Sommario: 1.
La riforma dell’appello e il modello accusatorio – 2. La cognizione del giudice
di appello – 3. Dalla diade alla triade: la critica alla decisione impugnata –
4. L’opportunità di una soppressione dell’appello contro
le sentenze assolutorie - 5. La confusione tra inammissibilità e merito – 6.
I frutti avvelenati dell’improcedibilità – 7. Conclusioni
1.
La riforma dell’appello e il modello accusatorio - L’art. 1 comma 13
lettera i) della riforma Cartabia invita il legislatore delegato a
«prevedere l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei
motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei
rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel
provvedimento impugnato».
Si
opera così una sensibile restrizione dei motivi di appello che si manifesta
sotto due aspetti: a) l’espansione delle cause di inammissibilità; b)
la loro irrefrenabile tendenza a sconfinare nel merito.
Nella
relazione presentata dalla commissione Lattanzi le innovazioni introdotte al
giudizio di appello sono giustificate come funzionali alla scelta del modello
accusatorio; ma vi è da dubitare sull’effettivo fondamento di questo rilievo,
perché il processo di primo grado appare sempre più connotato da una sorta di
garantismo inquisitorio. Dopo la costituzionalizzazione del giusto processo,
l’attacco frontale al contraddittorio è cessato, né avrebbe potuto essere
diversamente, data l’espressa tutela che questo valore riceve nell’art. 111
comma 4 Cost.; ma ne è parallelamente iniziato uno assai più subdolo e meno
appariscente, che consiste nel disarmare il modello accusatorio, spostando
l’asse del processo verso le fasi preliminari.
L’indagine
preliminare che nel sistema accusatorio dovrebbe essere snella e fluida, tale
da consentire la pronta instaurazione del dibattimento, si è appesantita di
molteplici formalismi e di finestre giurisdizionali, ossia di controlli ed
interventi del giudice delle indagini preliminari. Il guaio è che il
prolungarsi dell’indagine preliminare allontana e pregiudica l’assunzione delle
prove nel dibattimento, anche per la difficoltà dei testimoni di conservare la
memoria dei fatti; inoltre, favorisce inevitabilmente l’abuso della custodia
cautelare che un rapido passaggio alla fase del giudizio consentirebbe in molti
casi di neutralizzare.
Infine,
vi è da dubitare della effettiva utilità di moltiplicare i controlli giurisdizionali
nella fase delle indagini preliminari: mentre nel dibattimento può, nel
complesso, dirsi assicurata l’autonomia e l’equidistanza del giudice dalle
parti, se c’è una fase in cui, per varie ragioni - sia ordinamentali sia legate
al prevalere delle esigenze di difesa sociale - si avverte una maggiore
sensibilità del giudice alle ragioni dell’accusa, è proprio la fase delle
indagini preliminari. Ma veniamo ai motivi di appello.
2. La cognizione del giudice di appello - Vi è un primo punto che resta incerto e sarà
sciolto solo con la presentazione dei decreti delegati. Si tratta di vedere se
e in quale misura il giudice conserverà la piena cognizione su tutti i punti
della decisione a cui si riferiscono i motivi di appello e se resterà integro
il suo potere di rilevare, anche d’ufficio, i vizi degli atti probatori e le
cause di inutilizzabilità. In base all’art. 597 comma 1 c.p.p., tuttora
vigente, si dovrebbe rispondere di sì, ma è un dato di fatto che il potere
ufficioso del giudice subisca un forte limite con la lettera b)
dell’art. 581 c.p.p. secondo cui la parte deve indicare, a pena di
inammissibilità, le «prove delle quali deduce l’inesistenza, l’omessa
assunzione o l’omessa o erronea valutazione»: disposizione dalla quale parrebbe
ricavarsi che, in assenza di una esplicita deduzione con i motivi di appello,
il giudice non possa rilevare i vizi degli atti probatori, nemmeno se si
trattasse di inutilizzabilità e di nullità assolute. E nello stesso senso depone l’ulteriore
espansione delle cause di inammissibilità nella legge-delega.
Tuttavia,
non sarebbe questo l’aspetto più grave. In un processo accusatorio si può anche
ammettere, in forza del potere dispositivo delle parti, che l’ambito di
cognizione del giudice di secondo grado sia circoscritto ai motivi di
impugnazione e che ogni vizio probatorio sia rilevabile solo su istanza di
parte: al crescere dei poteri delle parti è naturale che corrispondano maggiori
responsabilità e impegni. Importante è, tuttavia, che i motivi di impugnazione
del condannato non subiscano limitazioni incompatibili con l’art. 14 comma 5
del Patto internazionale sui diritti civili e politici che garantisce ad ogni
condannato il «diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la
condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza». È precisamente
in questa chiave che si appuntano le critiche alla legge delega ‘Cartabia’
3.
Dalla diade alla triade: la critica alla decisione impugnata - Il dato
più significativo della delega è senza dubbio il subentrare alla diade
contenuta nell’attuale art. 581 c.p.p.
(‘punti’ e ‘motivi specifici’) una triade. All’indicazione dei punti e
dei motivi specifici si aggiungono, sulla scia di una giurisprudenza ‘creativa’[2], i
‘rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel
provvedimento impugnato’. Come avviene ormai di regola, il legislatore uniforma
i suoi precetti ai dicta della
giurisprudenza, convertendo il diritto ‘vivente’ in diritto ‘vigente’ con una
sorprendente inversione del fisiologico rapporto tra legge e giudice.
Quale
sia l’effetto di questa innovazione non è difficile da immaginare. Il richiamo
alla necessità di una critica alle ragioni esposte nella decisione - unito alla
disposizione sull’onere di denunciare l’erronea valutazione delle prove -
lascia sin troppo chiaramente trasparire che, per ottenere una riforma della
condanna in assoluzione, sarà necessario individuare un errore o un deficit
logico nella sentenza impugnata; ogni qualvolta la parte non sia in grado di
documentarli, l’appello sarà dichiarato inammissibile o, comunque, sarà
confermata la sentenza di primo grado. La cosa appare comprensibile in rapporto
ai profili giuridici, ossia al giudizio di diritto dove, in effetti, la riforma
della sentenza implica un errore di qualificazione; ma non altrettanto per quel
che attiene alla ricostruzione del fatto e alla individuazione della pena.
Ai
fini della riforma di una condanna in assoluzione per motivi di fatto non è
necessario – o, almeno, non dovrebbe esserlo secondo le disposizioni tuttora
vigenti - che si individui uno specifico errore nella sentenza impugnata. Si
pensi alla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio dove l’aggettivo
‘ragionevole’, nella sua inevitabile e preziosa vaghezza, offre al giudice ampi
margini di discrezionalità: dal ‘ragionevole’ si transita gradualmente
all’‘irragionevole’ senza soluzione di continuità. Vi è, in quel passaggio, una
zona grigia, fuzzy, nella quale due diversi giudici, entrambi
cognitivamente lucidi, possono in assoluta coerenza giungere ad opposte
conclusioni.
‘Discrezionalità’
sta appunto a significare la possibilità di una scelta fra più opzioni,
ciascuna pienamente legittima. Fortunatamente, in un buon numero di casi il
quadro probatorio è univocamente orientato, per cui l’alternativa condanna/proscioglimento
non lascia luogo ad incertezze. Ma esistono situazioni di particolare
complessità – i c.d. casi difficili - in cui ben può accadere che un giudice di
appello assolva dove il giudice di primo grado ha condannato, senza che risulti
un errore o un vizio nella sentenza impugnata, in ordine alla quale non vi è,
quindi, alcun rilievo critico da svolgere (quanto all’ipotesi inversa di
riforma della sentenza assolutoria in condanna, diremo tra breve).
In
simili casi non è per nulla singolare che il giudice d’appello e, prima ancora,
la difesa, nella valutazione del complessivo quadro probatorio, possano
ravvisare quel ragionevole dubbio che il giudice di primo grado ha ritenuto,
altrettanto legittimamente, di negare. Non si vede perché il giudice dovrebbe
essere posto nell’assurda alternativa o di ‘inventarsi’ motivi di critica ad
una decisione in sé del tutto coerente o di confermare, contro la propria
convinzione sulla ‘ragionevolezza’ del dubbio, la sentenza impugnata; soluzione
quest’ultima destinata probabilmente a prevalere per la comprensibile
riluttanza a censurare la scelta discrezionale del giudice di primo grado.
Analogo discorso vale per la difesa costretta o ad ipotizzare inesistenti vizi
motivazionali o a rinunciare ad un’impugnazione, quasi certamente destinata a
concludersi con la dichiarazione di inammissibilità o con la sentenza di
conferma.
Affiora
qui un’importante differenza tra l’appello e il ricorso in cassazione. Il
ricorso per cassazione è un giudizio sull’altrui giudizio, quindi un
meta-giudizio che si svolge attraverso il controllo sulla motivazione della
sentenza impugnata alla ricerca di eventuali vizi logici. Ovvio che, ai fini
del ricorso e del suo accoglimento, occorra svolgere una critica della sentenza
impugnata. La Cassazione controlla il rispetto della regola dell’oltre ogni
ragionevole dubbio, accogliendo il ricorso in quanto il giudice abbia superato
i margini di discrezionalità connessi al concetto di ‘ragionevole’; ma, a
differenza di quanto è consentito in appello, non può, sulla base di una propria
e autonoma valutazione, annullare la sentenza quando in essa non si riscontri
alcun vizio logico, essendo il giudice rimasto il giudice nell’ambito della
propria discrezionalità.
Non
così il giudice d’appello. La sua cognizione, allorché i motivi coinvolgano il
tema storico, verte direttamente sulla colpevolezza dell’imputato, in ordine
alla quale decide in piena autonomia rispetto alle valutazioni espresse dal
giudice della sentenza impugnata. Ovvio che, se tali valutazioni appaiono
censurabili, la parte denunci il vizio e il giudice lo rilevi. Ma, questo non
esclude che, in presenza di un certo quadro probatorio, il giudice possa
riformare una condanna in assoluzione, quando, nei margini della discrezionalità
consegnatagli dalla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, ritenga più
appropriata quella scelta, pur restando esente da specifiche censure la
decisione di primo grado.
Questa
importante differenza tra appello e ricorso in cassazione rischia di andare
persa con la riforma Cartabia. È probabile che in futuro il giudice di appello,
anziché esprimere un’autonoma valutazione sulla colpevolezza dell’imputato, si
limiti a svolgere un’analisi critica della sentenza impugnata, la cui riforma
resterà subordinata all’individuazione di un qualche vizio logico nella
motivazione. Di qui, a nostro avviso, un sostanziale contrasto con il
menzionato art. 14 comma 5 del Patto internazionale sui diritti civili e
politici che garantisce all’imputato il diritto al ‘riesame’ della propria
colpevolezza, ossia ad un autonomo giudizio su quel tema, senza subordinarne
l’ammissibilità ad una specifica critica della sentenza impugnata.
4.
L’opportunità di una soppressione dell’appello averso le sentenze assolutorie -
Qualcuno, forse, osserverà che l’innovazione, applicabile anche all’appello
del pubblico ministero, restringerà parallelamente la possibilità di una
riforma dell’assoluzione in condanna; e, almeno in questa parte, potrebbe
riuscire favorevole all’imputato.
Sì,
ma vi è una netta differenza. Mentre è del tutto naturale che, nella zona di
possibile concorrenza tra un’assoluzione e una condanna, il giudice d’appello
si orienti in favore dell’assoluzione, non sarebbe ammissibile che, in analoga
situazione, il giudice d’appello sostituisse una condanna all’assoluzione,
senza individuare in quest’ultima un errore o un deficit logico. È
precisamente per questa ragione che l’appello del pubblico ministero – non
tutelato né dalla Costituzione né dalle fonti sovranazionali – dovrebbe essere
eliminato, come d’altronde aveva suggerito l’originario progetto di delega
presentato dalla Commissione ‘Lattanzi’: a rimediare ad eventuali errori
nell’assoluzione appare, infatti, più che sufficiente il ricorso in
cassazione.
Nessun
problema si porrebbe per quanto riguarda la parità tra accusa e difesa, a cui
si richiama l’art. 111 comma 2 Cost. La parità non va intesa come eguaglianza
di poteri, ma come rapporto di equilibrio tra le parti: è del tutto ragionevole
che, a fronte di una condanna, la tutela dell’imputato sia più intensa rispetto
a quella riservata al pubblico ministero in caso di assoluzione.
È vero che la Corte costituzionale con la sentenza n.
26 del 2007 dichiarò illegittima la soppressione dell’appello del pubblico ministero,
operata dalla legge ‘Pecorella’ (l. 20 febbraio 2006 n. 46);
ma quella fu una decisione poco convincente, pronunciata in un clima politico
avvelenato dai processi a Berlusconi. Basti pensare alla clamorosa
contraddizione in cui incappò allora la Corte costituzionale: il ricorso in
cassazione del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione fu ritenuto
inadeguato a soddisfare gli interessi dell’accusa; ma, con una stupefacente
inversione di prospettiva, il ricorso dell’imputato contro la condanna
pronunciata per la prima volta in appello fu, invece, considerato sufficiente a
garantire gli interessi della difesa.
5.
La confusione tra inammissibilità e merito - Vengo rapidamente alla
confusione tra ammissibilità e merito che si registra nel testo della delega.
In un recente convegno, Giovanni Canzio ha rassicurato il mondo forense,
affermando che non comparirà nel testo delegato nessuna inammissibilità
dell’appello per manifesta infondatezza.
Non
dubito dell’esattezza di questa affermazione; ma si dà il caso che la
sovrapposizione tra inammissibilità e manifesta infondatezza sia già in re
ipsa presente nella delega stessa. In vitro, la distinzione tra
inammissibilità e merito è chiara e passa tra la materiale assenza dei motivi
di critica e la loro infondatezza. Ma chiunque comprende che, quando i motivi
appaiano manifestamente infondati, sarà molto semplice sostenere che la loro
presenza è solo apparente. Il passaggio dalla mancanza in senso materiale a
quella in senso logico è piuttosto agevole (ad esempio, nella lettera e)
dell’art. 606 c.p.p. la ‘mancanza’ viene pacificamente intesa in senso logico e
non materiale); e, a facilitarlo ulteriormente, contribuisce l’aggiunta – in sé
del tutto superflua - che l’enunciazione dei motivi di critica dev’essere
‘puntuale ed esplicita’.
Cosa
si può fare per evitare questo rischio? Poco, perché il testo della delega è
molto dettagliato e lascia scarso spazio all’iniziativa del legislatore
delegato. L’ideale sarebbe precisare che la mancanza va intesa in senso
materiale; ma, dato che difficilmente si provvederà a questo chiarimento, si
sopprimano almeno i due aggettivi ‘puntuale ed esplicita’, i quali, sotto
l’alibi di un monito puramente pedagogico, non hanno altra funzione che quella
di agevolare lo sconfinamento dell’inammissibilità nel merito.
Qualcuno
ha osservato che, in fondo, la dizione della delega è del tutto innocua e che
sarebbe, anzi, offensivo per gli avvocati muovere dal presupposto che i motivi
di appello non siano ‘puntuali’ ed ‘espliciti’. O sancta simplicitas!
Come se l’insidia dei due aggettivi non stesse proprio nella loro assoluta
ovvietà e ridondanza! È una regola ben nota quella per cui quanto più una
formula appare superflua, quindi priva di valore denotativo, tanto più si
arricchisce con significati secondi, di carattere connotativo e retorico. Che
valore può avere predicare superfluamente che i motivi siano puntuali ed espliciti,
se non quello di esortare il giudice ad una maggiore severità nel vaglio di
ammissibilità?
6.
I frutti avvelenati della improcedibilità - Vengo ad un ulteriore motivo
di prevedibile espansione della inammissibilità nella prassi giurisprudenziale;
si tratta di un aspetto assai più subdolo che coinvolge l’improcedibilità e ne
rappresenta, per così dire, il frutto avvelenato.
Tra
le tante differenze tra l’improcedibilità e la prescrizione sostanziale vi è
anche questa. La prescrizione sostanziale non chiama direttamente in causa la
responsabilità del giudice, perché il superamento dei termini massimi dipende
da vari fattori, spesso indipendenti dalla singola fase in cui è dichiarata la
prescrizione. L’improcedibilità, invece, sì, proprio perché riguarda la
gestione della singola fase e, in quanto tale, coinvolge la responsabilità,
fors’anche disciplinare del singolo giudice (specie quando sia presente la
parte civile che viene fortemente danneggiata dalla improcedibilità, essendo
costretta a trasferire la propria pretesa risarcitoria davanti al giudice
civile, secondo il nuovo testo dell’art. 578 comma 1-bis
c.p.p.).
È
facile immaginare che da parte dei giudici vi sarà il massimo sforzo per
evitare la dichiarazione di improcedibilità; ma, prima ancora, per prevenire
l’alternativa, sicuramente poco gradita all’organo procedente, tra concedere la
proroga dei termini massimi o dichiarare l’improcedibilità. Ora, non è dubbio
che il mezzo più efficace per troncare alla radice il rischio di incappare in
queste rischiose decisioni sia proprio la dichiarazione di inammissibilità
dell’appello o del ricorso, non appena se ne intraveda la possibilità.
Tutto
ciò, beninteso, non assumerebbe particolare rilievo se i contorni
dell’inammissibilità fossero ben circoscritti e distinti dal merito; ma, nel
contesto di un sistema dove le due sfere tendono a confondersi, l’avversione
del giudice a dichiarare la improcedibilità può creare l’amalgama ideale per
uno sfoltimento delle impugnazioni attraverso l’espansione dell’inammissibilità.
Si è parlato molto di eterogenesi dei fini, meno di eterogenesi dei mezzi: è
possibile che l’improcedibilità finisca per garantire, a modo suo, la
ragionevole durata, non tanto troncando la prosecuzione dei processi troppo
lunghi, quanto favorendo le declaratorie di inammissibilità. Se un rimprovero
si può muovere alle Camere penali, è di non avere attentamente soppesato i
rischi che sarebbero derivati dalla sostituzione della prescrizione sostanziale
con l’improcedibilità.
7.
Conclusioni - Dal discorso sin qui svolto derivano alcune conclusioni.
Primo. È importante riequilibrare il sistema spostando
l’asse del processo verso il dibattimento. Meglio rinunciare a quelle inutili
finestre giurisdizionali, che vedono sistematicamente il giudice in sostanziale
sudditanza rispetto alle scelte del pubblico ministero; e puntare
sull’accelerazione delle indagini preliminari, condizione indispensabile per
ridurre l’uso della custodia cautelare e salvaguardare l’autonomia
dell’istruzione dibattimentale dagli elementi raccolti in sede investigativa.
Secondo. L’appello del pubblico ministero, che non trova
alcuna tutela nella Costituzione e nelle fonti sovranazionali, va abolito,
essendo il ricorso per cassazione più che sufficiente a rimediare ad ogni
errore commesso a danno dell’accusa.
Terzo. Se il prezzo per la salvaguardia del processo
accusatorio è il ridimensionamento dell’appello, si può ammettere che l’ambito
di cognizione del giudice di secondo grado venga circoscritto ai motivi della
difesa, anziché ai punti della decisione coinvolti dai motivi. Deve, tuttavia,
restare fermo che, entro quell’ambito, il giudice rinnova il suo giudizio con
gli stessi poteri del giudice di primo grado e con la possibilità di
addivenire, in piena autonomia, ad una diversa decisione, senza necessità di
individuare errori o vizi logici nella sentenza impugnata.
Quarto. Sappiamo che la scelta della improcedibilità non
deriva da una convinzione sulla sua opportunità, ma da un infelice compromesso
volto a propiziare il consenso dei pentastellati: chi mai, in effetti, potrebbe
ritenere razionale un sistema che vede operante in primo grado la prescrizione
sostanziale e in sede di impugnazione quella processuale? Essendo i
pentastellati insorti all’idea che un istituto chiamato ‘prescrizione’ potesse
tornare operativo in sede di impugnazione, si è pensato di attirarli in una
trappola linguistica, offrendo loro, sotto il nome di ‘improcedibilità’, la
versione processuale della prescrizione; e i pentastellati, pur consapevoli che
quanto veniva loro offerto null’altro era che una prescrizione processuale,
hanno accettato, consolati all’idea che almeno sul piano linguistico la riforma
Bonafede uscisse salvaguardata.
Ben
presto, tuttavia, si sono iniziati a percepire gli inconvenienti della
improcedibilità: anzitutto, sul terreno del regime temporale dove, come per
ogni istituto processuale, opera la regola del tempus regit actum, con
immediata applicabilità delle disposizioni sopravvenute, siano o no favorevoli
alla difesa; ma anche nei rapporti con l’art. 129 c.p.p., essendo
l’improcedibilità destinata a prevalere su ogni diversa formula di proscioglimento,
quand’anche fosse evidente l’innocenza dell’imputato.
A
questo punto diversi autori si sono impegnati nell’impossibile sfida di negare
la natura processuale della improcedibilità, sostenendo che la prescrizione
processuale avrebbe natura …sostanziale! Per lodevole che sia il fine –
affermare la regola del tempus commissi delicti, tipica delle
disposizioni sostanziali, salva la retroattività della legge più favorevole -
non possiamo accettare questa trasfigurazione in sostanziale di un istituto
tipicamente processuale, qual è l’improcedibilità. Come potremmo ancora
criticare severamente le sentenze ‘creative’ della giurisprudenza, se non
esitassimo a praticare analoghi metodi, calpestando la logica e la legge, pur
di trarne un vantaggio per la difesa?
Si
è – a mio avviso, irresponsabilmente – rinunciato alla prescrizione sostanziale
in favore di quella processuale. Se ne accettino, per ora, tutte le conseguenze
e ci si impegni, a partire dalla nuova e ormai imminente legislatura, per il
ritorno all’antica e saggia prescrizione sostanziale, come causa estintiva del
reato. Questo è l’auspicio di chi, come me, conserva un’incrollabile fede nel
buon senso del genere umano.
Paolo Ferrua
Professore emerito di procedura penale
nell'Università di Torino
Post scriptum. Chiuso questo scritto, è giunta la notizia dello scioglimento anticipato delle Camere. L’interrogativo pertinente riguarda la sorte dei decreti delegati. Vari interessi concorrono a includerli fra gli ‘affari correnti’ di perdurante competenza governativa (dal timore, non si sa quanto fondato, per i fondi europei alle case editrici pronte a stampare il testo delle riforme).
Che i decreti legislativi siano 'affari correnti' è tesi giuridicamente degna di omeriche risate, ma non dubito che avrà larga diffusione. Quanto al paradosso che della riforma Cartabia sopravviva solo l'improcedibilità, è del tutto evidente che l'esito sarebbe paradossale; ma, ad eliminare il paradosso, sarebbe sufficiente un saggio ritorno alla prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato.