Sezioni

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30 aprile 2021

❌ Ultimissime dalle SSUU ❌ sulla misura cautelare del divieto di avvicinamento: sono lecite soluzioni flessibili

Avevamo dato notizia dell'ordinanza che in merito all'art. 282 – ter cpp, aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione: Se nel disporre la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa, ex art. 282 – ter cpp, il giudice deve necessariamente determinare specificatamente i luoghi oggetto di divieto (su questo blog al link e al link).


Dall'informazione provvisoria resa nota dalla Corte di Cassazione (la sentenza è del 29 aprile 2021), al quesito è stata data la seguente risposta: "Il giudice che ritenga adeguata e proporzionata la sola misura cautelare dell'obbligo di mantenere una determinata distanza dalla persona offesa (art. 282-ter, comma 1, cod. proc. pen.) può limitarsi ad indicare tale distanza. Nel caso in cui, al contrario, nel rispetto dei predetti principi, disponga, anche cumulativamente, le misure del divieto di avvicinamento ai luoghi da essa abitualmente frequentati e/o di mantenimento della distanza dai medesimi, deve indicarli specificamente". 


SILENZIO: è diritto della persona tacere all’indagine CONSOB e Banca d’Italia (insider trading)


Il diritto al silenzio è parte integrante dell’equo processo, con la conseguenza che è legittimo opporlo alle indagini di Consob e Banca d’Italia per evitare conseguenze pregiudizievoli e auto incriminazioni.

La Corte Costituzionale (sentenza n. 84 del 30 aprile 2021), ha dichiarato l’incostituzionalità della normativa legislativa.

A seguire il comunicato stampa della Corte e la declaratoria di incostituzionalità estrapolata dalla sentenza.

Il diritto fondamentale al silenzio vale anche rispetto ai poteri d’indagine della Banca d’Italia e della Consob, quando dalle risposte alle domande possa emergere la propria responsabilità.È quanto ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 84 depositata oggi (redattore Francesco Viganò), con la quale è stato dichiarato incostituzionale l’articolo 187-quinquiesdecies del testo unico sulla finanza, “nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”.
La questione esaminata dalla Consulta nasce dalla vicenda dell’amministratore di una società sottoposto a una pesante sanzione pecuniaria per non avere risposto alle domande della Consob su operazioni finanziarie sospette da lui compiute. 
L’interessato aveva impugnato la sanzione, sostenendo di aver semplicemente esercitato il diritto costituzionale di non rispondere a domande da cui sarebbe potuta emergere la propria responsabilità.
La Corte di cassazione, investita del caso, aveva sollevato nel 2018 questione di legittimità costituzionale dell’articolo 187-quinquiesdecies, che prevede una sanzione da 50.000 a un milione di euro a carico di chi “non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia o della CONSOB”, senza prevedere alcuna eccezione in favore di chi sia già sospettato di avere commesso un illecito.
Con l’ordinanza 117 del 2019 (si veda il comunicato stampa del 10 maggio 2019), la Corte costituzionale aveva preso atto che è lo stesso diritto comunitario a stabilire, a carico degli Stati, l’obbligo di sanzionare la mancata collaborazione con le autorità di vigilanza sui mercati finanziari. Pertanto, aveva chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea se, ai sensi del diritto comunitario, quest’obbligo valga anche nei confronti di chi è già sospettato di aver commesso un illecito; e se, in questi casi, un simile obbligo sia compatibile con il “diritto al silenzio” riconosciuto dalla Costituzione italiana, dal diritto internazionale e dalla stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
A tali quesiti la Corte di giustizia dell’Unione europea ha risposto con la sentenza dello scorso 2 febbraio (si veda qui la sintesi ufficiale della sentenza), chiarendo anzitutto che il diritto al silenzio è parte integrante dei principi dell’equo processo, così come riconosciuti dalla stessa Carta dei diritti fondamentali Ue. Questo diritto – hanno proseguito i giudici di Lussemburgo – opera anche nell’ambito dei procedimenti amministrativi suscettibili di sfociare nell’applicazione di sanzioni aventi carattere punitivo, come quelle previste nell’ordinamento italiano per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate. 
Con la sentenza depositata oggi, la Consulta ha sottolineato anzitutto che l’interpretazione della disciplina comunitaria fornita dalla Corte di giustizia collima con la lettura del diritto al silenzio che la stessa Corte italiana aveva offerto nel proprio rinvio pregiudiziale, in armonia con le indicazioni provenienti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del Patto internazionale sui diritti civili e politici.
Dal diritto al silenzio discende dunque l’impossibilità di punire una persona fisica che si sia rifiutata di rispondere a domande, formulate in sede di audizione o per iscritto dalla Banca d’Italia o dalla Consob, dalle quali sarebbe potuta emergere una sua responsabilità per un illecito amministrativo o addirittura penale.
La Corte ha tuttavia precisato che il diritto al silenzio non giustifica comportamenti ostruzionistici fonte di indebiti ritardi allo svolgimento dell’attività di vigilanza, come il rifiuto di presentarsi a un’audizione, ovvero manovre dilatorie finalizzate a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa, o ancora l’omessa consegna di dati, documenti, registrazioni preesistenti alla richiesta dell’autorità.
Roma, 30 aprile 2021


Va dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge n. 62 del 2005 e vigente al momento del fatto addebitato al ricorrente nel processo a quo, nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”.

La Riforma del Processo penale - 5.4 la riforma dell'appello - Le risposte del Docente, Annalisa Mangiaracina (*)

Per la rubrica "La Riforma del Processo Penale", ora nella partizione "Il processo che verrà" del nostro blog, ospitiamo l'intervento sul progetto di riforma dell'appello penale con 3 domande al Docente Annalisa Mangiaracina. 
Il piano completo dell'opera è consultabile sulla pagina dedicata di questo blog (link). 
Il progetto di legge per la “DELEGA AL GOVERNO PER LA MODIFICA DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE, DEL CODICE PENALE E DELLA COLLEGATA LEGISLAZIONE SPECIALE E PER LA REVISIONE DEL REGIME SANZIONATORIO DELLE CONTRAVVENZIONI”, è all’esame, in sede referente, della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, che ha anche svolto numerose audizioni inerenti il testo della riforma.




1- La previsione dello specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza di condanna, rischia di diventare un inutile orpello deflattivo che limiterà il diritto di difesa degli imputati assistiti d’ufficio e/o irreperibili di fatto?

La norma che prevede lo specifico mandato ad impugnare dopo la sentenza di condanna non appare condivisibile per due ordini di ragioni: da un lato, sul versante del diritto di difesa; dall’altro, sul piano della deflazione. Dal punto di vista della difesa – al di là di considerazioni legate alla continuità dell’esercizio del munus difensivo – ad essere penalizzati saranno gli imputati che siano assistititi da un difensore d’ufficio: le difficoltà nella comunicazione potrebbero impedire al difensore l’impugnazione e, di conseguenza, determinare il passaggio in giudicato della sentenza. Secondo la Relazione al d.d.l. l’obiettivo è quello di “evitare l’inutile celebrazione di procedimenti nei confronti di imputati incolpevolmente ignari del processo penale”. Tuttavia, l’imputato che sia stato condannato potrebbe poi accedere al rimedio straordinario della rescissione del giudicato ex art. 629 bis c.p.p., per incolpevole mancata conoscenza del processo. In questo modo si tradirebbe l’effetto deflattivo apparentemente perseguito dal testo del d.d.l.: tanto più che la competenza a decidere sulla rescissione del giudicato è, a far data dalla riforma “Orlando” del 2017, proprio della Corte di appello. 


2- La previsione del giudice monocratico di appello per i casi di citazione diretta a giudizio riduce la collegialità. Consideri quest’ultima un valore? e la previsione avrà autentica efficacia sui tempi di celebrazione del processo, considerato che in primo grado, da quando la riforma “monocratica” è in vigore non si sono avute ricadute sui tempi di celebrazione del processo?

La previsione che intende attribuire alla Corte di appello in composizione monocratica la “competenza” nei procedimenti a citazione diretta ex art. 550 c.p.p. non è in alcun modo condivisibile. La collegialità è un valore e la sua perdita in secondo grado, a fronte di provvedimenti relativi anche a fattispecie di reato di una certa complessità, rischia di incidere anche sul piano dell’imparzialità del decidente. Il confronto dialettico che si schiude nella camera di consiglio rappresenta il miglior antidoto alla “prevenzione”. Ancorché il giudice relatore sia colui che meglio conosce il fascicolo processuale, l’apertura al dialogo con gli altri colleghi può schiudere prospettive non esplorate, consentendo una maggiore ponderazione della decisione finale. Peraltro, la soppressione della collegialità non apporterebbe alcun vantaggio sul versante dell’efficienza processuale. Anzi, richiederebbe la disponibilità di un maggior numero di magistrati e, conseguentemente, di personale di cancelleria (nonché di aule!)


3- Le riforme progettate mirano, da un lato, a rendere più razionale l’invio telematico degli atti di impugnazione e recano in corollario l’eliminazione della regola del deposito fuori sede, dall'altro, mirano a razionalizzare le modalità di celebrazione del giudizio di appello c.d. cartolare pandemico, in quest'ultimo caso rimettendo la scelta opzionale alla espressa richiesta dell’imputato e del suo difensore. Qual è il tuo parere?
Come emerge dalla Relazione annuale del Primo Presidente della Corte di Cassazione sull’amministrazione della giustizia, uno dei nodi del giudizio di appello è costituito dai c.d. “tempi di attraversamento”, legati al passaggio del fascicolo processuale dal primo al secondo grado di giudizio. Se così è, va favorita – in un’ottica di speditezza – la presentazione dell’atto di impugnazione da parte del difensore mediante la PEC; rimane però fuori l’imputato che continuerebbe a presentare l’atto di appello in forma cartacea. Sotto il profilo dell’utilizzo della PEC per il deposito anche degli atti di impugnazione, la normativa “pandemica” ha consentito di fare un passo in avanti. Questo, però, non basta. Occorre lavorare sul fascicolo telematico, consultabile da tutte le parti processuali. Rispetto invece al modello di appello cartolare “salvo richiesta di discussione orale”, introdotto dal d.l. ristori bis, il giudizio non è positivo. In una prospettiva di snellimento effettivo del giudizio di appello – tema che richiederebbe considerazioni ben più approfondite – mi sembra maggiormente percorribile la strada inversa: mantenere l’oralità in appello, rimettendo alle parti la possibilità di chiedere la trattazione scritta. In questo senso, le lettere g) ed h) dell’art. 7, comma 1, del d.d.l. intendono introdurre un rito camerale non partecipato, su istanza, qualora ne facciano richiesta l’imputato e il suo difensore nei procedimenti di impugnazione innanzi alla Corte d’appello in composizione monocratica (evenienza, come detto, da escludere) o, ancora, nei casi in cui si proceda in camera di consiglio ex art. 599 c.p.p., sempre che non debba procedersi alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale: questo modello camerale non partecipato su richiesta potrebbe estendersi al di là dei casi individuati nel testo governativo.


(*) Annalisa Mangiaracina:
 
è Professore associato di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Palermo e Docente nei corsi di Diritto processuale penale e Processo penale comparato, internazionale ed europeo presso il Polo di Trapani. È autrice di lavori monografici (Garanzie partecipative e giudizio in absentia, Giappichelli, 2010; La conversione dell’impugnazione. Un istituto da ripensare, Giappichelli, 2020) e di diversi articoli anche su tematiche concernenti il giudizio di secondo grado (Impugnazioni e pandemia: l’esilio dell’oralità e la “smaterializzazione” della camera di consiglio, in Dir. pen. proc., 2021, n. 2, p. 177 ss.; Prove tecniche per la “soppressione” del giudizio di appello?, in Arch. pen., 2020, n. 3; Dan v Moldavia 2: la rinnovazione in appello tra itinerari sperimentati e cedimenti silenziosi, in Arch. pen., 2020, n. 3)







Il testo della legge delega sull'appello:

Art. 7.

(Appello)

1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale in materia di appello, per le parti di seguito indicate, sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

   a) prevedere che il difensore possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato a impugnare, rilasciato successivamente alla pronunzia della sentenza medesima;

   b) modificare le modalità di presentazione dell'impugnazione e di spedizione dell'atto di impugnazione, con l'abrogazione dell'articolo 582, comma 2, e dell'articolo 583 del codice di procedura penale e la previsione della possibilità di deposito dell'atto di impugnazione con modalità telematiche;

   c) prevedere l'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, salvo che per i delitti di cui agli articoli 590, secondo e terzo comma, 590-sexies e 604-bis, primo comma, del codice penale;

   d) prevedere l'inappellabilità della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità;

   e) prevedere l'inappellabilità della sentenza di non luogo a procedere nei casi di cui alla lettera c);

   f) prevedere la competenza della corte di appello in composizione monocratica nei procedimenti a citazione diretta di cui all'articolo 550 del codice di procedura penale;

   g) prevedere la forma del rito camerale non partecipato nei procedimenti di impugnazione innanzi alla corte d'appello in composizione monocratica, qualora ne facciano richiesta l'imputato o il suo difensore e non vi sia la necessità di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale;

   h) prevedere la forma del rito camerale non partecipato, qualora ne facciano richiesta l'imputato o il suo difensore e sempre che non sia necessaria la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, nei casi in cui si procede con udienza in camera di consiglio ai sensi dell'articolo 599 del codice di procedura penale


Art. 15.

(Misure straordinarie per la definizione dell'arretrato penale presso le corti d'appello)

1. Al   decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, della legge 9 agosto 2013, n. 98, sono apportate le seguenti modificazioni:

   a) all'articolo 62, comma 1, dopo le parole: «definizione dei procedimenti» sono inserite le seguenti: «penali e» e dopo le parole: «Corti di appello» sono inserite le seguenti: «ai sensi dell'articolo 132-bis, comma 2, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, ovvero»;

   b) all'articolo 63, comma 1, la parola: «trecentocinquanta» è sostituita dalla seguente: «ottocentocinquanta».


29 aprile 2021

Foro e Giurisprudenza raggiunge quota 100.000



Dopo un mese dall'esordio di questo blog, avevamo tracciato un primo bilancio, interrogandoci se il consistente numero di 15.000 visualizzazioni costituisse soltanto "un’iniziale e generosa accoglienza" (al link).

Adesso che sono trascorsi oltre sei mesi dall'inizio dell'avventura, sembra giunto il momento di una valutazione più compiuta.

Anche questa volta conviene lasciarsi condurre nell'analisi dai numeri.

Le cifre rendono evidente che si è stabilizzato un significativo pubblico interessato a Foro e Giurisprudenza: si veleggia spediti oltre le 103.000 visualizzazioni.

Quali le ragioni di tali gradimento?

Sembrano riscuotere un notevole successo alcune pubblicazioni che affrontano temi di politica giudiziaria: il post sugli esborsi ministeriali per ingiusta detenzione è ad oggi il più letto, con oltre 7.000 visualizzazioni (al link), così come tra i più visualizzati permangono, ormai a mesi di distanza dalla loro pubblicazione, gli interventi del Presidente dell'UCPI (al link) e della nostra Camera Penale (al link).
Anche i post inerenti le modalità del deposito telematico, favoriti dall'immediata utilità delle indicazioni fornite in un periodo di chiaro disorientamento, registrano migliaia di visualizzazioni (al link e al link). Tanto che ormai abbiamo inserito un'apposita rubrica al riguardo (al link). 

Accanto a ciò, riscuote notevole interesse anche il più classico aggiornamento giurisprudenziale, declinato però più nelle modalità del resoconto che come commento, modalità sostanzialmente poco confacente alla natura del nostro blog.

Dunque sembra avere successo la polifonia tematica cui questo blog si è sin da subito ispirato.

Nel nostro bilancio non può mancare poi il riferimento alla nostra più recente rubrica "Il processo che verrà", una raccolta di opinioni di alcune decine di operatori del diritto sul progetto di riforma c.d. Bonafede. La rubrica beneficia ormai di una pagina tematica dedicata (al link).

Si tratta di un'iniziativa cui teniamo molto, non tanto in termini numerici, ma soprattutto perché ci consente di realizzare il progetto di un "blog di aggiornamento giuridico, ... pensato come strumento di circolazione delle idee e confronto con saperi diversi ma non altri" (al link).

Ma soprattutto l'iniziativa, cui tanti hanno aderito da diversi contesti territoriali e culturali, ci ha restituito l'idea che vi è ancora un salutare spirito partecipativo che si può facilmente destare. 

Un buon segnale per tutti noi.








 

28 aprile 2021

La Riforma del Processo penale - 11.4 la riforma dei termini - Le risposte del professor Filippo Giunchedi (*)


Per la rubrica "La Riforma del Processo Penale", pubblichiamo l'intervento del professore Filippo Giunchedi relativo alla sezione "Termini e processo" della riforma.
La nuova rubrica sottopone alcune domande a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e ad un docente universitario.
Il piano completo dell'opera è consultabile sulla pagina dedicata di questo blog (link).

Il progetto di legge per la “DELEGA AL GOVERNO PER LA MODIFICA DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE, DEL CODICE PENALE E DELLA COLLEGATA LEGISLAZIONE SPECIALE E PER LA REVISIONE DEL REGIME SANZIONATORIO DELLE CONTRAVVENZIONI”, è all’esame, in sede referente, della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, che ha anche svolto numerose audizioni inerenti il testo della riforma.





1- Il legislatore intende delegare ai magistrati, nell’esercizio delle rispettive funzioni, l’adozione di misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi penali nei termini indicati dall’art. 12, condivide tale intendimento e se si quali sarebbero, a suo giudizio, le concrete misure organizzative che il singolo magistrato potrebbe adottare?
Adottare misure organizzative tali da cadenzare i tempi dei processi appare un intervento legislativo assai accattivante soprattutto sul piano dell’opinione pubblica, ma che non pare di facile risoluzione.
Demandare ai singoli magistrati l’adozione delle misure organizzative, francamente, desta non poche perplessità per le pericolose divergenze che verrebbero a determinarsi tra una sede giudiziaria e l’altra, se non, addirittura, in seno al medesimo ufficio giudiziario.
Ritengo che oggigiorno in misura ancora maggiore rispetto al recente passato, il sistema giudiziario debba offrire credibilità; approdo ben lontano qualora si creino percorsi di gestione dei processi diversificati, sebbene ancillari alla determinazione dei tempi di durata dei processi.

2- A mente dell’art. 12 il dirigente dell’Ufficio è tenuto “a segnalare all’organo titolare dell’azione disciplinare la mancata adozione delle misure organizzative, quando sia imputabile a negligenza inescusabile”, quale il Suo giudizio al riguardo?
Affidare l’azione disciplinare ad un parametro dai contorni indefiniti qual è quello della negligenza inescusabile, espone la già labile tenuta dell’istituto a rischi di interpretazioni soggettive che destano perplessità, in primis in ordine alla reale applicazione.
Il rischio che emerge è quello dell’ennesimo provvedimento spot nel segno del populismo, senza effettivi riflessi sull’efficienza del sistema.

3- I termini indicati dall’art. 12 per la definizione dai vari gradi di giudizio le sembrano congrui? 
Nel complesso ed in astratto appaiono congrui, anche se, in concreto, sono da parametrare a molteplici elementi variabili per ogni ufficio giudiziario, quali, ad esempio, numero dei fascicoli in carico, magistrati effettivi, etc.

4- Nello specifico, con riguardo ai giudizi di impugnazione quale dovrebbe essere il dies a quo dal quale computare il termine per definire il giudizio? 
L’individuazione del dies a quo risulta determinante per l’efficacia della proposta. Lasciare delle zone franche, infatti, rischia di rendere effimera la contingentazione dei tempi del processo. 

5- Si vuole riconoscere al Consiglio superiore della magistratura la facoltà di stabilire, con cadenza biennale, i termini previsti dall’art. 12 in maniera diversa per ciascun ufficio, non le pare si rischi una frammentazione localistica? 
Vero, ma al contempo ritengo sia opportuno plasmare i tempi in relazione alle differenti situazioni e quindi che si effettuino reports costanti così da attualizzare i tempi.

6- L’art. 13 prevede, per i giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna, che se non vengono rispettati i termini di cui all’art. 12, le parti e i loro difensori possano presentare istanza di definizione del processo entro sei mesi. La previsione è assistita dalla previsione di una sanzione disciplinare per il caso di mancata adozione di misure organizzative idonee ad assicura la definizione entro il detto semestre. Non le pare che il combinato disposto degli artt. 12 e 13 manifesti in realtà l’incapacità ad affrontare il problema della durata del processo, scaricandolo sugli operatori del diritto? 
L’osservazione formulata mi sembra molto pertinente e la condivido.



(*) Filippo Giunchedi è professore associato di Diritto processuale penale nell’Università Niccolò Cusano di Roma.
È autore di circa 200 pubblicazioni. Tra le principali si ricordano: La tutela dei diritti umani nel processo penale, Padova, 2007; Gli accertamenti tecnici irripetibili (tra prassi devianti e recupero della legalità), Torino, 2009; La prova nella giurisdizione esecutiva, Torino, 2012; Introduzione allo studio dei procedimenti speciali, Milano, 2018; Procedimenti speciali e sistema delle impugnazioni, Pisa, 2019. 

Ha curato, tra gli altri, La giustizia penale differenziata, I, I procedimenti speciali, Torino, 2010; Rapporti tra fonti europee e dialogo tra Corti, Pisa, 2018.





Art. 12.

(Termini di durata del processo)

1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, il decreto o i decreti legislativi

recanti la disciplina dei termini di durata del processo penale sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) prevedere che i magistrati, nell’esercizio delle rispettive funzioni, adottino misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi penali, ad eccezione dei processi relativi ai reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri 1), 3) e 4), e comma 2, lettera b), del codice di procedura penale, nel rispetto dei seguenti termini:

1) i termini previsti dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, nei procedimenti per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione e l’economia;

2) un anno per il primo grado, due anni per il secondo grado, un anno per il giudizio di legittimità, nei procedimenti per i reati di cui all’articolo 33-ter del codice di procedura penale;

3) due anni per il primo grado, due anni per il secondo grado, un anno per il giudizio di legittimità nei procedimenti per i reati di cui all’articolo 33-bis del codice di procedura penale;

b) prevedere che i termini di cui alla lettera a) possano essere stabiliti in misura diversa dal Consiglio superiore della magistratura, sentito il Ministro della giustizia, con cadenza biennale in relazione a ciascun ufficio, tenuto conto delle pendenze, delle sopravvenienze, della natura dei procedimenti e della loro complessità, delle risorse disponibili e degli ulteriori dati risultanti dai programmi di gestione redatti dai capi degli uffici giudiziari;

c) prevedere che il dirigente dell’ufficio sia tenuto a vigilare sul rispetto delle disposizioni adottate ai sensi della lettera a) e a segnalare all’organo titolare dell’azione disciplinare la mancata adozione delle misure organizzative, quando sia imputabile a negligenza inescusabile.




Art. 13.

Disposizioni per la trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna

1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale in materia di trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) prevedere che le parti o i loro difensori possano presentare istanza di immediata definizione del processo quando siano decorsi i termini di durata dei giudizi in grado di appello e in cassazione stabiliti ai sensi dell’articolo 12;

b) prevedere che il processo sia definito entro sei mesi dal deposito dell’istanza di immediata definizione di cui alla lettera a);

c) prevedere che i termini di cui alle lettere a) e b) siano sospesi nei casi di cui all’articolo 159, primo comma, del codice penale e, nel giudizio di appello, anche per il tempo occorrente per la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale;

d) prevedere che il dirigente dell’ufficio giudiziario sia tenuto ad adottare le misure organizzative idonee a consentire la definizione nel rispetto del termine di cui alla lettera b);

e) prevedere che la violazione dell’obbligo di cui alla lettera d) nonché il mancato rispetto del termine di cui alla lettera b) costituiscano illecito disciplinare, se il fatto è dovuto a negligenza inescusabile;

f) prevedere che le disposizioni adottate in attuazione del criterio di cui alla lettera e) entrino in vigore in data non anteriore al 1° gennaio 2024, al fine di consentire la preventiva valutazione dell’impatto delle altre modifiche introdotte con i decreti adottati in attuazione della delega di cui all’articolo 1 e con le disposizioni di cui al capo III nonché l’adozione dei conseguenti atti di competenza del Consiglio superiore della magistratura e delle necessarie misure organizzative da parte dei dirigenti degli uffici.






27 aprile 2021

❌Nessun equivoco❌ né allarmismo: la pec può essere utilizzata


Fa discutere in queste ore una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. Pen. Sez 2 13789/2921) che ha ritenuto non valido il legittimo impedimento inviato dall’avvocato a mezzo pec.

La sentenza, così presentata, si presta ad equivoci.

In realtà, leggendo la motivazione è chiaro che il caso scrutinato si riferisce ad un processo celebratosi in appello prima dell’introduzione della normativa pandemica che consente il deposito di ogni atto e/o istanza a mezzo pec.

Niente equivoci: il legittimo impedimento può essere inviato a mezzo pec.


❗️Novità❗️ La mail per segnalare i malfunzionamenti del PPT





 NOVITÀ 

Portale Deposito atti Penali

La mail alla quale segnalare malfunzionamenti e problemi tecnici 


Il Ministero della Giustizia ha attivato una casella di posta elettronica per le segnalazioni di malfunzionamento  tecnico del PPT Portale Deposito atti Penali.

Ecco l’indirizzo:

info-ppt@giustizia.it





Senza necessità la difesa non è "legittima"


Pubblichiamo una sentenza del Tribunale di Marsala (👉 la sentenza) in una vicenda complessa, con reciproche aggressioni tra le parti, che offre un'interessante lettura in materia di legittima difesa.

L’art. 52 del codice penale, rubricato ‘‘difesa legittima’’, introduce nel nostro ordinamento un’ipotesi tipizzata di causa di giustificazione (o scriminante), definibile come una circostanza in presenza della quale un fatto che altrimenti costituirebbe reato perde la sua connotazione di illiceità penale, determinando la non punibilità dell’imputato. 

Come è desumibile dal tenore letterale del primo comma della disposizione normativa in commento, gli elementi costitutivi della scriminante de qua risiedono nella:

i. sussistenza di una situazione offensiva, consistente, nello specifico, in un «pericolo attuale di una offesa ingiusta»; 

ii. necessità di difendere un diritto proprio o altrui dalla predetta situazione di pericolo;

iii. proporzionalità tra la difesa e l’offesa.

Perché possa invocarsi la causa di giustificazione di cui trattasi, dunque, occorre anzitutto una situazione di pericolo che possieda il requisito dell’attualità, non essendo contemplabile una legittima difesa ‘‘preventiva’’, a fronte cioè di un pericolo solo futuro ed eventuale.

In secondo luogo, è necessaria quella che la dottrina definisce come ‘‘inevitabilità altrimenti’’ della reazione difensiva, che va esclusa in radice allorquando l’aggredito abbia la possibilità di sottrarsi agevolmente alla situazione offensiva dandosi alla fuga (c.d. commodus discessus), sempre che tale condotta non lo esponga ad un maggior pericolo per sé o per altri.

E invero, secondo la giurisprudenza di legittimità, «il requisito della necessità della difesa, anche a seguito delle modifiche apportate all'art. 52 cod. pen. L. n. 59 del 2006, va inteso nel senso che la reazione deve essere, nelle circostanze della vicenda apprezzate "ex ante", l'unica possibile, non sostituibile con altra meno dannosa egualmente idonea alla tutela del diritto» (cfr. Cass. Pen., Sez. V, n. 25653/2008).

Infine, occorre che la reazione difensiva sia proporzionata rispetto alla situazione offensiva: secondo la tesi dottrinale e giurisprudenziale più accreditata, la valutazione di proporzionalità affidata al Giudice dev’essere svolta tenendo conto delle concrete peculiarità del caso di specie, sulla base di un giudizio ‘‘tutto considerato’’.

26 aprile 2021

La Riforma del Processo penale - 8.4 la riforma della prescrizione - Le risposte del docente, Guido Todaro (*)

Per la rubrica "La Riforma del Processo Penale", pubblichiamo l'intervento del docente, Guido Todaro relativo alla sezione "Prescrizione" della riforma.
La nuova rubrica sottopone alcune domande a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e ad un docente universitario.
Il piano completo dell'opera è consultabile sulla pagina dedicata di questo blog (link).
Il progetto di legge per la “DELEGA AL GOVERNO PER LA MODIFICA DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE, DEL CODICE PENALE E DELLA COLLEGATA LEGISLAZIONE SPECIALE E PER LA REVISIONE DEL REGIME SANZIONATORIO DELLE CONTRAVVENZIONI”, è all’esame, in sede referente, della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, che ha anche svolto numerose audizioni inerenti il testo della riforma.






1- Il legislatore intende riformare per la terza volta, dal 2017, l’art. 159 c.p.: non era meglio riformare l’istituto della prescrizione nel suo complesso?
Partiamo dalle basi. La prescrizione del reato è un istituto di diritto penale che limita entro un tempo massimo – variamente modulato in base alla gravità del reato – la potestà punitiva dello Stato. Se non si addiviene entro un lasso di tempo più o meno lungo all’accertamento definitivo di responsabilità, lo Stato non può più esercitare la sua vis punitiva. Essa è una causa estintiva del reato collegata al decorso del tempo, dunque.
Così concepita, la prescrizione si collega ad importanti principi del diritto penale e alla stessa ragion d’essere della pena, sia dal punto di vista della funzione general-preventiva, sia dal punto di vista della funzione special-preventiva. Dal punto di vista della funzione general-preventiva, ha poco senso – sotto il profilo della dissuasione nei confronti della generalità dei consociati e dell’effetto deterrente – punire una persona a notevole distanza di tempo dall’accadimento di fatti astrattamente sussumibili in una norma incriminatrice. Dal punto di vista della funzione special-preventiva, ha poco senso punire, in ottica deterrente, una persona dopo che siano decorsi molti anni dai fatti: qui viene in rilievo, peraltro, anche il principio costituzionale in base al quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, comma 3, Cost.). Ecco, la funzione rieducativa della pena è di massima importanza: una pena applicata a notevole distanza temporale dai fatti equivarrebbe a sanzionare una persona diversa da quella che in ipotesi aveva commesso il reato, essendo certamente mutata la sua personalità. Una pena siffatta sarebbe dunque percepita come diseducativa, difficilmente potendo assolvere alla funzione che le è assegnata dall’Ordinamento.
Insomma, la prescrizione è un istituto di grande civiltà giuridica che, oltretutto, impedisce di sottoporre il singolo individuo ad una teoricamente illimitata potestà punitiva da parte dello Stato, estrinsecabile senza alcun limite temporale, ed assicura il diritto all’oblio rispetto ai fatti per cui non è più percepibile alcun allarme sociale. Ovviamente, non tutti i reati sono prescrittibili essendoci dei fatti ritenuti dall’Ordinamento così gravi da meritare sempre e comunque una possibile punizione.
Non solo. La prescrizione si collega anche ad importanti principi che governano il nostro processo penale. Basti pensare al diritto di difesa (art. 24, comma 2, Cost.) e alla conseguente difficoltà, se non una vera e propria impossibilità, di reperire prove “a discarico” che il decorso del tempo potrebbe aver cancellato (si pensi alla morte di un possibile testimone, allo smarrimento o al deterioramento di documenti, ecc.). In certa misura, la prescrizione si collega anche alla ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.): l’orizzonte dei termini prescrizionali definisce infatti uno spazio temporale oltre il quale non si può andare e dovrebbe pertanto funzionare da acceleratore, inducendo la Magistratura a fissare i processi in tempo utile per l’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità.
Venendo specificamente alla domanda, vista la grande importanza dell’istituto e tutti i principi che vengono coinvolti, intervenire nuovamente in modo estemporaneo, rapsodico, senza una visone organica, sul solo art. 159 c.p., non è propriamente lungimirante: l’impressione è di mettere un’ulteriore toppa, quasi si trattasse di un vestito di Arlecchino. Sennonché, i concetti di Carnevale e Giustizia evidentemente non vanno molto d’accordo poiché la Giustizia è una cosa seria e deve essere maneggiata con cura. Dunque, sarebbe stato certamente preferibile riformare l’istituto della prescrizione nel suo complesso, sì da recuperarne la ratio originaria, andata progressivamente perduta negli ultimi anni, percorsi da un’ondata populista e da una certa demagogia che ha portato ad un innalzamento, di fatto, dei termini prescrizionali: si pensi all’attuale comma 2 dell’art. 159 c.p. (la cui formulazione si deve alla l. 9 gennaio 2019, n. 3, in vigore dal 1° gennaio 2020) che prevede un blocco del corso della prescrizione dalla pronuncia della sentenza di primo grado sino alla sentenza irrevocabile: di fatto, il processo di appello potrebbe essere celebrato senza alcun limite di tempo (così come il giudizio in Cassazione), così dando luogo all’aberrante figura del “fine processo mai”. 



2- Nel merito della riforma è stato osservato che la novella introdurrebbe una distinzione tra condannato e assolto, all’esito del primo grado di giudizio, lesiva della presunzione di innocenza, quale il suo giudizio al riguardo?
Anche qui occorre partire dalle basi. Per le coordinate costituzionali di riferimento del nostro processo penale, l’imputato non è – e non deve – essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva (quella avverso la quale non sono più esperibili i mezzi ordinari di impugnazione) (art. 27, comma 2, Cost.). 
La presunzione di innocenza, per essere sintetici, significa due cose: come regola di giudizio, essa addossa l’onere della prova sul pubblico ministero che deve dimostrare la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, mentre a quest’ultimo è sufficiente instillare nell’Organo Giudicante un dubbio ragionevole in ordine al fatto che possa essere innocente; come regola di trattamento, essa impone che l’imputato sia trattato come non colpevole durante l’intero arco del procedimento. Ciò significa che dovrebbero essere banditi trattamenti deleteri che si colleghino ad un ritenuto, e non giustificato dalla nostra Costituzione, affievolimento della presunzione d’innocenza.
Venendo alla domanda, la riforma che si commenta vorrebbe introdurre una distinzione tra condannato e assolto in primo grado collegando il blocco della prescrizione, già sopra visto, alla pronuncia della sola sentenza di condanna: appare evidente come, così ragionando, la novella determinerebbe la sospensione del corso della prescrizione sulla base di una sentenza di condanna non definitiva, evidentemente motivata da un giudizio di attenuazione della presunzione di innocenza che contrasta però con la disposizione costituzionale sopra menzionata che, come detto, male tollera simili graduazioni. 
Quindi, una certa lesione della presunzione di innocenza si può riscontrare. Banalizzando, il ragionamento dei riformatori suona così: siccome c’è già una sentenza di condanna di primo grado, forse l’imputato non è poi così innocente e, per evitare che lucri una possibile prescrizione in appello, noi ne blocchiamo il decorso. Detta così, è brutale ma è questo il retropensiero che si cela dietro la novella: e allora, sì, confermo, la tensione rispetto alla presunzione di non colpevolezza pare evidente. 
Il contrasto suona ancora più evidente considerato che è notizia di qualche settimana fa che la Camera dei Deputati ha dato il proprio ok al recepimento integrale della Direttiva n. 2016/343/UE sulla presunzione di innocenza. Certo, quest’ultima incide anche su altri aspetti – evitare di indire conferenze stampa e di presentare la persona indagata o imputata come colpevole agli occhi dell’opinione pubblica prima della condanna definitiva – ma è quantomeno curioso che si assista alla discussione di una riforma che qui si commenta e che stride con altre lodevoli iniziative, come appunto il recepimento della suddetta direttiva.
Comunque, questa possibile riforma si innesta su una norma già incoerente e deleteria di suo: lo abbiamo detto sopra. È difficile dire se la toppa sia meglio o peggio del buco.


3- L’art. 14 del progetto di legge prevede la sospensione del corso della prescrizione ove venga appellata la sentenza di assoluzione, se almeno uno dei reati per cui è proposto il gravame si prescriva entro un anno dal termine di cui all’ art. 544 c.p.p. Non era più corretto prevedere la sospensione soltanto per il reato prossimo a prescriversi?
Intanto, va riconosciuta al legislatore una certa dose di fantasia: creare tutti questi distinguo e queste tempistiche diversificate è un qualcosa di arzigogolato e forse non giova alla intellegibilità del diritto che richiede, per contro, norme semplici, piane, di agevole comprensione. 
Detto ciò, una volta che si intenda prevedere la sospensione del corso della prescrizione in caso di appello della sentenza di proscioglimento ove almeno uno dei reati si prescriva entro un anno dal termine di cui all’art. 544 c.p.p. (il termine per la redazione della sentenza, per intenderci), forse, il testo attuale, all’esame in sede referente della Commissione Giustizia, è più logico poiché l’ipotesi di una sospensione della prescrizione limitata al solo reato prossimo a prescriversi creerebbe non poche difficoltà pratiche e potrebbe essere foriera di veri e propri paradossi: solo a titolo d’esempio, se viene impugnata una sentenza di proscioglimento relativa a due reati, uno più grave per cui non v’è lo spettro della prescrizione entro un anno, e l’altro meno grave suscettibile di prescriversi entro l’anno, se la prescrizione rimanesse sospesa solo per quest’ultimo, potrebbe verificarsi lo scenario per cui sia fissata udienza in appello allorché il reato più grave si sia comunque prescritto (nonostante i tempi di prescrizione ab origine più lunghi), non potendosi giovare della sospensione della prescrizione, mentre non lo sarebbe il reato meno grave proprio a cagione della sospensione.
In generale, e concludo, sono comunque sbagliati tutti questi meccanismi sospensivi della prescrizione a seguito della sentenza di primo grado. Lo abbiamo detto sopra. Essi consegnano l’immagine di un imputato che sia sempre e comunque colpevole: se sia lui l’impugnante contro una sentenza di condanna, viene presentato come il delinquente che propone appello solo per inseguire la prescrizione e non, come dovrebbe essere, come il presunto innocente che – ritenendo di essere stato ingiustamente condannato in primo grado ed esercitando il suo diritto inviolabile di difesa che si estrinseca anche nella possibilità di impugnare – sta cercando semplicemente di fare affermare la propria innocenza; se sia il pubblico ministero l’impugnante avverso una sentenza di proscioglimento, viene passato come giusto il messaggio che si possano allungare i tempi dell’accertamento per evitare che l‘imputato, che l’ha fatta franca in primo grado, possa non ricevere la giusta punizione nei gradi successivi. 
Un messaggio sbagliato, completamente distonico rispetto ai principi del diritto penale classico e della procedura penale che dovrebbe essere intesa essenzialmente come garanzia: e ritorniamo e chiudiamo con la presunzione di innocenza, rinnegata da queste riforme che assecondano pulsioni populiste che non dovrebbero trovare terreno fertile e diritto di cittadinanza in uno Stato democratico. 


Art. 14.

Disposizioni in materia di sospensione della prescrizione 

1. 1. All’articolo 159 del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al secondo comma, dopo le parole: «dalla pronunzia della sentenza» sono inserite le seguenti: «di condanna »;

b) dopo il secondo comma sono inseriti i seguenti: 

«La prescrizione riprende il suo corso e i periodi di sospensione di cui al secondo comma sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario al maturare della prescrizione, quando la sentenza di appello proscioglie l’imputato o annulla la sentenza di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità o ne dichiara la nullità ai sensi dell’articolo 604, commi 1, 4 o 5-bis, del codice di procedura penale;

quando viene proposta impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento e almeno uno dei reati per cui si procede si prescrive entro un anno dalla scadenza del termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione, il corso della prescrizione è altresì sospeso: 1) per un periodo massimo di un anno e sei mesi dalla scadenza del termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il giudizio di appello; 2) per un periodo massimo di sei mesi dalla scadenza del termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva; 

i periodi di sospensione di cui al quarto comma sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario al maturare della prescrizione quando la sentenza che definisce il giudizio in grado di appello, anche se emessa in sede di rinvio, conferma il proscioglimento. Se durante i termini di sospensione di cui al quarto comma si verifica un’ulteriore causa di sospensione di cui al primo comma, i termini sono prolungati per il periodo corrispondente».  


(*) Guido Todaro: Avvocato del Foro di Bologna, Cassazionista, è Dottore di Ricerca in Diritto e Processo Penale presso l’Università di Bologna, nonché Professore a contratto di Procedura Penale presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali afferente alla medesima Università. È componente del Comitato di Gestione della Scuola Territoriale della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”, nonché membro della Redazione della Rivista Cassazione penale.  

È Autore di oltre 50 pubblicazioni in riviste scientifiche, nonché coautore del libro “La difesa nel procedimento cautelare personale”, Giuffrè, 2012, e con-curatore del Volume “Custodia cautelare e sovraffollamento carcerario”, Studi Urbinati, v. 65, n. 1, 2014.