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08 agosto 2021

Le ragioni di un rifiuto - del professor Paolo Ferrua

Prosegue sul nostro blog il dibattito sulla Riforma Cartabia. Dopo gli interventi dei professori Giorgio Spangher (link) e Bartolomeo Romano (link) e il confronto tra Cataldo Intrieri (link) e Marco Siragusa (link), oggi siamo davvero onorati di ospitare l'intervento di Paolo Ferrua, Professore emerito di procedura penale nell'Università di Torino.





1. Garantisti e Forcaioli: nessuna alleanza - Devo una risposta all’amico Cataldo Intrieri, a cui mi lega sincero affetto, e a quanti deplorano la stupefacente alleanza che si sarebbe creata tra forcaioli e garantisti nel combattere la riforma c.d. Cartabia (Il Dubbio e su questo blog al link). Per intanto il semplice fatto che due forze – chiamiamole così, anche se l’accademia è priva di potere e, talvolta, anche di sapere – combattano il medesimo avversario non crea di per sé alcuna "alleanza" né le assimila minimamente: si potrebbero citare mille esempi al riguardo.

 Ma veniamo agli argomenti. Cataldo, in sostanza, dice che noi, come garantisti, dovremmo scegliere il "meno peggio" che è la riforma Cartabia rispetto al "peggio" che è la riforma Bonafede (si riferisce al documento pubblicato su Il Dubbio al link). 

Il discorso potrebbe avere un minimo di validità se fossero in pericolo i fondamenti dello stato democratico per effetto di una delle due riforme. In realtà, né la riforma Bonafede né la riforma Cartabia realizzano un golpe. La prima è semplicemente reazionaria. La seconda non possiamo certo definirla tale, ma in compenso "scassa" i principi e le regole del processo penale, anche nella sua disciplina costituzionale, alla quale sono piuttosto affezionato.

Come studioso che passa - o forse perde - il suo tempo ad analizzare questa diavoleria che è il processo penale, io non scelgo né l’una né l’altra, ma continuo a sostenere la terza via, rappresentata dalla prescrizione sostanziale. Che allo stato, secondo Cataldo, questa terza via non sia attuabile – ma bisogna intendersi su cosa significhi "attuabile" - non mi turba per nulla. Non è un buon metodo quello di rinunciare a qualsiasi cosa che non sia immediatamente all’ordine del giorno; si tratta, semmai, di agire perché sia posta finalmente all’ordine del giorno. 


2. I giochetti di parole - Proverò, dunque, a riassumere gli argomenti sulla cui base devo rifiutare la riforma Cartabia.

Non dimentichiamo in primis come esordisce la nuova "improcedibilità". La commissione Lattanzi aveva proposto, come scelta prioritaria, il ripristino della prescrizione in sede di impugnazione, con vari correttivi. Quel ripristino non riesce gradito ai pentastellati, ai quali la caduta della prescrizione nei gradi di impugnazione, operata dall’ex ministro Bonafede, appare come un obiettivo irrinunciabile, un articolo di fede. Il tono delle dichiarazioni è più o meno di questo tenore: "non si parli di ritorno alla prescrizione!". 

È allora che qualcuno ha un’idea volta a propiziare l’agognato consenso dei pentastellati. Trovare un’alternativa che, anche sul piano linguistico, eviti di evocare l’idea della detestata prescrizione; in sostanza, pensare a un gioco di parole in cui attirare i pentastellati, non propriamente definibili come raffinati cultori di teoremi giuridici. La prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato non si presta a questa soluzione, non potendo essere diversamente designata. La prescrizione ‘processuale’, invece, sì, perché tronca il processo, senza estinguere il reato, con una sentenza di non doversi procedere. Dunque, può benissimo essere chiamata "improcedibilità", amputando la parola prescrizione. E così avviene, perché da quel momento la prescrizione processuale – sino allora sempre chiamata "prescrizione" – si converte nominalmente in "improcedibilità", pur restando strutturalmente tale e quale. 

La prova riesce e al Consiglio dei ministri, convocato l’8 luglio 2021, i ministri pentastellati, sedotti dalla nuova denominazione, votano gli emendamenti, cadendo nell’illusione referenziale; o meglio, fingendo di cadere, perché verosimilmente, nell’intimo, hanno ben compreso che in realtà veniva loro offerta una ‘prescrizione’, forse più minacciosa ancora, per le sorti del processo, rispetto alla prescrizione sostanziale, come causa estintiva del reato. Importante, per non essere umiliati, era che sulla parola "prescrizione" cadesse una sorta di tabù, un divieto biblico di "nominazione". Triste epilogo che vede la politica scendere al suo più basso livello, riducendo il processo a teatro delle ragioni di Stato. 

Scriverà su la Repubblica del 6 luglio 2021 Liana Milella: «Via quella parola – “prescrizione” – protagonista dell’ormai biennale diatriba sulla giustizia. Dalle stanze della ministra della Giustizia Marta Cartabia è uscito il nuovo vocabolo che dominerà il dibattito tra i partiti sulla riforma penale. La parola è “improcedibilità”. Si chiamerà così il meccanismo giuridico destinato a sostituire il “fine processo mai” dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede con la prescrizione bloccata in primo grado».

Vuole spiegarmi l’amico Cataldo perché dovrei anch’io assecondare questo indecoroso gioco di parole? 


3. Evaporazione del processo, ragionevole durata e obbligatorietà dell’azione penale - Esaminate genesi e metodo, veniamo alle ragioni di rifiuto della improcedibilità (da me, in precedenza espresse in: Il giusto processo, 3 ed., Zanichelli, Bologna, 2012, 117 s.; Il modello costituzionale del pubblico ministero e la curiosa proposta del processo breve, in Questione giustizia, 2010, p. 2 s.; La prescrizione del reato e l’insostenibile riforma ‘Bonafede’, in Giur.it., 2020, 978 s.).

I vizi che affliggono la nuova improcedibilità sono presto detti. Per intanto, lungi dall’essere servente al principio della ragionevole durata del processo, il meccanismo della "improcedibilità" lo contraddice clamorosamente. Quando l’art. 111 comma 2 Cost. invita il legislatore ad assicurare la durata massima del processo si riferisce palesemente ad interventi volti ad accelerare il corso del processo così da giungere in tempi ragionevoli ad una decisione sul merito dell’accusa; non certo a troncarlo con una sentenza di improcedibilità che segna la più nichilistica e vuota fra le possibili conclusioni del processo.

Analoga indicazione si ricava dall’art. 112 Cost. Dichiarare obbligatorio l’esercizio dell’azione penale ha un senso in quanto alla domanda del pubblico ministero sia data - per lo meno sino a che l’ipotesi di reato resta in vita - una risposta che l’accolga o la respinga. Sarebbe contraddittorio imporre l’esercizio dell’azione penale e, al tempo stesso, consentire che essa resti senza risposta. Questo, naturalmente, non esclude che, se interviene una causa estintiva del reato (come nel caso della prescrizione sostanziale), la si dichiari con una sentenza che contiene un accertamento di merito, seppur limitato perché formulato in termini ipotetici. 

Ciò che, invece, appare inammissibile e puntualmente si verifica con la "improcedibilità" è che ad estinguersi per decorso del tempo, non sia il reato o, se si preferisce, la sua ipotesi - come avviene con la prescrizione sostanziale - ma direttamente il processo con una sentenza di non doversi procedere; la quale, proprio per la sua natura di "improcedibilità", preclude ogni accertamento, quindi, anche la pronuncia dell’assoluzione quando già ne sussistessero i presupposti ai sensi dell’art. 129 comma 2 c.p.p.; e, per di più, con l’assurda conseguenza che, se l’improcedibilità sopraggiungesse pendente l’appello o il ricorso del pubblico ministero contro un’assoluzione, l’imputato vedrebbe questa convertita nella meno favorevole sentenza di non doversi procedere. Straordinaria reformatio in peius per decorso del tempo!

Si dirà che la Corte costituzionale ha riconosciuto legittime le condizioni di procedibilità, al cui genere apparterrebbe anche la qui criticata prescrizione processuale. È vero, ma le condizioni di procedibilità si giustificano solo in particolari situazioni, per lo più legate alle modalità o alla tipologia del reato, mentre il decorso del tempo esplica già il suo effetto negativo sull’interesse persecutorio sotto il profilo della prescrizione del reato; e non è corretto duplicarne la rilevanza, erigendolo anche a causa di improcedibilità.

Quando la risposta giudiziaria tardi oltre il limite del ragionevole e non sopraggiunga la prescrizione del reato, si possono prevedere misure risarcitorie e riparatorie per l’imputato, sanzioni per i magistrati negligenti e vari altri rimedi; e si potrebbe persino stabilire che, se la sentenza di merito sopraggiunge dopo un certo termine, il processo possa proseguire in grado di impugnazione solo nell’interesse dell’imputato (il che equivarrebbe a rendere inappellabile l’assoluzione e insuscettibile di riforma in peggio la condanna). Ma, sino a quando non si modifichi l’art. 112 Cost., non è ammissibile che, perdurando la punibilità del reato, il processo svanisca nel nulla con una sentenza di non doversi procedere. In regime di azione penale obbligatoria, l’evaporazione del processo a reato non estinto è un’anomalia senza precedenti, una figura contraddittoria, in-classificabile nel senso letterale della parola, perché ribelle a ogni inquadramento giuridico. Che il decorso del tempo possa estinguere il reato, segnando la fine del processo, è plausibile; che estingua direttamente il processo, lasciando in vita il reato, è abnorme.

In sintesi. Se l’azione penale è stata validamente esercitata e il reato non è estinto, il principio, rectius, la regola della obbligatorietà esige che all’accusa formulata dal pubblico ministero sia data una risposta nel merito che affermi o neghi la colpevolezza; ed essendo la condanna il termine ‘marcato’ del processo, vale a dire quello che contiene la proposizione da provare, l’assoluzione, che è il termine ‘consequenziale’, deve essere disposta ogni qualvolta la colpevolezza non sia provata sino all’ultima molecola. Di queste quattro proposizioni – l’azione penale è obbligatoria, l’azione penale è validamente esercitata, il reato non è estinto, il processo si estingue – almeno una dev’essere invalida e qui evidentemente è tale l’ultima. Costruire il decorso del tempo come sopravvenuta condizione di improcedibilità, nell’attuale assetto processuale e costituzionale, equivale ad aprire una via legale al diniego di giustizia. Se proprio si intende perseguire questa strada, si proponga la revisione dell’art. 112 Cost., nel senso che "l’azione penale è esercitata nei modi e nei tempi stabili dalla legge". 

Non so se la Corte costituzionale censurerà una disciplina alla cui definizione ha contributo in prima linea una Presidente emerita della stessa Corte. Il mio timore, se questa disciplina dovesse a lungo sopravvivere, è che sui precetti degli artt. 111 comma 2 e 112 Cost. si abbatta un gran discredito che finirebbe per coinvolgere l’intera disciplina costituzionale del processo. 


4. I tempi della "improcedibilità" e il principio di uguaglianza - Può essere – anzi si spera - che di fatto l’improcedibilità, data l’ampiezza dei termini, resti di fatto inoperante o quasi; il che peraltro non esclude che possa esercitare un effetto più insidioso e paradossale, quello di decelerare, in un buon numero di casi, il corso dei processi convertendo i tempi "massimi" in tempi "medi". L’esperienza insegna che, quando si fissano termini massimi per il compimento di una determinata attività, quei termini diventano non solo il tempo "sufficiente" ma anche il tempo "necessario"; pressappoco come il tempo necessario per scrivere un saggio corrisponde al tempo fissato per la sua consegna. 

Quanto ai casi nei quali con il sistema delle proroghe la durata del processo può essere dilatata all’infinito, non occorre essere fini giuristi per comprendere che, se i termini fissati dalla riforma Cartabia sono davvero volti a garantire la durata ragionevole del processo – secondo una decantata prospettiva, a mio avviso, radicalmente errata – allora quei termini vanno garantiti ad ogni imputato, nessuno escluso, come esige il precetto costituzionale sulla durata ragionevole. Si dà il caso che anche gli imputati di reati di mafia e terrorismo possano essere innocenti, accusati ingiustamente. Non dicono nulla, al riguardo, gli artt. 3 e 27 comma 2 Cost.? 


Qualcuno forse obietterà che anche la prescrizione sostanziale è articolata in funzione della gravità del reato e prevede reati imprescrittibili. Ma c’è una grande differenza. La prescrizione sostanziale obbedisce a fini ben distinti - come la funzione rieducativa della pena e l’oblio sulla memoria del reato – e non pretende di assicurare la ragionevole durata del processo, pur garantendo indirettamente dal rischio di un processo interminabile. La ‘improcedibilità’, invece, per la sua stessa natura processuale, calibrata sui gradi del giudizio, pretende proprio di adempiere a questa funzione, nonostante sia ben lungi dal riuscire a svilupparla. 

Sono queste, caro amico, le ragioni del mio "no" alla riforma Cartabia.


Paolo Ferrua

Professore emerito di procedura penale 

nell'Università di Torino