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31 maggio 2021

La riforma del processo penale. 7. il giudizio monocratico: tutte le risposte

Da qualche mese ci stiamo occupando della riforma del processo penale esaminato dalla commissione c.d. Cartabia e prossimamente all'attenzione del Parlamento.

Lo stiamo facendo per sezioni e con il metodo dell'intervista, con poche domande rivolte a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e un docente universitario.

Abbiamo pubblicato i contributi secondo l'ordine di ricezione, in maniera casuale. Il piano completo dell'opera è consultabile al → link.

Terminate le varie sezioni pubblicheremo le risposte di tutti i professionisti del processo in un unico contributo.

Proseguiamo oggi con la sezione Il giudizio monocratico, per il quale abbiamo rivolto le nostre domande a Francesco Giarrusso (giudice), Anna Maria Siagura (pm), Vincenzo Pillitteri (avvocato) e Luigi Ludovici (docente).





1-  La riforma intende introdurre un’udienza filtro per i procedimenti a citazione diretta, in cui il Giudice sarà chiamato, tra le altre cose, a valutare se sussiste una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria. Le pare una riforma cui potrebbe conseguire un reale effetto deflattivo dei giudizi, oppure si rischia di inserire un passaggio procedurale che dilaterà i tempi processuali?

La risposta del giudiceIn un contesto in cui, come si è visto, vi sono obiettivi e plurimi riscontri circa il fatto che l’udienza preliminare funzioni male, tanto da essersi ventilata in dottrina la possibilità di una sua soppressione, la direttiva di delega di cui all’art. 6 del ddl. Bonafede non può che suscitare forti perplessità. Quest’ultima, infatti, propone di introdurre per i reati a citazione diretta di cui all’art. 550 c.p.p. un’inedita udienza filtro, celebrata dinnanzi a un giudice monocratico diverso da quello dibattimentale, nella quale, da un lato, dovrebbero essere richiesti (a pena di decadenza) alcuni riti alternativi, e, da un altro lato, il decisore sarebbe chiamato a valutare la sussistenza o meno dei presupposti per pronunciare sentenza di non luogo a procedere. 

In estrema sintesi, in modo del tutto anomalo, si vuole dar vita per i reati finora giudicati con il rito a citazione diretta a una “mini udienza preliminare”, finalizzata «a consentire un vaglio volto a evitare la comunque onerosa celebrazione di dibattimenti inutili, che appare scontato o notevolmente probabile che si concluderanno con il proscioglimento». 
Ebbene, nella realtà, una tale modifica che a parere dello scrivente, è frutto di una palese sfiducia nei confronti della selezione effettuata da parte dei pubblici ministeri circa le azioni penali meritevoli di essere esercitate, produrrebbe un significativo aggravio per la macchina della giustizia, ossia un effetto marcatamente in contrasto con i propositi di economia processuale, perseguiti dai riformatori. 
Infatti, è del tutto illusorio pensare che la mera fissazione di un filtro prognostico sulle imputazioni azzardate possa davvero sfoltire un gran numero di regiudicande. 
È alquanto criticabile il fatto che nell’art. 6 del ddl. Bonafede il Governo faccia riferimento soltanto al giudizio abbreviato, al patteggiamento e all’oblazione e non anche alla messa alla prova per adulti. Ci si riferisce, ad esempio, oltre a quanto si è osservato in tema di riti alternativi, al fatto che il Governo, in modo assai criticabile, non ha aggiornato la regola di giudizio per emanare la sentenza di non luogo a procedere in siffatta udienza davanti al giudice monocratico, all’ultima versione dell’art. 425, comma 3, c.p.p. di cui è proposta l’introduzione. 
In altre parole, sembra evidente che allorquando le forze politiche hanno deciso di cambiare, rispetto alle bozze iniziali di legge delega, la formulazione letterale del criterio decisorio dell’udienza preliminare, si sono dimenticati di coordinare tale innovazione con le proposte in tema di Tribunale in composizione monocratica.
Così si esprime la Relazione illustrativa al ddl., cit., p. 8. a prediligere il rinvio a giudizio rispetto al non luogo a procedere in una percentuale altissima di casi. Un tanto porta a dire che l’analisi costi e benefici, compiuta dal delegante quando ha ideato tale nuova udienza, non sia corretta: a fronte di una percentuale probabilmente molto bassa di regiudicande che la stessa riuscirebbe a filtrare, si verificherebbe un sicuro, significativo aumento di costi a carico di un sistema giustizia già in estrema difficoltà. In un momento in cui emerge con sempre con maggiore chiarezza che la scelta di creare l’udienza preliminare si è dimostrata censurabile, dar vita a un nuovo meccanismo pressoché analogo per i reati a citazione diretta non rappresenterebbe altro che la ripetizione di un errore. Non si può che auspicare pertanto che, nel dibattito parlamentare, la direttiva di delega venga del tutto eliminata.

La risposta del pmLa Riforma Bonafede nell'ipotizzare un momento di verifica antecedente alla fase dibattimentale per i reati perseguibili mediante la citazione diretta introduce una curiosa anomalia di sistema, nella misura in cui disattende di fatto la voluntas sottesa alla legge Carotti del 1999, che nel conferire, come noto, all'udienza preliminare la funzione di filtro dell'accusa, di fatto operava una netta distinzione sostanziale e procedurale tra i reati di maggiore gravità e allarme sociale e quelli passibili di un giudizio, per così dire, semplificato.

La proposta di fatto delinea una sorta di udienza preliminare 'speciale' che, contrariamente alle obiettive finalità e agli auspici del legislatore del 1988, di fatto rende più farraginoso anche il sistema per i reati il cui disvalore penale è stato già stimato contenuto dal normoteta stesso, che ha demandato all'iniziativa formale del p.m., mediante la vocatio diretta, la formalizzazione della chiamata in giudizio, difformemente da come avviene nei termini, per così dire, ordinari, costituiti dalla richiesta di rinvio a giudizio, seguita dal decreto che lo dispone.
Posto che la citazione diretta dovrebbe, in effetti, in tesi sfoltire il carico giudiziario ed evitare quell'ulteriore frammento processuale, che concorre altresì a determinare, in un certo senso, le maggiori lungaggini del giudizio, pur se per le note ragioni di garanzia, il vaglio intermedio del giudice monocratico di fatto determinerà un'interruzione rispetto all'iter sino ad oggi seguito.
L'ulteriore segmento processuale non farebbe altro, invece, che complicare, allungare o comunque certamente non semplificare quello che, originariamente, era stato pensato come un giudizio più agile e spedito.
Vi sono, poi, altre ragioni di biasimo rispetto alla prospettata riforma, a parere di chi scrive. 
La prima doglianza si fonda sul potenziale contrasto della novella rispetto ad altri istituti, di recente introduzione, generati, potremmo dire, da un potenziamento del ruolo del p.m. Il legislatore ha, infatti, progressivamente introdotto diversi strumenti che ben potrebbero fungere da moduli di smistamento del 'penalmente rilevante' o del perseguibile, senza determinare ulteriori tempi e passaggi di rivalutazione interni al giudizio, consentendo invece uno sfoltimento a monte, per quelle vicende per le quali il processo appaia non necessario o non opportuno. 
Criterio, quello dell'opportunità dell'azione penale, di certo non scevro da critiche e da timori connessi, benché in vero già in uso in altri ordinamenti europei, primo fra tutti quello spagnolo, con risultati soddisfacenti, in specie sotto il profilo della 'produttività' degli uffici giudiziari. 
Nei limiti di compatibilità con il nostro sistema di civil law, tale scelta appare avallata di fatto dall'introduzione, propriamente nei processi a citazione diretta, di taluni riti speciali, in primis la sospensione del processo con messa alla prova ai sensi dell'art. 168 bis c.p., ad opera della l. 67 del 2014, oltre che dal ricorso alla formula di estinzione del reato conseguente alla realizzazione di condotte riparatorie ex art. 162 ter c.p., elaborata più di recente dalla l. 172 del 2017, e ancor più dalla possibilità di archiviazione per la tenuità del fatto, che tra le sue larghe maglie ben potrebbe consentire, anche da parte del p.m., una valutazione sulla necessarietà dell'azione penale, salvi i poteri del giudice per le indagini preliminari, in veste di garante, e della persona offesa nella verifica sulla correttezza della scelta di inazione operata.
Una seconda critica afferirebbe, poi, in un'ottica più pragmatica, all'organizzazione degli uffici giudiziari: è noto, infatti, come il problema della mancanza di organico sia ritenuto oggi un vero deficit strutturale. Ora, laddove si dovesse ipotizzare l'inserimento di un'ulteriore fase filtro appunto, attribuita expressis verbis ad un giudice diverso da colui che sarà eventualmente chiamato a condurre il giudizio conseguente, per ovvie ragioni di incompatibilità, stente il pre-giudizio svolto, non si comprende in vero come, soprattutto nei tribunali minori, le già esigue sezioni possano riuscire a coprire questi diversi ruoli nello stesso procedimento.

La risposta dell'avvocatoAl fine di esprimere una completa opinione giuridica circa la modifica proposta dal legislatore in ordine all’istituzione di un’udienza filtro per i reati a citazione diretta ex art. 550 c.p.p. è necessario fare una breve premessa. Ho particolarmente seguito gli interventi riportati nel Dossier della riforma del processo penale e devo riconoscere come la dottrina e le associazioni giuridiche degli avvocati non abbiano condiviso tale proposta. Ebbene l’introduzione di una udienza filtro con l’assegnazione della stessa ad un giudice diverso rispetto al titolare del dibattimento lascia invalicabili sospetti di carattere inquisitorio. Secondo quanto riportato nella proposta di riforma il Giudice (“predibattimentale”?) deve dare una valutazione attraverso la conoscenza del fascicolo del PM in modo molto simile a quanto avviene in sede di udienza preliminare. A conclusione di tale vaglio potrà prosciogliere l’imputato non soltanto per un causa estintiva o anche per la sussistenza di una causa di non punibilità ma anche eventualmente nel merito (tanto da richiamare le formule assolutorie di cui all’art. 530 c.p.p.). A ciò si aggiunge l’ipotesi del proscioglimento a seguito di un giudizio prognostico circa l’insufficienza o contraddittorietà degli elementi acquisiti che non potranno “ragionevolmente” supportare la prospettazione accusatoria nel successivo dibattimento. Ebbene, tale previsione normativa appare particolarmente distaccata dai principi del giusto processo e in contrasto con norme di rango costituzionale. In primis è necessario evidenziare che l’eventuale vaglio negativo da parte del “Giudice predibattimentale” apparirebbe particolarmente suggestivo per il Giudice del dibattimento al quale verrà trasmesso il fascicolo (con nuova separazione fascicolo PM contenente atti di indagini preliminari e fascicolo dibattimentale con atti ex art. 431 c.p.p.) e che potrà esserne notevolmente condizionato. Sotto altro profilo, la norma appare, prima facie, in contrasto con l’art. 111 comma 4 Cost. e nello specifico con il principio del contraddittorio nella formazione della prova a supporto del decisum. Detto ciò, al fine di dare una risposta al quesito posto, ritengo che, con tale proposta i tempi processuali verranno dilatati notevolmente ove si consideri che, proprio in ordine ai reati ex art. 550 c.p.p., il giudice, tranne i casi di udienze che nella prassi vengono definite di distribuzione (meri rinvii per assegnazione ad altri giudici o altro), può procedere all’apertura del dibattimento, alle richieste di prova e all’istruttoria dibattimentale. L’introduzione della suddetta udienza dovrà passare da alcuni momenti di stasi ovvero: scelta del Giudice predibattimentale, vaglio degli atti del fascicolo, eventuale superamento della fase, eventuale trasmissione del fascicolo ad altro giudice per la prosecuzione del dibattimento. Tali passaggi creeranno rallentamenti procedurali a causa dei ridotti organici della magistratura ovvero per lo svolgimento di tale accertamento predibattimentale che potrebbe articolarsi in diverse udienze.


La riforma prospettata con riferimento ai casi di citazione diretta a giudizio propugna una sostanziale abolizione della categoria e la contestuale introduzione di una ipotesi speciale di rito monocratico “a procedura rafforzata” connotato da un preliminare controllo giurisdizionale sulle scelte compiute dall’organo dell’accusa al termine delle indagini preliminari. Si vuole in sostanza frapporre, anche in questo caso, un diaframma tra le indagini preliminari e l’effettiva celebrazione del giudizio dibattimentale che, da un punto di vista strutturale, riproduce il meccanismo proprio dell’udienza preliminare. Nello stesso tempo, si tratta però di una “udienza preliminare” assai atipica.  E questo non tanto perché il rinvio a giudizio è già stato disposto o perché l’organo competente a sindacare preliminarmente le determinazioni assunte dal p.m. non è, come di consueto, il GUP ma il Tribunale, sia pure a composizione monocratica. Queste deviazioni dal modello si limitano infatti a scalfire soltanto la superficie dell’istituto senza cambiarne la sostanza. Ma la novella contiene anche un ulteriore elemento di novità che, a mio avviso, assume al contrario una portata dirompente rispetto alle coordinate generali del sistema. Mi riferisco naturalmente al fatto che il Tribunale è tenuto ad emettere sentenza di non luogo a procedere anche quando accerti che gli elementi acquisiti, se confermati in giudizio, consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria. Rispetto all’udienza preliminare ordinaria, il filtro che si vuole così introdurre vede calibrati i suoi esiti rispetto ad una regola di giudizio che ha però ad oggetto non – come nel rito ordinario – l’opportunità dell’azione e quindi la non superfluità del vaglio dibattimentale ma l’esito stesso del processo: e in un sistema ove la responsabilità dell’imputato può essere affermata soltanto ove la prova della colpevolezza emerga oltre ogni ragionevole dubbio, appare difficile sostenere che la ragionevolezza di cui parla la novella non possa essere che quella di cui all’art. 533 c.p.p. Venendo quindi alla domanda, credo che, se così stanno le cose, l’inedito meccanismo processuale che si intende inoculare nel sistema si candidi, se correttamente ed effettivamente applicato, quale importante strumento deflattivo se non altro rispetto al filtro a maglie ben più larghe attualmente offerto – ove prevista - dall’udienza preliminare. Per converso, sembra però doveroso rilevare che, in un’ottica più generale, non si avrebbe, rispetto ad oggi, un surplus di deflazione così significativo visto che, se effettivamente vi è la convinzione che gli atti di indagine consentano una sentenza ex art. 530 c. 2 c.p.p., è lecito ipotizzare che l’imputato decida comunque di percorrere la strada del rito abbreviato. Ma se così stanno le cose è allora evidente che, quantomeno nei casi di citazione diretta, il meccanismo in esame finisce per risolversi per lo più, in un elemento di ulteriore aggravio della procedura, con conseguente dilatazione dei tempi processuali. Sullo sfondo di questo scenario si stagliano poi le non poche riserve circa l’effettiva compatibilità di un siffatto congegno con il nostro sistema processuale, come è noto tradizionalmente refrattario - per precisi vincoli sistematici e costituzionali - a qualsiasi forma di preclusione del vaglio dibattimentale che si voglia fondata su una valutazione prognostica di fondatezza o meno dell’imputazione frutto di una valutazione dei risultati delle indagini. 


2- L’articolo 12 del disegno di legge prevede dei termini entro cui concludere i giudizi. Per quello innanzi al Tribunale monocratico la celebrazione del processo dovrebbe avvenire, senza distinzione alcuna, entro un anno, col rischio di sanzioni disciplinari ove i termini non siano rispettati per negligenza inescusabile. Quale il suo giudizio al riguardo?

La risposta del giudice: In merito alla durata dei processi, la ritengo meritevole di attenzione anche in considerazione, come avviene per le stragrandi categorie professionali, regolamentare la sanzionabilità di quei comportamenti, qualificabili dal legislatore “negligenti” da parte di chi amministra la giustizia, costituendo un valido strumento di controllo. 
Pertanto, alla luce della riforma, risulterebbe assolutamente necessario, una regolamentazione sul monitoraggio della conduzione delle attività processuali.
Però, una attenta critica va evidenziata in merito ai termini di durata circoscritti in “un anno” entro i quali deve avvenire la celebrazione di un procedimento. 
Pertanto, da un lato è ragionevole pensare ad un contenimento delle fasi processuali entro limiti ragionevolmente contenuti, ma dall’altro, non si può tacere, sull'ambito delle competenze del Tribunale Monocratico, ove possano delinearsi fenomeni di illeciti diversi tra loro nei quali risulterebbe ipotizzare vari tempi di durata dei procedimenti a secondo delle tipologie di reato.
Quindi, a parere dello scrivente, corretto indicare un tempo di durata, ma sicuramente più elastico, benché comunque contenuto, per consentire e garantire alle ipotesi penalmente più gravi un lasso di tempo maggiore per un sereno giudizio da parte degli operatori della giustizia. 

La risposta del pmIn ordine alla durata dei processi, perché essa sia davvero ragionevole, appare necessario assumere una posizione chiara ed univoca, che consenta pochi margini di intervento.

In tal senso, come avviene per tante, se non per tutte le categorie professionali, delineare anche la sanzionabilità di comportamenti, qualificabili come negligenti da parte di chi amministra la giustizia, può costituire un ulteriore elemento di controllo. 
Assolutamente opportuno, se non addirittura necessario, appare quindi il monitoraggio sulla conduzione delle attività processuali, in linea peraltro con le più recenti scelte anche in tema di avocazione delle indagini ai sensi dell'art. 412, comma 1, c.p.p., come modificato dalla l. 103 del 2017.
Un dubbio va tuttavia sollevato rispetto ai termini ipotizzati. Se è pur vero che per il contenimento delle fasi appare necessario definire stringenti limiti temporali, nel contempo non si può disconoscere come, anche nell'ambito delle competenze del tribunale in composizione monocratico, adito con citazione diretta, possano individuarsi fenomeni criminali molto diversi tra loro. Non è possibile, quindi, livellare, in questo caso verso il basso peraltro, tutti i tempi di durata; si pensi ad ipotesi molto difformi tra loro, quali il giudizio per un furto semplice e quello per lesioni personali stradali, anche aggravate, a norma dell'art. 590 bis c.p. In queste evenienze, dovrebbe essere possibile immaginare un margine più elastico, benché comunque contenuto, per consentire gradatamente di riservare alle ipotesi penalmente più gravi un lasso di tempo maggiore per il giudizio. 
Tuttavia, anche in questo caso, con una obiezione che reitera quella già prospettata in merito alla prima delle questioni trattate sulla riforma, afferenti al giudizio a citazione diretta, non possono disconoscersi le problematiche connesse all'organico degli uffici. E' evidente che, pur con tutti i migliori auspici, ipotizzare un'accelerazione dei tempi della giustizia, mediante una riduzione controllata dei termini, ad organico immutato, si rivela un'utopia. Non si può, infatti, immaginare di poter sfoltire il numero attuale di processi, fruendo dei magistrati giudicanti oggi in servizio, per il solo fatto che sia imposto un termine di completamento di grado. Per soddisfare tale obiettivo della riforma sarà imprescindibile, dunque, una implementazione della pianta organica, oltre al ricorso preliminare ad altri fenomeni di semplificazione, ai quali si è in parte già fatto cenno, in uno con una seria opera di depenalizzazione.

La risposta dell'avvocatoL’art. 12 citato impone dei termini entro i quali dovranno concludersi le fasi processuali (primo grado, appello e fase di legittimità). Ebbene, tale previsione, con riferimento al termine di un anno per la celebrazione del rito monocratico dibattimentale, secondo il mio punto di vista, appare poco ragionevole in quanto la durata del processo in generale deve essere commisurata alla complessità del giudizio dibattimentale. Il Giudice non può essere condizionato irragionevolmente da una tempistica processuale particolarmente breve. Tutto ciò andrà a discapito di un giusto processo e di un attento vaglio degli elementi probatori da porre a supporto della sentenza tanto per i reati di minore allarme sociale che, a maggior ragione, per quelli che destano un maggiore disvalore.

La risposta del docente: L’idea di prevedere dei termini di natura strettamente processuale entro cui i giudizi devono essere celebrati e portati a compimento circola da tempo ed oggi assume carattere sempre più centrale a fronte del profondo ridimensionamento che negli ultimi anni ha subito l’istituto della prescrizione. Come insegnano i Maestri, il processo stesso è una pena e pertanto il suo dilatarsi potenzialmente all’infinito è uno dei principali mali da combattere in ogni Società civile. Detto questo, l’intervento prospettato non convince, a mio avviso, almeno per due ordini di ragioni. Innanzitutto, bisogna operare una scelta di campo: se si vogliono introdurre dei termini questi non possono che essere perentori perché soltanto così si offre all’imputato – ma anche alla persona offesa ed alle parti eventuali – la garanzia di una sentenza che sia giusta anche nel quando. Il disegno di legge non fa invece nulla di tutto questo prevedendo quale unica conseguenza dell’inosservanza dei termini previsti la possibilità di comminare una sanzione disciplinare nella eventualità che il magistrato non abbia adottato le misure organizzative ritenute necessarie per rispettarli, sempre peraltro che sia a lui imputabile una negligenza particolarmente qualificata (id est, negligenza inescusabile). Insomma, siamo in presenza di obblighi, quello di rispettare i termini e quello di adottare le misure organizzative all’uopo necessarie, che in entrambi i casi sono, in definitiva, privi di sanzione e pertanto sforniti di qualsivoglia portata cogente. Sotto altro profilo, devo anche dire però che non mi convince affatto l’idea di prevedere termini configurati in maniera così rigida e generalizzata. Al contrario, sarebbe il caso quantomeno di associare ai termini di durata dei meccanismi tali per cui, al verificarsi di specifiche fattispecie, sia consentito dar luogo ad una proroga e/o ad una sospensione degli stessi: il che permetterebbe di assicurare che ogni processo abbia il Suo tempo, calibrato cioè non solo in astratto ma anche sulla base delle specificità della singola vicenda trattata nonchè degli imprevisti che si possono medio tempore verificare e tali da giustificare una parziale dilatazione dei termini ordinari.