15 novembre 2020

Funzione nomofilattica e funzione nomopoietica: una colta e accurata lettura critica della sentenza Bajrami - di Nicola Russo

Siamo onorati di ospitare l'accurato e dotto commento del Consigliere di Corte di Appello di Napoli, dottor Nicola Russo (*), sulla sentenza della Corte di Cassazione, SS.UU., n. 41736 del 30/05/2019 - dep. 10/10/2019, Bajrami.





IL PRINCIPIO DI IMMEDIATEZZA 

TRA VECCHI E NUOVI “ABUSI DEL DIRITTO”

di Nicola Russo (in foto)

Da più di venti anni ormai “faccio il mestiere” del magistrato, sempre e solo nel settore penale. 

In tutti questi anni ho vissuto, ascoltato e talora partecipato al dibattito sul processo penale, interessato, quest’ultimo -come un’isola distante dalle coste di un continente- da correnti cicliche ed inverse. Questo movimento continuo e incoerente ha progressivamente eroso le coste che descrivevano il luogo come l’approdo dell’Italia al modello accusatorio, frastagliandole con insenature, infiltrazioni interne, cadute di costa che hanno reso quella terra un posto non più definito.

Eppure il processo, se ben si pensa, non dovrebbe subire le medesime tensioni del diritto sostanziale penale, sollecitato a dar risposte alle spinte di politica criminale che si susseguono nel tempo (talvolta senza orizzonti di definizione accettabili). 

Il processo dovrebbe essere costruito come la “terra delle regole fisse”, quelle scolpite nella Costituzione e che indicano i principi sui quali si fonda il patto democratico di collettività nazionale e dovrebbe presidiare solo quelle, in maniera indiscutibile e duratura, nonostante le politiche criminali o, più frequentemente, le iniziative di propaganda sanzionatoria.

Volendo usare una metafora calcistica, si potrebbe dire che se il diritto penale muta nel tempo e secondo le situazioni come la tattica che una squadra adotta per conseguire il risultato favorevole, il processo penale dovrebbe, invece, rappresentare il campo di gioco, con le sue forme e dimensioni prestabilite e le sue regole di base alle quali piegarsi sempre senza cercare di mutarle pur di mettere “la palla in rete”.

Invece, il processo e le sue regole subiscono continui, progressivi e disordinati interventi che riducono il primo ad un palazzo la cui edificazione non è soggetta a controlli ed è costretto a sopportare sovrapposizioni di stili che ne cancellano la fisionomia.

A questi disorientamenti talora contribuiscono anche i tentativi della giurisprudenza di porre rimedio a prassi distorsive che si innestano, come virus malevoli, nel sistema reso fragile dall’incontrollato mutamento delle regole.

Questa premessa è, a mio avviso, indispensabile per consentirmi di procedere ad un’analisi critica -lo ammetto, fortemente critica- della soluzione adottata dalla Suprema Corte, nella sua più autorevole composizione, con la sentenza n. 41736 del 30 maggio 2019, dep. Il 10 ottobre 2019, meglio nota -secondo la moda definitoria che ci deriva dalla casistica di common law- sentenza Bajrami.

Tenterò di procedere -com’è invalso nello stile redazionale della saggistica dell’epoca moderna-per brevi riflessioni e ricorrerò ad un linguaggio volutamente piano, ai limiti del colloquiale, in modo da consentire a chi vorrà leggere di non disperdersi tra i temi e le questioni affrontati e di confrontarsi con il mio punto di vista.


1. IL FATTO

E’ da sempre buona regola, per poter comprendere la portata di una sentenza, muoversi dalla situazione di fatto che l’ha originata. Ciò allo scopo di verificare anche l’adeguatezza espressiva della massima che non sempre è in grado di sintetizzare esattamente il senso della decisione o il principio di diritto.

Qual è, dunque, la situazione processuale su cui si muove l’intervento delle Sezioni Unite?

Lo apprendiamo subito, a pag. 2 par. 1.1 del provvedimento: «nel corso del giudizio di primo grado, le prove richieste dalle parti erano state ammesse…in una composizione collegiale diversa…rispetto a quella che aveva successivamente assunto le predette prove e pronunciato la sentenza».

Subito dopo (pag.2 par. 2) si legge «dinanzi al collegio nella composizione successivamente mutata non avevano avuto luogo attività istruttorie e, comunque, in seguito, la difesa nulla aveva opposto alla rinnovazione, prestandovi quindi –sia pur implicitamente- consenso »

Partiamo dal secondo passaggio, la cui funzione -secondo le intenzioni del redattore- dovrebbe essere quella di dettagliare meglio la situazione descritta nel primo.

L’espressione “collegio nella composizione successivamente mutata” deve intendersi, nella non felice scelta espressiva, riferita al collegio originario, cioè quello dinanzi al quale l’attività svolta si era esaurita con la pronuncia dell’ordinanza ammissiva delle prove richieste dalle parti.

Dinanzi a questo collegio non era stata svolta alcuna attività istruttoria. Meno chiaro è il senso della prosecuzione del periodo in cui si evidenzia che, in seguito, la difesa non si era “opposta alla rinnovazione” prestandovi così implicitamente consenso.

L’attività dispositiva della rinnovazione d’istruttoria non pare, invero, assoggettabile ad opposizione di parte (se non nella astratta ipotesi che la difesa contesti che vi sia stato un mutamento di composizione dell’organo giudicante). Se si verte nella situazione prevista, la rinnovazione va disposta d’ufficio perché costituisce una premessa processuale all’incardinamento dell’attività istruttoria dinanzi al “giudice” subentrato.

La mia sottolineatura non vuole avere il senso di una stucchevole critica terminologica. Al contrario, vuole essere un richiamo alla considerazione che, trattandosi di una sentenza con funzione istituzionalmente nomofilattica, l’esigenza di precisione nella selezione dei termini espressivi deve essere massimamente soddisfatta. In secondo luogo, l’osservazione critica si giustifica per il fatto che, come si osserverà in prosieguo, sulla funzione e sulla portata del “consenso” la Suprema Corte sembra creare confusioni.

Orbene, tornando alla prima enunciazione del fatto compiuta dalle S.U., se tale era la situazione scrutinata (il tribunale, nell’originaria composizione, si era limitato ad ammettere le prove, poi integralmente assunte dal collegio nella composizione modificata il quale ultimo aveva pronunciato la sentenza) l’unica questione eventualmente da porsi era se fosse o meno necessaria la ripetizione dell’ordinanza ammissiva delle prove da parte del nuovo collegio. Nessuna questione di riedizione di prove si poneva dal momento che l’intera istruttoria si era svolta dinanzi allo stesso collegio che poi aveva assunto la decisione.


2. LE QUESTIONI DI DIRITTO RIMESSE ALLE SEZIONI UNITE 👉al link 


3. I PRINCIPI DI DIRITTO ESPRESSI 👉al link

3.1 SUL PRINCIPIO SUB 1 👉al link

3.2 SUL PRINCIPIO SUB 1 E 3 👉al link

3.3 IL NODO CENTRALE: IL PRINCIPIO DI DIRITTO SUB 2 👉al link


4.0 IL PERIMETRO DELLA VALUTAZIONE SULLA “MANIFESTA SUPERFLUITÀ” 👉al link

4.1. IL “MINIMUM DI DILIGENZA” PERCETTIVA ED IL PRETESO MECCANISMO COMPENSATIVO 👉al link

 

5.0 GLI ALTRI “PUNTI DI APPOGGIO” DELLA SENTENZA al link


6.0 IL PASSAGGIO FONDAMENTALE DELLA SENTENZA BAJRAMI

L’affermazione più dirompente delle Sezioni Unite è contenuta nei passaggi che, di seguito, si riportano:

Alla fine di pag. 24 si afferma che «i verbali di dichiarazioni rese dai testimoni in dibattimento dinanzi a giudice in composizione successivamente mutata, che legittimamente permangono nel fascicolo del dibattimento a seguito del predetto mutamento della composizione del giudice, possono essere utilizzati ai fini della decisione previa lettura x art. 511 cod. proc. pen., seguendo due distinti itinera iuris, ovvero: 

-soltanto dopo il nuovo esame della persona che le ha rese, se chiesto , ammesso ed ancora possibile, ai sensi dell'art . 511, comma 2; 

-anche senza la previa rinnovazione dell’esame, ove questo non abbia luogo perché non chiesto, non ammesso o non più possibile: è infatti indiscusso che nel caso di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per mutamento della persona del giudice, può essere data lettura anche d’ufficio delle prove di cui le parti non abbiano richiesto una nuova escussione (così, richiamando la sentenza Iannasso, anche Sez. U n. 1021 del 28/11/2001…Cremonese)».

Se si poteva avere ancora qualche perplessità sul fatto di aver compreso la portata dell’affermazione della Corte, ogni dubbio viene fugato a pag. 25 par. 9.2 della motivazione, ove si statuisce che:

  • 1) Il consenso delle parti alla lettura dei verbali di prove già assunte non è necessario – tra l’altro- quando la ripetizione non sia stata ammessa
  • 2) Il consenso delle parti non è rilevante quando la ripetizione dell’esame sia stata chiesta dalla parte legittimata ex art. 468 c.p.p. ed ammessa dal nuovo giudice, ma il nuovo esame non sia stato assunto, pur essendo tuttora possibile, ed in suo luogo sia stata disposta la lettura delle dichiarazioni in precedenza rese dal dichiarante dinanzi al giudice diversamente composto».

Al riguardo, in senso critico, si fa osservare:

  • il richiamo alle sentenze S.U. Iannasso e Cremonese è erroneo in quanto in nessun passaggio di queste pronunce si è giunti ad affermare che l’irripetibilità dell’esame possa dipendere dalla sua mancata ammissione da parte del giudice subentrato nella trattazione del giudizio
  • Per i punti 1) e 2) veramente non si comprendono i fondamenti giuridici delle due statuizioni, dal momento che –per il punto 1- la «non ammissione» non costituisce situazione di irripetibilità dell’esame contemplata dall’art. 511 c.p.p. e –con riguardo al punto 2- che in presenza di una richiesta di riascolto della fonte cui segua il provvedimento di ammissione, per potersi evitare la rinnovazione dell’esame il consenso delle parti è assolutamente indispensabile (oltre che ovviamente rilevante)


7.0 L’ABUSO DEL DIRITTO, L’ESSENZA DELLA PROVA DICHIARATIVA E UNA POSSIBILE STRADA ALTERNATIVA

La critica, sia pur serrata, al percorso argomentativo seguito dalla Corte non intende sottacere le ragioni che lo hanno determinato. È notorio che molto spesso la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale si presti ad essere strumento di prassi dilatorie volte ad inutili allungamenti dei tempi del processo senza che ciò sia legato ad una necessità di osservanza effettiva del principio di immediatezza (le cui ascendenze costituzionali ex art. 111 comma 2 primo periodo Cost. sembrano non più discusse). Pertanto, si avverte l’esigenza di un rimedio che tenga in giusto equilibrio, da un lato, il valore della decisione assunta dal giudice dinanzi al quale la prova s’è formata e, dall’altro, la ragionevole durata del processo.

Ma l’attenzione a questo secondo profilo e alla necessità di arginare prassi abusive, non deve far dimenticare l’essenza della prova dichiarativa. L’esperienza giudiziaria insegna che non può mai affermarsi in maniera netta che –in caso di sua riedizione- la prova resti un’entità a struttura statica o cristallizzata, dal momento che il convergere degli interventi delle parti processuali sulla fonte probatoria determina una connotazione dinamica dei contenuti della dichiarazione. Insomma, una dichiarazione testimoniale non può quasi mai avere, in tutti i suoi singoli elementi espressivi, il medesimo ed identico contenuto.

Ad esempio, appare apodittica (almeno nei termini assoluti in cui è resa) l’affermazione contenuta nella motivazione delle Sezioni Unite (e non solo in essa…) secondo cui un teste, che sentito la prima volta manifestava di non ricordare una circostanza, subisca un progressivo deterioramento del ricordo in caso di ascolti successivi nel tempo. A ben vedere, non può escludersi che proprio una nuova e diversa sollecitazione della memoria evochi un ricordo precedentemente non adeguatamente stimolato.

Se, dunque, non si vuole attendere un intervento normativo che renda regola ordinaria la previsione eccezionale dell’art. 190bis c.p.p. (la cui incompatibilità con la copertura costituzionale del principio di immediatezza è stata esclusa e tale esclusione non è stata fondata -né avrebbe potuto esserlo- sulla circostanza che si tratti di una situazione eccezionale connessa alla gravità dei reati considerati, dal momento che manca nell’art. 111 comma 2 Cost. il riferimento ad eccezioni ricollegabili al maggior allarme suscitato dal reato), forse è possibile pervenire allo stesso risultato assunto come obiettivo dalla sentenza Bajrami senza creare fratture del sistema processuale.

Sul piano interpretativo occorrerebbe, innanzitutto, superare l’attuale esegesi dell’art. 511 comma 2 c.p.p. secondo cui, anche in caso di rinnovazione, non si potrebbe mai dare lettura delle dichiarazioni rese dinanzi al precedente giudice senza procedere al preventivo esame della fonte. In realtà l’art. 511 presuppone che nella fase procedimentale considerata il soggetto non sia stato mai sentito in contraddittorio. Ciò, invece, non accade quando la fonte è stata già sottoposta a cross examination nella medesima fase procedimentale (come accade nei casi in cui sia mutata la persona fisica del giudice in corso d’istruttoria).

Infatti il capoverso dell’art. 511 c.p.p. va letto in correlazione con il comma che lo precede e che presuppone una preesistente presenza nel fascicolo del dibattimento del verbale di dichiarazioni rispetto al momento dell’ascolto diretto della fonte. Nel caso di dibattimento rinnovato i verbali di dichiarazioni hanno avuto ingresso per la prima volta nel fascicolo solo dopo e per effetto della formazione orale della prova e ciò pone questa situazione fuori dalla disciplina dell’art. 511 comma 2 c.p.p.. Inoltre l’espressione utilizzata dall’art. 511 c.p.p. ha un contenuto neutro («non ha avuto luogo») e non richiede necessariamente che l’irripetibilità dell’esame orale dipenda da circostanze estrinseche e non superabili (come è invece nel caso dell’art. 512 c.p.p.).

Un ulteriore argomento, sia pur di raffronto, a sostegno della possibilità di dare ingresso all’utilizzazione probatoria in fase dibattimentale di verbali di dichiarazioni non preceduto dall’ascolto della fonte si trae, infine, dalla lettera dell’art. 514 c.p.p. che–fuori dai casi di cui agli artt. 511, 512, 512bis e 513 c.p.p.- eccettua dal divieto di lettura a fini acquisitivi i verbali documentativi dell’esame dei soggetti che siano stati sentiti nelle forme della cross examination nell’udienza preliminare. Di questi verbali non v’è dubbio che si possa dare lettura ed immediata utilizzazione in dibattimento senza procedere necessariamente all’esame dibattimentale dei dichiaranti.

La norma sulle letture, del resto, fissa una regola che non è collegata al principio di immediatezza bensì a quello di oralità e non v’è dubbio che la lettura consentita ai sensi dell’art. 511 c.p.p. è finalizzata all’utilizzazione probatoria di quegli atti.

Dunque, in caso di rinnovazione del dibattimento, rispettata la necessità di ripetizione della sequenza procedimentale, il giudice è tenuto a rinnovare l’ordinanza ammissiva di prove ed a riammettere le richieste delle parti scrutinandole secondo l’originario potere di vaglio ai sensi degli artt. 190 e 495 c.p.p.. Tuttavia, per le prove dichiarative già formate in precedenza, il giudice subentrato potrebbe procedere, su richiesta della parte legittimata e senza necessità del consenso della controparte, direttamente alla lettura dei relativi verbali di dichiarazioni senza riedizione dell’esame, dal momento che la situazione considerata si pone all’esterno dell’area applicativa dell’art. 511 comma 2 c.p.p.

Al contrario, in presenza di richiesta di riascolto della fonte, formulabile solo dalla parte legittimata (perché l’aveva inserita nella propria originaria lista testi) il giudice –se ritiene che la prova non sia manifestamente superflua o irrilevante- dovrà procedere a riassunzione del suo esame.

Resterebbe fermo, infine, il potere delle parti (a prescindere dalla circostanza se il testimone abbia fatto parte della propria lista) di chiedere, dopo la lettura, l’ascolto della fonte su fatti ulteriori sollecitando i poteri del giudice ex art. 507 c.p.p.

Questa soluzione limiterebbe le occasioni di riascolto della fonte di prova ai soli casi effettivamente necessari ed impedirebbe inutili dilazioni.

Non si porrebbe nemmeno un problema di superamento in via ordinaria della situazione eccezionale prevista dall’art. 190bis comma 1 c.p.p., dal momento che -in caso di rinnovazione- la parte che aveva inserito in lista il teste già sentito in precedenza e che non ha interesse al riascolto diretto, si limiterà a chiedere la lettura del verbale delle sue dichiarazioni (cui, come detto, non osterebbe la previsione dell’art. 511 c.p.p.) e la controparte che non l’avesse anch’essa messa in lista nulla potrà opporre. Dunque, non vi sarebbe una nuova richiesta di ascolto del teste, che fa da presupposto alla regola dell’art. 190bis c.p.p..

Se il meccanismo diretto di lettura delle dichiarazioni è legittimamente finalizzato all’acquisizione probatoria del loro contenuto informativo, non v’è più nemmeno un problema di rispetto della previsione dell’art. 525 c.p.p., dal momento che vi sarebbe identità tra il giudice che “ha partecipato al dibattimento” (assumendo le prove secondo i vari canoni di ingresso delle stesse, dunque anche attraverso la lettura) ed il giudice che ha emesso la sentenza.

D’altronde l’art. 525 c.p.p. si riferisce genericamente alla «partecipazione al dibattimento» e non all’assunzione della prova dichiarativa in senso specifico. La partecipazione al dibattimento può esplicarsi anche presiedendo all’ingresso di prove in forma diversa (quali appunto quelle rese orali ed utilizzabili mediante lettura).

La conformità al dettato costituzionale dell’art. 111 della lettura in luogo della riedizione di un esame testimoniale (che, però, abbia avuto un suo momento realizzativo originario in contraddittorio) è d’altra parte già riconosciuta, come detto, nei casi contemplati dall’art. 190bis c.p.p..

In conclusione, è sicuramente comprensibile lo sforzo compiuto dalla Cassazione di arginare le consuetudini dilatorie che asservivano a questo scopo il principio di immediatezza e, purtuttavia, questo tentativo è stato spinto lungo un tracciato che rischia di disarticolare la struttura del dibattimento penale (e le poche certezze su cui ancora si regge). Questo “statuire per obiettivi” presta il fianco al rischio in futuro di “onde di ritorno” che, al primo malumore legislativo per le ricadute di questa soluzione in processi sensibili, potrà portare all’introduzione di norme di assoluta retroguardia. 

In definitiva, dalle Sezioni Unite la giurisprudenza tutta si aspetta l’esercizio sapiente della funzione nomofilattica. Quella nomopoietica forse sarebbe meglio lasciarla ad altri.



BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: 

F. Lombardi, Dalle Sezioni Unite “Bajrami” un vademecum sulla rinnovazione del dibattimento a seguito del mutamento del giudice, in Giurisprudenza Penale, 2019, 10

A. Montagna, Il giudice cambia nel corso del processo: cosa si salva? La risposta delle Sezioni Unite, in Il Quotidiano Giuridico, 14/10/2019

A. Di Tullio D’Elisiis, Cosa impone il principio d’immutabilità del giudice: un chiarimento da parte le Sezioni Unite, in Altalex, 14/11/2019

L. Miazzi, L’immutabilità del giudice del dibattimento dopo la sentenza delle SS.uu. “Bajrami”: istruzioni per la sopravvivenza, in GiustiziaInsieme, 29/11/2019

A. Mangiaricina, Immutabilità del giudice versus efficienza del sistema: il dictum delle Sezioni Unite, in Processo Penale e Giustizia, 2020, fasc. 1

R. Muzzica, La rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice: un impulso della corte costituzionale per una regola da rimeditare, in Diritto Penale Contemporaneo, 3/06/2019


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(*) Nicola Russo si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli dove  ha conseguito pure il diploma di specializzazione in diritto e procedura civile. Per oltre 15 anni ha svolto attività di docenza universitaria presso la cattedra di Procedura penale. È autore di numerosi articoli e monografie in diritto e procedura penale e civile. Magistrato dal 1997, ha svolto funzioni di giudice del dibattimento penale, della Corte d’Assise e di gip/gup nei Tribunali di Torre Annunziata e di Napoli. Attualmente è consigliere della Corte di Appello di Napoli. Dal 2008 al 2011 è stato componente del comitato scientifico del CSM, coordinandone anche il settore penale nel 2010.  Dal febbraio 2016 al febbraio 2020 è stato componente del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura. In tale ambito ha coordinato il settore della formazione iniziale, della formazione territoriale e dell’innovazione. Dal 2016 è docente presso la Scuola internazionale di Alta formazione per la prevenzione ed il contrasto al crimine organizzato. Nel 2018 ha compiuto missioni di assistenza tecnica in Salvador ed in Brasile nell’ambito dei progetti UE PAESCA3 ed EL PACCTO. È consulente a tempo parziale della Commissione parlamentare antimafia.

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