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16 agosto 2022

Violenza domestica e di genere: è sufficiente modificare le norme del codice di rito ? di Maria Rosaria Perricone*


 



Il legislatore in tempi recenti, anche sulla scorta di una elevata attenzione mediatica, ha approntato delle modifiche normative volte a contenere la cd. violenza domestica e di genere; tuttavia tali interventi, pur apprezzabili per il lor carattere talvolta innovativo, non sempre sono stati preceduti da una rigorosa analisi del relativo fenomeno sociale e delle problematiche ad esso sottese.

Anche il cd. Codice Rosso di cui alla L. 69/2019, con un atteggiamento di parziale sfiducia sul pregresso operato di pubblici ministeri e forze dell’ordine, si è prevalentemente soffermato sulla tempistica per lo svolgimento delle indagini, dettando dei tempi rigidi per l’istruttoria. Inoltre il legislatore ha voluto imprimere un segnale punitivo attraverso l’innalzamento, oltre che dei minimi, anche dei massimi edittali di taluni reati, determinando così un nuovo ambito di competenze per il Tribunale in composizione collegiale, ad oggi “intasato” dai procedimenti di cui all’art. 572 co II c.p., con conseguente aumento della durata dei processi.

Tuttavia non si è ancora proceduto ad una rivisitazione organica del tessuto normativo creatosi a seguito dell’introduzione delle modifiche legislative, uniformando i mezzi di tutela ordinamentali; inoltre non sono state avviate riforme, non “a costo zero”, che prevengano il fenomeno nella sua più ampia dimensione sociale.

Sul primo versante si rileva che alcune situazioni di gravi pregiudizio per le persone offese sono ancora rimaste sguarnite di tutela: sul punto ad esempio, non essendo prevista una deroga ai limiti edittali di cui all’art. 280 c.p.p. per l’applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa, la misura di cui all’art. 282 ter c.p.p. non può essere richiesta nel caso di reati considerati “meno gravi”, commessi ai danni di persone non conviventi (ad es. l’ex compagna), ma che spesso degenerano in ulteriori condotte pregiudizievoli per la vittima: si pensi all’ipotesi di minacce commesse con l’uso di armi o ancora in presenza di lesioni di non lieve entità, che tuttavia non superano la soglia dei 40 giorni di prognosi ovvero non risultano comunque aggravate ai sensi dell’art. 576 c.p.

Al riguardo si potrebbe agevolmente superare tale criticità inserendo anche nell’art. 282 ter c.p.p. la stessa previsione dell’ultimo comma dell’art. 282 bis c.p.p., in materia di allontanamento dalla casa familiare, che permette l’applicazione di tale misura, per determinati reati, anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall'articolo 280 c.p.p.

Con riferimento poi alla trattazione dei delitti con violenza domestica o di genere, mentre è stata scandagliata la fase delle indagini, al contrario non è stato oggetto di analisi cosa accade dopo, ovvero nel corso del dibattimento, perno centrale di tutto il procedimento penale.

Al riguardo ad esempio di sovente si assiste nelle aule di giustizia al fenomeno della cd. ritrattazione delle persone offese, che inficia la tenuta dibattimentale delle ipotesi di reato ipotizzate.

Escludendo il fenomeno fisiologico di una rivisitazione dei fatti, magari originariamente esposti in un momento di concitazione a seguito dell’intervento delle FF.OO., ciò che invece deve destare attenzione è una ritrattazione “patologica”, che di solito si verifica già a partire dall’applicazione nei confronti dell’indagato di una misura cautelare.

Il netto ridimensionamento delle dichiarazioni rese dalle vittime molto spesso è infatti dettato da un percorso di auto-colpevolizzazione della persona offesa, che conduce la predetta a riavvicinarsi al maltrattante, sminuendo la portata delle sue condotte.

Alla luce di tale evidenza, pertanto, i motivi della ritrattazione devono essere attentamente vagliati in tutte le fasi del procedimento, al fine di verificare se esse siano o meno “patologici”; poiché ad esempio dovuti ad esigenze economiche, ovvero determinati da meccanismi di “dipendenza” psicologica della persona offesa al maltrattante, frutto del suo stesso stato di sottomissione.

 Con riferimento a tale problematica potrebbe essere efficace pertanto una modifica all’art. 500 co. IV c.p.p.: al riguardo infatti una recente giurisprudenza, più attenta a tali dinamiche, ha tentato di interpretare estensivamente tale disposto normativo, affermando che, in caso riavvicinamento della vittima al maltrattante, è legittima l’acquisizione in dibattimento delle dichiarazioni dalla stessa in precedenza rese.

Con riferimento poi al diverso versante dell’analisi del fenomeno della violenza domestica, si ritiene che il cd. “Codice rosso” abbia gettato le basi per una più ampia trattazione delle problematiche sottese, senza tuttavia in alcuni casi essere supportato da successive norme di attuazione, in grado di permettere una applicazione efficace di tali previsioni.

Si pensi ad esempio alla sospensione condizionale della penale, subordinata alla partecipazione a programma di recupero per gli autori dei reati di maltrattamenti, atti persecutori etc.: al riguardo si rileva infatti che gli enti che organizzato tali percorsi non  abbisognano di specifiche certificazioni per attestare il carattere “scientifico” dei loro programmi; a ciò si aggiunga che tali percorsi a pagamento non risultano essere accessibili ad imputati meno abbienti, creandosi così delle diseguaglianze nelle possibilità di recupero tra condannati per i medesimi reati. 

Infine si ritiene che, oltre ad eventuali modifiche al codice penale, per combattere il fenomeno della violenza domestica e di genere è assolutamente necessario intervenire in maniera collaterale con riforme che riguardano la possibilità di accesso ai servizi che indirettamente sono fondamentali per arginare il fenomeno.

Al riguardo, come è noto, una cospicua percentuale delle violenze domestiche (maltrattamenti o estorsioni intra-familiari) sono commesse da soggetti affetti da dipendenze, che sfuggono al circuito del sistema sanitario. A ciò si aggiunga che numerosi imputati soffrono di patologie psichiatriche che determinano o comunque incidono sulle loro condotte: tuttavia per tali soggetti risulta difficile reperire le strutture (REMS o CTA) per dare esecuzione alle misure di sicurezza, disposte nei loro confronti.

Pertanto la “riforma che vorrei” non si deve arrestare al codice penale o a quello di rito, ma deve andare ben al di là delle relative previsioni, per arginare un fenomeno che, come attestano i dati percentuali, non accenna a diminuire ma si presenta in costante aumento. 

 (*) Maria Rosaria Perricone Laureata presso l’Università degli Studi di Palermo, attualmente è Magistrato ordinario con funzioni di sostituto procuratore, presso la Procura della Repubblica di Palermo (attualmente in servizio presso il IV dipartimento, con competenza sui reati con violenza domestica e di genere).

 

12 agosto 2022

Testo del d.l.vo della riforma Cartabia e correlata relazione

In attesa dei pareri delle commissioni parlamentari, pubblichiamo il link al sito del Ministero della Giustizia, per la consultazione dello schema di decreto legislativo di riforma della giustizia penale, approvato dal Consiglio dei Ministri, lo scorso 4 agosto e della  relazione illustrativa di accompagnamento (testi al link).

04 agosto 2022

Buone vacanze - Le pubblicazioni riprenderanno a settembre

 


Foro e Giurisprudenza CTPT si ferma per la sospensione feriale.

Le pubblicazioni riprenderanno nel mese di settembre, salvo ovviamente il gradito intervento di qualche operoso vacanziere. 

Buone vacanze 

03 agosto 2022

Le Sezioni Unite "protraggono" la prescrizione in caso di recidiva.

Con la sentenza n. 30046 depositata il 29 luglio (sentenza al link), le Sezioni Unite hanno escluso ogni operatività del limite di aumento di pena previsto dall'art. 99 VI co. c.p., sia ai fini della determinazione della prescrizione ordinaria che di quella prorogata.

Per una migliore intelligenza del quesito sciolto dal massimo collegio della Corte, giova rammentare che ex art. 157 II co. c.p., <<per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante>>. 

Di talché ai fini della determinazione del tempo minimo necessario ad estinguere il reato deve tenersi conto degli aumenti di pena previsti per le ipotesi di recidiva qualificata. 

Analogamente l'art. 161 c.p. detta una disciplina specifica per la proroga della prescrizione in caso di recidiva qualificata. 

Sennonché l'art. 99 c.p. u.c. dispone che  << in nessun caso l'aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo>>.  

La giurisprudenza si è interrogata se i limiti previsti dall’appena citato art. 99 abbiano un qualche riflesso sulla disciplina della prescrizione, in caso di recidiva.  

Un orientamento giurisprudenziale minoritario ha ritenuto che, ove l'aumento di pena praticato per la recidiva non superi un terzo della pena applicata per il reato contestato, la recidiva perda la sua natura di circostanza aggravante ad effetto speciale e quindi non se ne possa tener conto, né ai fini del calcolo del termine ordinario di prescrizione, ex art. 157 c.p., né ai fini di quello prorogato, ex art. 161 c.p..

Diversamente, un indirizzo maggioritario ha ritenuto che la natura di aggravante ad effetto speciale della recidiva non dipenda dal concreto aumento di pena ex art. 99 c.p. u.c. e che pertanto l'aumento del termine ordinario della prescrizione, previsto dall'art. 157 cpv., vada comunque applicato, sebbene con i limiti dell'art. 99 c.p., sesto comma. Per ciò che invece attiene alla proroga dei tempi di prescrizione in forza di atti interruttivi, il disposto di cui all'art. 161 c.p. prevede degli aumenti prefissati, che non risentono in alcun modo del meccanismo mitigatorio citato.

Le SS.UU. hanno rigettato l'uno e l'altro indirizzo. 

Anzitutto la Corte ha negato che la concreta quantità di pena applicata in forza della recidiva ne possa far mutare la natura, così ripudiando una ricostruzione della recidiva "a geometria variabile". 

Ma i supremi giudici hanno anche smentito l'altro indirizzo esegetico.

Infatti nella sentenza che si annota, la Corte regolatrice ritiene che il mancato richiamo negli artt. 157 e 161 c.p. all'art. 99 risponda ad una visione unitaria, a mente della quale il calcolo della prescrizione risponde ad una logica generale e astratta, lì dove invece i meccanismi di determinazione della pena sono necessariamente correlati a profili concreti e individuali.

Tuttavia la Corte risulta conscia che la portata applicativa dell'impianto normativo così ricostruito potrebbe, in forza di un chiaro effetto duplicatorio dell’ aumento del termine di prescrizione, porre, in taluni casi, problemi di costituzionalità.    


in forza del meccanismo di cui 

02 agosto 2022

La riforma Cartabia: verso una restrizione dei motivi di appello. Prospettive per la prossima legislatura*- di PAOLO FERRUA

 






 Sommario: 1. La riforma dell’appello e il modello accusatorio – 2. La cognizione del giudice di appello – 3. Dalla diade alla triade: la critica alla decisione impugnata – 4. L’opportunità di una soppressione dell’appello contro le sentenze assolutorie - 5. La confusione tra inammissibilità e merito – 6. I frutti avvelenati dell’improcedibilità – 7. Conclusioni

 

1. La riforma dell’appello e il modello accusatorio - L’art. 1 comma 13 lettera i) della riforma Cartabia invita il legislatore delegato a «prevedere l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato».

Si opera così una sensibile restrizione dei motivi di appello che si manifesta sotto due aspetti: a) l’espansione delle cause di inammissibilità; b) la loro irrefrenabile tendenza a sconfinare nel merito[1].

Nella relazione presentata dalla commissione Lattanzi le innovazioni introdotte al giudizio di appello sono giustificate come funzionali alla scelta del modello accusatorio; ma vi è da dubitare sull’effettivo fondamento di questo rilievo, perché il processo di primo grado appare sempre più connotato da una sorta di garantismo inquisitorio. Dopo la costituzionalizzazione del giusto processo, l’attacco frontale al contraddittorio è cessato, né avrebbe potuto essere diversamente, data l’espressa tutela che questo valore riceve nell’art. 111 comma 4 Cost.; ma ne è parallelamente iniziato uno assai più subdolo e meno appariscente, che consiste nel disarmare il modello accusatorio, spostando l’asse del processo verso le fasi preliminari.

L’indagine preliminare che nel sistema accusatorio dovrebbe essere snella e fluida, tale da consentire la pronta instaurazione del dibattimento, si è appesantita di molteplici formalismi e di finestre giurisdizionali, ossia di controlli ed interventi del giudice delle indagini preliminari. Il guaio è che il prolungarsi dell’indagine preliminare allontana e pregiudica l’assunzione delle prove nel dibattimento, anche per la difficoltà dei testimoni di conservare la memoria dei fatti; inoltre, favorisce inevitabilmente l’abuso della custodia cautelare che un rapido passaggio alla fase del giudizio consentirebbe in molti casi di neutralizzare.

Infine, vi è da dubitare della effettiva utilità di moltiplicare i controlli giurisdizionali nella fase delle indagini preliminari: mentre nel dibattimento può, nel complesso, dirsi assicurata l’autonomia e l’equidistanza del giudice dalle parti, se c’è una fase in cui, per varie ragioni - sia ordinamentali sia legate al prevalere delle esigenze di difesa sociale - si avverte una maggiore sensibilità del giudice alle ragioni dell’accusa, è proprio la fase delle indagini preliminari. Ma veniamo ai motivi di appello.

 

2. La cognizione del giudice di appello - Vi è un primo punto che resta incerto e sarà sciolto solo con la presentazione dei decreti delegati. Si tratta di vedere se e in quale misura il giudice conserverà la piena cognizione su tutti i punti della decisione a cui si riferiscono i motivi di appello e se resterà integro il suo potere di rilevare, anche d’ufficio, i vizi degli atti probatori e le cause di inutilizzabilità. In base all’art. 597 comma 1 c.p.p., tuttora vigente, si dovrebbe rispondere di sì, ma è un dato di fatto che il potere ufficioso del giudice subisca un forte limite con la lettera b) dell’art. 581 c.p.p. secondo cui la parte deve indicare, a pena di inammissibilità, le «prove delle quali deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione»: disposizione dalla quale parrebbe ricavarsi che, in assenza di una esplicita deduzione con i motivi di appello, il giudice non possa rilevare i vizi degli atti probatori, nemmeno se si trattasse di inutilizzabilità e di nullità assolute.  E nello stesso senso depone l’ulteriore espansione delle cause di inammissibilità nella legge-delega.

Tuttavia, non sarebbe questo l’aspetto più grave. In un processo accusatorio si può anche ammettere, in forza del potere dispositivo delle parti, che l’ambito di cognizione del giudice di secondo grado sia circoscritto ai motivi di impugnazione e che ogni vizio probatorio sia rilevabile solo su istanza di parte: al crescere dei poteri delle parti è naturale che corrispondano maggiori responsabilità e impegni. Importante è, tuttavia, che i motivi di impugnazione del condannato non subiscano limitazioni incompatibili con l’art. 14 comma 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici che garantisce ad ogni condannato il «diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza». È precisamente in questa chiave che si appuntano le critiche alla legge delega ‘Cartabia’

 

3. Dalla diade alla triade: la critica alla decisione impugnata - Il dato più significativo della delega è senza dubbio il subentrare alla diade contenuta nell’attuale art. 581 c.p.p.  (‘punti’ e ‘motivi specifici’) una triade. All’indicazione dei punti e dei motivi specifici si aggiungono, sulla scia di una giurisprudenza ‘creativa’[2], i ‘rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato’. Come avviene ormai di regola, il legislatore uniforma i suoi precetti ai dicta della giurisprudenza, convertendo il diritto ‘vivente’ in diritto ‘vigente’ con una sorprendente inversione del fisiologico rapporto tra legge e giudice.

Quale sia l’effetto di questa innovazione non è difficile da immaginare. Il richiamo alla necessità di una critica alle ragioni esposte nella decisione - unito alla disposizione sull’onere di denunciare l’erronea valutazione delle prove - lascia sin troppo chiaramente trasparire che, per ottenere una riforma della condanna in assoluzione, sarà necessario individuare un errore o un deficit logico nella sentenza impugnata; ogni qualvolta la parte non sia in grado di documentarli, l’appello sarà dichiarato inammissibile o, comunque, sarà confermata la sentenza di primo grado. La cosa appare comprensibile in rapporto ai profili giuridici, ossia al giudizio di diritto dove, in effetti, la riforma della sentenza implica un errore di qualificazione; ma non altrettanto per quel che attiene alla ricostruzione del fatto e alla individuazione della pena.

Ai fini della riforma di una condanna in assoluzione per motivi di fatto non è necessario – o, almeno, non dovrebbe esserlo secondo le disposizioni tuttora vigenti - che si individui uno specifico errore nella sentenza impugnata. Si pensi alla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio dove l’aggettivo ‘ragionevole’, nella sua inevitabile e preziosa vaghezza, offre al giudice ampi margini di discrezionalità: dal ‘ragionevole’ si transita gradualmente all’‘irragionevole’ senza soluzione di continuità. Vi è, in quel passaggio, una zona grigia, fuzzy, nella quale due diversi giudici, entrambi cognitivamente lucidi, possono in assoluta coerenza giungere ad opposte conclusioni.

‘Discrezionalità’ sta appunto a significare la possibilità di una scelta fra più opzioni, ciascuna pienamente legittima. Fortunatamente, in un buon numero di casi il quadro probatorio è univocamente orientato, per cui l’alternativa condanna/proscioglimento non lascia luogo ad incertezze. Ma esistono situazioni di particolare complessità – i c.d. casi difficili - in cui ben può accadere che un giudice di appello assolva dove il giudice di primo grado ha condannato, senza che risulti un errore o un vizio nella sentenza impugnata, in ordine alla quale non vi è, quindi, alcun rilievo critico da svolgere (quanto all’ipotesi inversa di riforma della sentenza assolutoria in condanna, diremo tra breve).

In simili casi non è per nulla singolare che il giudice d’appello e, prima ancora, la difesa, nella valutazione del complessivo quadro probatorio, possano ravvisare quel ragionevole dubbio che il giudice di primo grado ha ritenuto, altrettanto legittimamente, di negare. Non si vede perché il giudice dovrebbe essere posto nell’assurda alternativa o di ‘inventarsi’ motivi di critica ad una decisione in sé del tutto coerente o di confermare, contro la propria convinzione sulla ‘ragionevolezza’ del dubbio, la sentenza impugnata; soluzione quest’ultima destinata probabilmente a prevalere per la comprensibile riluttanza a censurare la scelta discrezionale del giudice di primo grado. Analogo discorso vale per la difesa costretta o ad ipotizzare inesistenti vizi motivazionali o a rinunciare ad un’impugnazione, quasi certamente destinata a concludersi con la dichiarazione di inammissibilità o con la sentenza di conferma.

Affiora qui un’importante differenza tra l’appello e il ricorso in cassazione. Il ricorso per cassazione è un giudizio sull’altrui giudizio, quindi un meta-giudizio che si svolge attraverso il controllo sulla motivazione della sentenza impugnata alla ricerca di eventuali vizi logici. Ovvio che, ai fini del ricorso e del suo accoglimento, occorra svolgere una critica della sentenza impugnata. La Cassazione controlla il rispetto della regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, accogliendo il ricorso in quanto il giudice abbia superato i margini di discrezionalità connessi al concetto di ‘ragionevole’; ma, a differenza di quanto è consentito in appello, non può, sulla base di una propria e autonoma valutazione, annullare la sentenza quando in essa non si riscontri alcun vizio logico, essendo il giudice rimasto il giudice nell’ambito della propria discrezionalità.

Non così il giudice d’appello. La sua cognizione, allorché i motivi coinvolgano il tema storico, verte direttamente sulla colpevolezza dell’imputato, in ordine alla quale decide in piena autonomia rispetto alle valutazioni espresse dal giudice della sentenza impugnata. Ovvio che, se tali valutazioni appaiono censurabili, la parte denunci il vizio e il giudice lo rilevi. Ma, questo non esclude che, in presenza di un certo quadro probatorio, il giudice possa riformare una condanna in assoluzione, quando, nei margini della discrezionalità consegnatagli dalla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, ritenga più appropriata quella scelta, pur restando esente da specifiche censure la decisione di primo grado.

Questa importante differenza tra appello e ricorso in cassazione rischia di andare persa con la riforma Cartabia. È probabile che in futuro il giudice di appello, anziché esprimere un’autonoma valutazione sulla colpevolezza dell’imputato, si limiti a svolgere un’analisi critica della sentenza impugnata, la cui riforma resterà subordinata all’individuazione di un qualche vizio logico nella motivazione. Di qui, a nostro avviso, un sostanziale contrasto con il menzionato art. 14 comma 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici che garantisce all’imputato il diritto al ‘riesame’ della propria colpevolezza, ossia ad un autonomo giudizio su quel tema, senza subordinarne l’ammissibilità ad una specifica critica della sentenza impugnata.

 

4. L’opportunità di una soppressione dell’appello averso le sentenze assolutorie - Qualcuno, forse, osserverà che l’innovazione, applicabile anche all’appello del pubblico ministero, restringerà parallelamente la possibilità di una riforma dell’assoluzione in condanna; e, almeno in questa parte, potrebbe riuscire favorevole all’imputato.

Sì, ma vi è una netta differenza. Mentre è del tutto naturale che, nella zona di possibile concorrenza tra un’assoluzione e una condanna, il giudice d’appello si orienti in favore dell’assoluzione, non sarebbe ammissibile che, in analoga situazione, il giudice d’appello sostituisse una condanna all’assoluzione, senza individuare in quest’ultima un errore o un deficit logico. È precisamente per questa ragione che l’appello del pubblico ministero – non tutelato né dalla Costituzione né dalle fonti sovranazionali – dovrebbe essere eliminato, come d’altronde aveva suggerito l’originario progetto di delega presentato dalla Commissione ‘Lattanzi’: a rimediare ad eventuali errori nell’assoluzione appare, infatti, più che sufficiente il ricorso in cassazione.   

Nessun problema si porrebbe per quanto riguarda la parità tra accusa e difesa, a cui si richiama l’art. 111 comma 2 Cost. La parità non va intesa come eguaglianza di poteri, ma come rapporto di equilibrio tra le parti: è del tutto ragionevole che, a fronte di una condanna, la tutela dell’imputato sia più intensa rispetto a quella riservata al pubblico ministero in caso di assoluzione.

È vero che la Corte costituzionale con la sentenza n. 26 del 2007 dichiarò illegittima la soppressione dell’appello del pubblico ministero, operata dalla legge ‘Pecorella’ (l. 20 febbraio 2006 n. 46)[3]; ma quella fu una decisione poco convincente, pronunciata in un clima politico avvelenato dai processi a Berlusconi. Basti pensare alla clamorosa contraddizione in cui incappò allora la Corte costituzionale: il ricorso in cassazione del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione fu ritenuto inadeguato a soddisfare gli interessi dell’accusa; ma, con una stupefacente inversione di prospettiva, il ricorso dell’imputato contro la condanna pronunciata per la prima volta in appello fu, invece, considerato sufficiente a garantire gli interessi della difesa.

 

5. La confusione tra inammissibilità e merito - Vengo rapidamente alla confusione tra ammissibilità e merito che si registra nel testo della delega[4]. In un recente convegno, Giovanni Canzio ha rassicurato il mondo forense, affermando che non comparirà nel testo delegato nessuna inammissibilità dell’appello per manifesta infondatezza.

Non dubito dell’esattezza di questa affermazione; ma si dà il caso che la sovrapposizione tra inammissibilità e manifesta infondatezza sia già in re ipsa presente nella delega stessa. In vitro, la distinzione tra inammissibilità e merito è chiara e passa tra la materiale assenza dei motivi di critica e la loro infondatezza. Ma chiunque comprende che, quando i motivi appaiano manifestamente infondati, sarà molto semplice sostenere che la loro presenza è solo apparente. Il passaggio dalla mancanza in senso materiale a quella in senso logico è piuttosto agevole (ad esempio, nella lettera e) dell’art. 606 c.p.p. la ‘mancanza’ viene pacificamente intesa in senso logico e non materiale); e, a facilitarlo ulteriormente, contribuisce l’aggiunta – in sé del tutto superflua - che l’enunciazione dei motivi di critica dev’essere ‘puntuale ed esplicita’.

Cosa si può fare per evitare questo rischio? Poco, perché il testo della delega è molto dettagliato e lascia scarso spazio all’iniziativa del legislatore delegato. L’ideale sarebbe precisare che la mancanza va intesa in senso materiale; ma, dato che difficilmente si provvederà a questo chiarimento, si sopprimano almeno i due aggettivi ‘puntuale ed esplicita’, i quali, sotto l’alibi di un monito puramente pedagogico, non hanno altra funzione che quella di agevolare lo sconfinamento dell’inammissibilità nel merito.

Qualcuno ha osservato che, in fondo, la dizione della delega è del tutto innocua e che sarebbe, anzi, offensivo per gli avvocati muovere dal presupposto che i motivi di appello non siano ‘puntuali’ ed ‘espliciti’. O sancta simplicitas! Come se l’insidia dei due aggettivi non stesse proprio nella loro assoluta ovvietà e ridondanza! È una regola ben nota quella per cui quanto più una formula appare superflua, quindi priva di valore denotativo, tanto più si arricchisce con significati secondi, di carattere connotativo e retorico. Che valore può avere predicare superfluamente che i motivi siano puntuali ed espliciti, se non quello di esortare il giudice ad una maggiore severità nel vaglio di ammissibilità?

 

6. I frutti avvelenati della improcedibilità - Vengo ad un ulteriore motivo di prevedibile espansione della inammissibilità nella prassi giurisprudenziale; si tratta di un aspetto assai più subdolo che coinvolge l’improcedibilità e ne rappresenta, per così dire, il frutto avvelenato.

Tra le tante differenze tra l’improcedibilità e la prescrizione sostanziale vi è anche questa. La prescrizione sostanziale non chiama direttamente in causa la responsabilità del giudice, perché il superamento dei termini massimi dipende da vari fattori, spesso indipendenti dalla singola fase in cui è dichiarata la prescrizione. L’improcedibilità, invece, sì, proprio perché riguarda la gestione della singola fase e, in quanto tale, coinvolge la responsabilità, fors’anche disciplinare del singolo giudice (specie quando sia presente la parte civile che viene fortemente danneggiata dalla improcedibilità, essendo costretta a trasferire la propria pretesa risarcitoria davanti al giudice civile, secondo il nuovo testo dell’art. 578 comma 1-bis c.p.p.).

È facile immaginare che da parte dei giudici vi sarà il massimo sforzo per evitare la dichiarazione di improcedibilità; ma, prima ancora, per prevenire l’alternativa, sicuramente poco gradita all’organo procedente, tra concedere la proroga dei termini massimi o dichiarare l’improcedibilità. Ora, non è dubbio che il mezzo più efficace per troncare alla radice il rischio di incappare in queste rischiose decisioni sia proprio la dichiarazione di inammissibilità dell’appello o del ricorso, non appena se ne intraveda la possibilità.

Tutto ciò, beninteso, non assumerebbe particolare rilievo se i contorni dell’inammissibilità fossero ben circoscritti e distinti dal merito; ma, nel contesto di un sistema dove le due sfere tendono a confondersi, l’avversione del giudice a dichiarare la improcedibilità può creare l’amalgama ideale per uno sfoltimento delle impugnazioni attraverso l’espansione dell’inammissibilità. Si è parlato molto di eterogenesi dei fini, meno di eterogenesi dei mezzi: è possibile che l’improcedibilità finisca per garantire, a modo suo, la ragionevole durata, non tanto troncando la prosecuzione dei processi troppo lunghi, quanto favorendo le declaratorie di inammissibilità. Se un rimprovero si può muovere alle Camere penali, è di non avere attentamente soppesato i rischi che sarebbero derivati dalla sostituzione della prescrizione sostanziale con l’improcedibilità[5].

 

7. Conclusioni - Dal discorso sin qui svolto derivano alcune conclusioni.

Primo. È importante riequilibrare il sistema spostando l’asse del processo verso il dibattimento. Meglio rinunciare a quelle inutili finestre giurisdizionali, che vedono sistematicamente il giudice in sostanziale sudditanza rispetto alle scelte del pubblico ministero; e puntare sull’accelerazione delle indagini preliminari, condizione indispensabile per ridurre l’uso della custodia cautelare e salvaguardare l’autonomia dell’istruzione dibattimentale dagli elementi raccolti in sede investigativa.

Secondo. L’appello del pubblico ministero, che non trova alcuna tutela nella Costituzione e nelle fonti sovranazionali, va abolito, essendo il ricorso per cassazione più che sufficiente a rimediare ad ogni errore commesso a danno dell’accusa.

Terzo. Se il prezzo per la salvaguardia del processo accusatorio è il ridimensionamento dell’appello, si può ammettere che l’ambito di cognizione del giudice di secondo grado venga circoscritto ai motivi della difesa, anziché ai punti della decisione coinvolti dai motivi. Deve, tuttavia, restare fermo che, entro quell’ambito, il giudice rinnova il suo giudizio con gli stessi poteri del giudice di primo grado e con la possibilità di addivenire, in piena autonomia, ad una diversa decisione, senza necessità di individuare errori o vizi logici nella sentenza impugnata.

Quarto. Sappiamo che la scelta della improcedibilità non deriva da una convinzione sulla sua opportunità, ma da un infelice compromesso volto a propiziare il consenso dei pentastellati: chi mai, in effetti, potrebbe ritenere razionale un sistema che vede operante in primo grado la prescrizione sostanziale e in sede di impugnazione quella processuale? Essendo i pentastellati insorti all’idea che un istituto chiamato ‘prescrizione’ potesse tornare operativo in sede di impugnazione, si è pensato di attirarli in una trappola linguistica, offrendo loro, sotto il nome di ‘improcedibilità’, la versione processuale della prescrizione; e i pentastellati, pur consapevoli che quanto veniva loro offerto null’altro era che una prescrizione processuale, hanno accettato, consolati all’idea che almeno sul piano linguistico la riforma Bonafede uscisse salvaguardata.

Ben presto, tuttavia, si sono iniziati a percepire gli inconvenienti della improcedibilità: anzitutto, sul terreno del regime temporale dove, come per ogni istituto processuale, opera la regola del tempus regit actum, con immediata applicabilità delle disposizioni sopravvenute, siano o no favorevoli alla difesa; ma anche nei rapporti con l’art. 129 c.p.p., essendo l’improcedibilità destinata a prevalere su ogni diversa formula di proscioglimento, quand’anche fosse evidente l’innocenza dell’imputato.

A questo punto diversi autori si sono impegnati nell’impossibile sfida di negare la natura processuale della improcedibilità, sostenendo che la prescrizione processuale avrebbe natura …sostanziale! Per lodevole che sia il fine – affermare la regola del tempus commissi delicti, tipica delle disposizioni sostanziali, salva la retroattività della legge più favorevole - non possiamo accettare questa trasfigurazione in sostanziale di un istituto tipicamente processuale, qual è l’improcedibilità. Come potremmo ancora criticare severamente le sentenze ‘creative’ della giurisprudenza, se non esitassimo a praticare analoghi metodi, calpestando la logica e la legge, pur di trarne un vantaggio per la difesa?

Si è – a mio avviso, irresponsabilmente – rinunciato alla prescrizione sostanziale in favore di quella processuale. Se ne accettino, per ora, tutte le conseguenze e ci si impegni, a partire dalla nuova e ormai imminente legislatura, per il ritorno all’antica e saggia prescrizione sostanziale, come causa estintiva del reato. Questo è l’auspicio di chi, come me, conserva un’incrollabile fede nel buon senso del genere umano. 

 

Paolo Ferrua

Professore emerito di procedura penale 

nell'Università di Torino

 

Post scriptum. Chiuso questo scritto, è giunta la notizia dello scioglimento anticipato delle Camere. L’interrogativo pertinente riguarda la sorte dei decreti delegati. Vari interessi concorrono a includerli fra gli ‘affari correnti’ di perdurante competenza governativa (dal timore, non si sa quanto fondato, per i fondi europei alle case editrici pronte a stampare il testo delle riforme).

Che i decreti legislativi siano 'affari correnti' è tesi giuridicamente degna di omeriche risate, ma non dubito che avrà larga diffusione. Quanto al paradosso che della riforma Cartabia sopravviva solo l'improcedibilità, è del tutto evidente che l'esito sarebbe paradossale; ma, ad eliminare il paradosso, sarebbe sufficiente un saggio ritorno alla prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato. 

 

 

 

 

 

 



* Testo riveduto della relazione svolta al Convegno di Padova su La riforma Cartabia. Nuove sfide per una giustizia che cambia  (27-28 maggio 2022)

[1]Al riguardo v., con diverse sfumature, M. Daniele, La riforma della giustizia penale e il modello perduto, in disCrimen, 13 luglio 2021, 6 s.; A. De Caro, Riflessioni critiche sulle proposte della Commissione ministeriale in tema di riforma delle impugnazioni penali, in Archivio penale, 2021, 2, 14 s.; P. Maggio, Nuove ipotesi d’inammissibilità dell’impugnazione, in Proc. pen. giust., 2022, 153 s.; P. Ferrua, La riforma dell’appello, in Dir. pen. proc., 2021, 1158 s. In precedenza, e più in generale, v. M. Bargis, Nuovi orizzonti per le impugnazioni penali nello schema di legge delega proposto dalla commissione ministeriale, in Legislazione penale, 31.05.2021.

 

[2] Sezioni Unite 27 ottobre 2016, n. 8825 («L’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata»).

[3] Sulle modifiche introdotte dalla legge ‘Pecorella’, v. R. Kostoris, Le impugnazioni penali, travagliato terreno alla ricerca di nuovi equilibri, in Riv. dir. proc., 2008, 915 s.; Id., Le modifiche al codice di procedura penale in tema di appello e di ricorso per cassazione introdotte dalla c.d. “legge Pecorella”, ivi, 2006, 633 s.

[4] Sull’esigenza di una netta distinzione tra inammissibilità e manifesta infondatezza v. efficacemente, con riguardo al ricorso in cassazione, O. Mazza La nuova cultura dell’inammissibilità fra paradossi e funzioni legislative, in Inammissibilità: sanzione o deflazione?, Giuffrè, Milano, 2018, 37 s., 42 s.

[5] In senso critico sulla scelta della improcedibilità, v. P. Ferrua, Improcedibilità e ragionevole durata del processo: uno stupefacente caso di evaporazione del processo, in Processo penale e giustizia, 2022, 256 s.

01 agosto 2022

Per una riforma dei riti alternativi- di Daniele Livreri


E' communis opinio che tra le cause di inefficienza del nostro processo penale debba annoverarsi lo scarso impiego dei riti alternativi al dibattimento

Quali le cause del mancato ricorso a queste modalità di definizione del giudizio ? 

Per lo più si richiama l'auspicio delle difese di giungere alla prescrizione.  
Personalmente ritengo tale spiegazione non soltanto non riscontrata, ma, soprattutto, potenzialmente fuorviante, perché rischia di non cogliere le ragioni più profonde dell'insuccesso dei riti alternativi. 

Non mi pare vi siano analisi statistiche che correlino termini di prescrizione e riti alternativi, tuttavia se la chiave di lettura generalmente offerta fosse vera, dal 2008 in poi, i reati per i quali è stato introdotto il raddoppio dei termini di prescrizione dovrebbero essere per lo più definiti nelle forme di cui agli 438 e 444 c.p.p. Analogo ragionamento vale per le ulteriori ipotesi di protrazione dei termini di estinzione dell'illecito variamente previste da norme del codice penale e da leggi speciali (come ad esempio per i delitti tributari).
Ciò a tacere del fatto che complessivamente, almeno da un paio di lustri, si registra un inasprimento delle pene che incide sui termini di prescrizione.

Analogamente sul fronte delle riforme processuali si assiste  almeno dal 2017 in poi, con gli interventi c.d. Orlando e Bonafede, che interessano tutti i reati, a modifiche che rendono difficile se non impossibile il maturare della prescrizione dopo il primo grado di giudizio.

Ciò a voler tacere della circostanza che l'opinabile lettura dell'inammissibilità del ricorso in cassazione fa sì che da decenni nessuno possa ragionevolmente fare affidamento della declaratoria di estinzione del reato in sede di legittimità.      

A fronte di uno scenario si fatto, l'invocata tattica difensiva di accedere al rito ordinario per guadagnare la prescrizione non può ritenersi la principale causa di insuccesso dei riti alternativi

Allora le spiegazioni vanno cercate altrove

Anzitutto, si potrebbe profilare il tema della completezza e della pregnanza delle indagini, dal punto di vista dell'accusato: le difese potrebbe ritenere che le indagini non siano esaustive, né rispetto al novero dei soggetti ascoltati dalla polizia giudiziaria, né rispetto ai temi indagati, o che comunque l'esito della prova assunta in contraddittorio possa essere diverso da quello rassegnato al PM. In altri termini, se la difesa ritiene che il dibattimento serva a rimediare all'esito delle indagini per ottenere un'assoluzione, è evidente che non chiederà di definire il giudizio con i riti alternativi.

Se tale lettura è corretta, si dovrebbe rovesciare l'ottica della comune spiegazione dell'insuccesso dei riti alternativi: il punto non è che si schiva il rito alternativo per ottenere la prescrizione, ma si va a dibattimento per "dimostrare" l'innocenza.    

In tale ottica il dato che appare significativo è quello delle assoluzioni all'esito del giudizio ordinario (sul tema delle percentuali delle assoluzioni si rimanda a nostro post).

Secondo le tabelle riportate nella Relazione sull'amministrazione della giustizia per l'anno 2021, dispensata dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, le assoluzioni a seguito di giudizio ordinario rappresentano il 54,8% degli esiti decisori. Ora, sebbene nella tabella riportata a pag. 55 della relazione, il termine assoluzione sembri impiegato come equivalente di proscioglimento (posto che le assoluzioni, le condanne e gli esiti promiscui integrano quasi il totale degli esiti decisori), è pur vero che nel medesimo documento si indica che la percentuale delle prescrizioni davanti agli organi giurisdizionali di primo grado (esclusi i Giudici di pace) nell'ultimo quadriennio in analisi non ha mai neppure raggiunto il 7% delle definizioni (cfr. tabella di cui a pag. 53 della relazione).

Ora, per quanto probabilmente i dati andrebbero affinati (poichè si è costretti a paragonare assoluzioni in ordinario con prescrizioni davanti a tutti i giudici di primo grado, "compresi" i GUP), ai fini che qui interessano essi sembrano confermare che la scelta del rito ordinario è più correlata ad una prospettiva assolutoria che estintiva del giudizio.

Vi è poi un secondo e concorrente fenomeno da tener presente per comprendere l'insuccesso dei riti alternativi. Al riguardo non si può prescindere dalla tendenza, assunta dal legislatore in modo via via più marcato, di impedire o limitare tali forme di definizione del giudizioSembra quasi che il legislatore sia sempre più animato dall'esigenza di mostrare che i riti alternativi non siano un commodus discessus.

Muoviamo dal patteggiamento. Negli anni, tale modalità di definizione del giudizio è stata sempre più circondata da adempimenti "restitutori" (come per i reati tributari o per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) o da conseguenze negative penali ed extra penali, dovute all'equiparazione alla condanna (si pensi all'equiparazione tra condanna e patteggiamento in tema di confisca, ex art. 240 bis c.p., o all'art. 80 del c.d. codice degli appalti che equipara, ai fini dell'esclusione dagli appalti, la condanna, il decreto penale e il patteggiamento, almeno per determinati reati). In altri casi l'esigenza di escludere una "resa" dello Stato ha fatto sì che certi reati fossero esclusi non soltanto dal c.d. patteggiamento allargato, ma anche, senza troppe sottigliezze dogmatiche, dal concordato in appello. 

Le esigenze sottese a tale approccio possono essere, integralmente o parzialmente, condivise, ma bisogna essere consapevoli degli effetti disincentivanti sulla scelta del rito speciale.

Per ciò che concerne il giudizio abbreviato, di per sè escluso con riguardo ai delitti puniti con la pena dell'ergastolo, si possono osservare due principali criticità:

1) in un sistema caratterizzato da ampia forbice edittale della pena, la sanzione che il giudice potrebbe irrogare è imprevedibileSignificativo, in tal senso, risulta uno studio di qualche anno fa della DGSTAT. La Direzione ministeriale ha infatti accertato che, in tema di stalking, i condannati all'esito del giudizio abbreviato avevano riportato pene mediamente più elevate rispetto ai condannati all'esito del rito ordinario (ce ne eravamo già occupati su questo blog, post al link). Il tutto in un sistema giurisprudenziale che non favorisce di certo il controllo sulla motivazione della pena, se non allorquando la stessa è inflitta in prossimità del massimo edittale

2) il giudizio ex art. 438 c.p.p. più che a prova contratta sembra a piattaforma incerta, mercé l'art. 441 c.p.p..      

Ciò posto, a parere di chi scrive, un maggior ricorso ai riti alternativi dipende sostanzialmente da due fattori, uno di tipo selettivo nell'esercizio dell'azione penale e uno di tipo legislativo

Per ciò che attiene al primo profilo, credo che obiettivamente molto dipenderà da una sorta di autoregolamentazione selettiva delle Procure, nell'esercizio dell'azione penale. Dubito invece che i vari filtri predibattimentali cui mira la c.d. riforma Cartabia  abbiano concrete chance di successo. L'esperienza dell'udienza preliminare sarebbe dovuta servire da monito nella introduzione di ulteriori filtri.        

Qualcosa si potrebbe tentare sul piano degli enunciati normativi, rendendo più appetibili i riti speciali, e qui la riforma è sembrata, per come già scritto su questo blog, piuttosto timida. 

Ad esempio per incentivare il ricorso ai riti alternativi si potrebbe  ampliare l'area della sospensione della pena: 3 anni, anziché 2, limite quest'ultimo che dovrebbe rimanere per il rito ordinario. Al riguardo deve considerarsi che il fallimento del c.d. patteggiamento allargato è verosimilmente da ricondursi al mancato ampliamento della possibilità di sospendere la pena. Peraltro la novella si renderebbe particolarmente interessante rispetto ai c.d. reati ostativi alla concessione delle misure alternative alla detenzione. 

Per ciò che concerne specificamente il patteggiamento si dovrebbe ripensare, almeno per quanto attiene alle conseguenze sul piano professionale o lavorativo, l'accostamento alla condanna o quanto meno  modulare le conseguenze in modo diverso tra i due esiti giudiziari.

Rispetto al giudizio abbreviato, per mitigare gli effetti della incontrollabilità della sanzione, piuttosto che prevedere uno sconto di pena su un quid imponderabile si potrebbe stabilire che in caso di accesso al rito ex art. 438 c.p.p. il massimo edittale si riduca alla metà o similia. In sostanza l'idea sarebbe quella di ridurre la forbice edittale, rendendo meno imprevedibile la sanzione.  

Deve poi notevolmente restringersi il rischio di mutamento della piattaforma probatoria: delineare un rito in cui l'imputato rinuncia al contraddittorio per la formazione della prova sulla scorta di un certo incartamento processuale e poi consentire di mutare quella piattaforma cognitiva, rimanendo il prevenuto vincolato alla sua scelta di rito, è una delle cause che scoraggiano l'adozione del rito. 

Si è ovviamente consci che le superiori indicazioni sono meri spunti tematici, tuttavia ciò che appare fondamentale è che riporre speranze di incremento delle modalità alternative di risoluzione dei giudizi agendo sulla leva prescrittiva rischia di essere un esercizio inutile.