui ricorre quella dei
termini processuali di cui al comma II dell’art. 83, dovendosi escludere ogni
ultra attività della sospensione.
Sul punto dunque la sezione semplice conforma il suo orientamento a quello delle Sezioni Unite, per come riportato nell’informazione provvisoria.
Il video con la registrazione del convegno al 👉 link
● Riconoscere “il diritto all'udienza”;● Stabilire il “contatto diretto” con la fonte testimoniale;●In entrambi i casi col fine di evitare il “depauperamento” delle chanche difensive.
Il Caso. Un dirigente comunale è stato condannato, con doppia conforme, per il delitto di peculato continuato (artt. 81, 314 cod. pen.), in relazione ad una vicenda che riguarda l'autoliquidazione di compensi nella quale, tra le altre cose, avrebbe omesso di astenersi in presenza di un interesse proprio.
Il Ricorso. Ricorre per la cassazione della condanna, deducendo - per quel che qui rileva - la violazione della legge sostanziale (art. 314 cod. pen.) in relazione alla affermata disponibilità giuridica delle somme e per avere i giudici di merito erroneamente ritenuto che i visti di regolarità contabile e copertura finanziaria apposti alle determinazioni di autoliquidazione costituissero controlli meramente formali. Da tale doglianza, il ricorrente deduce che egli non aveva la disponibilità giuridica delle somme oggetto di contestazione e che la condotta non integrava il delitto di peculato.
La sentenza. La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza n. 34776 ud. 22.9.2020, dep. 7.12.2020, Pres. P. Di Stefano, Rel. O. Villoni, Ric. Meloni, accoglie quest'ultimo motivo di ricorso e cassa senza rinvio la pronuncia di condanna.
La motivazione e i principi di diritto. La sentenza osserva preliminarmente come <<l'indubbia peculiarità della fattispecie non possa far velo all'essenza del delitto di peculato di cui all'art. 314 cod. pen., che consiste nell'appropriazione da parte del soggetto qualificato (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) di denaro o cosa mobile di proprietà altrui (soggetto pubblico o privato, sul tema v. per tutte Sez. 6, sent. 4 Corte di Cassazione n. 20132 del 11/03/2015, Varchetta, Rv. 263547 in fattispecie di appropriazione di denaro di privati da parte di notaio) di cui abbia la disponibilità, materiale e/o giuridica; appropriazione, inoltre, che s'invera tendenzialmente in assenza di controlli esterni, situazione quest'ultima che facilita e consente una più agevole interversione del possesso della res da parte dell'agente>>.
In effetti, la questione oggetto del giudizio riguarda proprio il concetto di cd. disponibilità giuridica da parte dell'agente qualificato di somme di denaro oggetto delle determinazioni di autoliquidazione del compenso atteso che <<il nucleo dell'accusa mossa al ricorrente consiste, infatti, nell'essersi attribuito autonomamente emolumenti retributivi che non gli competevano>>.
La Corte territoriale, condividendo la statuizione del primo giudice aveva stabilito che le determinazioni adottate dall'imputato <<furono sottoposte ad un mero visto di regolarità contabile e copertura finanziaria, limitato alla verifica della sussistenza e capienza del titolo di spesa, senza alcun controllo di piena legalità ...>>.
Sul punto, in modo ineccepibile, la Corte di legittimità ricorda come <<Il Testo Unico sugli Enti Locali d. Igs. n. 267 del 18 agosto 2000 impone per contro l'espressione di un parere tecnico necessario da parte del servizio interessato ed uno congiunto del servizio ragioneria (art. 49, comma 1) quando la proposta di deliberazione comporti un impegno di spesa nonché l'espletamento di controlli effettivi e di riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione da parte del servizio finanziario dell'ente locale (art. 184, comma 4)>>, con la conseguenza che <<risulta invero arduo qualificarli momenti di controllo irrilevanti quando non inesistenti>>.
La conclusione è nelle premesse: <<ai fini di una piena riconducibilità della condotta ascritta al ricorrente all'ipotesi di reato di peculato, il requisito della cd. disponibilità giuridica, impregiudicati i profili di illegittimità delle Determinazioni adottate in violazione di regole di contabilità pubblica (pagg. 24-25 sentenza), di previsioni di contrattazione collettiva (pagg. 27-28) o in contrasto con norme primarie di altra fonte (art. 24 d. Igs. n. 165 del 2001), che non spetta, tuttavia, a questa Corte di Cassazione sindacare in questa sede processuale ma che non postulano necessariamente la sussistenza del delitto di cui all'art. 314 cod. pen.>>.
Scarica la sentenza al link 👉 Cass. pen. Sez. VI 34776/2020
Qualche giorno fa un collega mi diceva che ormai la domenica scruta il tempo e se vede il cielo uggioso si aspetta un mio contributo più o meno delirante – in realtà lui è stato più cortese - su questo blog. Non accennando il tempo atmosferico a mutare continuo a scrivere.
Ho scelto come passatempo l’amena lettura del disegno di legge presentato dal Ministro Bonafede per la “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello”. Già il titolo non mi pare ben formulato: perché l’obiettivo della celere definizione dovrebbe riguardare il solo processo di secondo grado?
Ma in ogni caso, intraprendo la lettura della presentazione del Disegno di legge, rimanendo ben presto sorpreso dalla descrizione della riforma in tema di regole di giudizio per l’esercizio dell’azione penale e di adozione del decreto che dispone il giudizio.
Questa la frase che mi colpisce: <<non sarà più richiesta la sola sostenibilità dell’accusa in giudizio quale parametro per l’esercizio dell’azione penale o per il rinvio a giudizio, ma occorrerà che il pubblico ministero e il giudice dell’udienza preliminare siano in grado di prevedere che il giudizio dibattimentale si concluda con una sentenza di condanna del responsabile. Attraverso la formulazione di tali stringenti regole di giudizio si intende evitare inutili esperienze processuali destinate sin dall’origine ad avere esiti assolutori scontati>>.
Francamente mi pare che se questo è l’animus sotteso alla novella è meglio lasciar perdere, almeno per questa parte della riforma.
In sostanza, nell’intento di deflazionare il numero di processi, dovremmo anzitutto trasformare l’imputato in un presunto colpevole, perché mi pare che di questo si tratti, ove il rinvio a giudizio sia emesso a seguito di un giudizio prognostico di condanna e non di mera valutazione sulla sostenibilità dell’accusa.
Non poco mi stupisce poi che un Giudice sia chiamato a operare una prognosi sull’esito del giudizio a prescindere dalle prove offerte dalla difesa o anche dalla sola acquisizione delle prove in contraddittorio.
Proviamo inoltre ad immaginare cosa significherebbe per l’imputato l’esercizio dell’azione penale o peggio ancora il rinvio a giudizio in un processo che riscuota un qualche interesse mediatico. Ed ancora siamo sicuri che tutto ciò non possa avere seri riflessi lavorativi o amministrativi per il rinviato a giudizio?
Peraltro, il giudizio prognostico di condanna, salvo una mia cattiva lettura, sarebbe immotivato e forse è anche giusto, se il rinvio a giudizio resta un mero atto di impulso processuale. Ma in tal modo l’imputato non potrebbe neppure capire sulla scorta di quale ragionamento egli è diventato un “colpevole che cammina”.
Mi pare poi che anche oggi se l’esito assolutorio appare scontato, il Pubblico Ministero e il Giudice abbiano strumenti per evitare che il procedimento prosegua.
A fronte di tutto ciò non credo neppure che la invocata riforma possa deflazionare il carico processuale: davvero qualcuno pensa che, a numeri invariati, si possa pretendere che il PM e il GUP possano condurre il giudizio richiesto nel disegno di legge del Ministro? Ma, sul piano delle garanzie, questo è davvero l’ultimo degli argomenti.