Siamo onorati di ospitare l'intervento dell'avvocato Nicola Galati (*) su temi di drammatica attualità.
nella foto, Nicola Galati
Il riacutizzarsi della crisi pandemica in Italia ha nuovamente portato all’attenzione dell’opinione pubblica l’emergenza sanitaria in carcere.
L’Organizzazione mondiale della Sanità, fin dall’inizio della pandemia, aveva lanciato l’allarme circa la possibile diffusione del contagio negli istituti di pena. Le condizioni di vita intramurarie, con molte persone che vivono ristrette in spazi limitati ed a stretto contatto per lunghi periodi di tempo, aumentano il pericolo di diffusione della malattia non solo all’interno degli istituti (essendo impensabile escludere in toto i contatti con l’ambiente esterno).
La difficoltà di rispettare accuratamente le norme igienico-sanitarie, l’impossibilità di mantenere il distanziamento e la condivisione degli ambienti favoriscono la diffusione del contagio. Tra la popolazione ristretta, inoltre, è elevato il numero delle persone maggiormente esposte al rischio di gravi conseguenze in caso di contagio: anziani, soggetti afflitti da malattie pregresse, persone immunodepresse. Le carceri sono, pertanto, delle bombe epidemiologiche.
La situazione italiana è, inoltre, aggravata dal sovraffollamento che rende più difficoltoso il distanziamento ma soprattutto riduce gli spazi disponibili per l’isolamento e la cura dei contagiati. Ad oggi le persone detenute sono 54.809 su 47.187 posti realmente disponibili (dati tratti dal Punto n. 3 del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale datato 7.11.2020).
Intanto i numeri dei contagi in carcere crescono sempre di più da settimane: il Garante nazionale, il 7 novembre, ha dato la notizia di circa 400 detenuti positivi e di un valore più alto tra il personale. La situazione allarmante ha spinto il Governo ad intervenire con alcune disposizioni del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137.
Con l’art. 28 (che riprende quanto previsto nell’art. 124 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 convertito con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27) è stata introdotta la possibilità di concedere al condannato ammesso al regime di semilibertà licenze con durata superiore ai 45 giorni annui, salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura. La durata delle licenze non può estendersi oltre il 31 dicembre 2020.
Misura che eviterà ai soggetti che trascorrono parte del giorno fuori dall’istituto di rientrare quotidianamente accrescendo il rischio di essere veicolo del contagio.
L’art. 29 prevede la concessione di permessi premio anche in deroga ai limiti temporali indicati nell’art. 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, fino alla data del 31 dicembre 2020, ai condannati cui siano stati già concessi tali permessi e che siano stati già assegnati al lavoro all’esterno o ammessi all’istruzione o alla formazione professionale all’esterno.
Non sono mancate le critiche (ad esempio da parte del Garante nazionale e di Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto) alla scelta di prevedere tale doppio criterio che limita eccessivamente la portata applicativa della norma.
La misura, inoltre, non si applica a coloro che sono stati condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 e dagli articoli 572 e 612-bis c.p.
Inoltre, non è concedibile a chi è stato condannato per i delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza e per i delitti di cui agli articoli 416-bis c.p., o commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, anche nel caso in cui abbia già espiato la parte di pena relativa ai predetti delitti quando, in caso di cumulo, sia stata accertata dal giudice della cognizione o dell’esecuzione la connessione ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettere b e c, c.p.p. tra i reati la cui pena è in esecuzione. In questi casi viene, quindi, previsto dal legislatore un espresso divieto di scioglimento del cumulo.
Infine, l’art. 30 ricalca pedissequamente l’art. 123 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di detenzione domiciliare. La norma prevede che la pena detentiva possa essere eseguita, dalla data di entrata in vigore del decreto e fino alla data del 31 dicembre 2020, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena.
Sono esclusi: i detenuti condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 e dagli articoli 572 e 612-bis c.p.; i delinquenti abituali, professionali o per tendenza; i detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stato accolto il reclamo previsto dall’articolo 14-ter della medesima legge; i detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per le infrazioni disciplinari di cui all’articolo 77, comma 1, numeri 18, 19, 20 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230; i detenuti nei cui confronti, in data successiva all’entrata in vigore del presente decreto, sia redatto rapporto disciplinare ai sensi dell’articolo 81, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 in relazione alle infrazioni di cui all’articolo 77, comma 1, numeri 18 e 19 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230; i detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato.
Inoltre, è stato introdotto alla lett. a) del comma 1 dell’art. 30, innovando rispetto alla norma entrata in vigore nel marzo scorso, il medesimo divieto di scioglimento del cumulo previsto dal comma 2 dell’art. 29.
Tranne che per i condannati minorenni o i condannati la cui pena da eseguire non è superiore a sei mesi è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici.
La norma ha suscitato le medesime perplessità che avevano investito l’art. 123 del Decreto “Cura Italia” circa l’effettiva efficacia della misura. Le numerose eccezioni previste e la subordinazione, per la maggior parte dei casi, alla disponibilità dei braccialetti elettronici (la cui scarsità è cronica) ne limitano eccessivamente la portata applicativa. Critiche che si sono dimostrate fondate dato che la norma precedente ha avuto un ambito di applicazione molto minore rispetto a quanto era stato stimato ed il forte calo del numero delle persone ristrette, che ha evitato il verificarsi di una catastrofe sanitaria, è stato prodotto dai provvedimenti adottati dalla Magistratura sulla base delle norme preesistenti.
Un’altra criticità legata alla formulazione della norma in esame riguarda i soggetti senza fissa dimora, espressamente esclusi dall’accesso alla detenzione domiciliare in quanto privi di un domicilio effettivo ed idoneo. Trattasi di problematica annosa e spesso trascurata che si è ripresentata con forza in questa fase emergenziale. Nei mesi scorsi vi sono stati meritevoli interventi della Cassa delle Ammende e della Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova che hanno avviato e finanziato progetti volti a favorire l’accesso alle misure alternative per i detenuti privi di fissa dimora. L’auspicio è che non restino provvedimenti sporadici ed isolati.
Nessun intervento, come accaduto nella primavera scorsa, è stato invece adottato con riferimento a coloro i quali sono sottoposti alla custodia cautelare in carcere, che costituiscono quasi un terzo dei soggetti attualmente presenti nelle carceri.
Recentemente Giovanni Salvi, Procuratore generale della Corte di cassazione, ha inviato ai Procuratori generali presso le Corti d’appello una comunicazione, che riprende quella del 1° aprile, in cui si consiglia di limitare la richiesta e l’applicazione delle misure cautelari, di procrastinare l’esecuzione delle misure già emesse, di valutare attentamente l’indispensabilità degli arresti, di evitare di eseguire le condanne definitive a meno che il condannato possa mettere in pericolo la vita o l’incolumità delle persone.
Iniziativa indiscutibilmente lodevole e necessaria in questo momento ma che lascia trasparire un altro problema irrisolto: il ricorso eccessivo alla custodia cautelare in carcere. Il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio sempre e non solo nelle fasi emergenziali, senza che sia il Procuratore generale a doverlo ricordare a chi di dovere.
Finora, pertanto, il Governo si è limitato alla riproposizione di misure già rivelatesi insufficienti in quanto non idonee a produrre una netta diminuzione delle presenze in carcere così da poter affrontare la nuova ondata di contagi e scongiurare esiti infausti.
La speranza è che, in sede di conversione in legge del decreto, siano adottate misure maggiormente incisive.
Le proposte non mancano: aumentare il limite di pena detentiva eseguibile presso il domicilio escludendo l’obbligo del braccialetto elettronico; prevedere la detenzione domiciliare per i detenuti anziani e per i detenuti affetti da gravi patologie, i soggetti maggiormente esposti al rischio di conseguenze serie in caso di contagio; sospendere l’ordine di esecuzione delle pene brevi; introdurre una liberazione anticipata speciale.
A proposito di liberazione anticipata speciale, si segnala una proposta di legge d’iniziativa del deputato Giachetti, elaborata con la collaborazione del Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito e dell’associazione Nessuno tocchi Caino, poi tradotta in un emendamento al “Decreto Ristori”. La proposta prevede, per i due anni successivi alla data di entrata in vigore, una detrazione di pena pari a settantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata.
In attesa di auspicabili nuovi incisivi interventi, si conferma l’italica tendenza ad ignorare i problemi fino alla loro tragica esplosione. Il sovraffollamento affligge ormai da anni il nostro sistema carcerario ma soltanto a causa dell’emergenza sanitaria si è tentato, timidamente, di intervenire per ridurlo. Anche il ben noto rischio di diffusione della pandemia all’interno del carcere è stato inizialmente colpevolmente trascurato.
Certo, il dibattito pubblico su questi temi è inquinato da un dilagante giustizialismo che, in nome di un frainteso principio della certezza della pena, giunge persino a negare il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti.
Appare, però, paradossale l’operato di un Governo che ha limitato le libertà dei cittadini liberi per tutelarne il diritto alla salute ma non ha tutelato il diritto alla salute dei detenuti per presunte ragioni di sicurezza pubblica.
(*) Nicola Galati è Avvocato del Foro di Palmi. Collabora con Penale Diritto e Procedura, Percorsi Penali ed Extrema Ratio.