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07 febbraio 2024

De negatione temporis- di Luigi Tramontano*

 

 

Il disegno di legge licenziato dalla Commissione Giustizia della Camera in tema di prescrizione prevede che il decorso di tale causa estintiva, ove vi sia stata condanna in primo grado, rimanga sospeso per due anni se l’imputato propone appello e per un ulteriore anno se propone anche ricorso per Cassazione.

Si tratta (ancora una volta) di una riforma nettamente sbagliata nella sua ratio, per quanto probabilmente imposta dalla necessità di recuperare almeno qualcosa dei poveri resti a cui da qualche anno è stata ridotta la materia.

Va così senz’altro apprezzata, quanto meno, la prospettata abrogazione delle due più evidenti storture di sistema introdotte in questo campo, da ultimo, dalla c.d. “riforma Cartabia”: vale a dire, la misteriosissima (in diritto) “causa di improcedibilità dell’azione penale” – rinunciabile da parte dell’imputato (sic!) – prevista a sanzione del superamento dei termini perentori fissati per la definizione delle sole fasi di appello e di cassazione (art. 344-bis, commi 1 e 2, c.p.p.), ed il contestuale, quanto beffardo, potere sterilizzatore di tale sanzione assegnato ai giudici del gravame, di dichiarare il procedimento – in modo, di fatto, insindacabile[1] – “particolarmente complesso”, superando così la perentorietà di quegli stessi termini (art. 344-bis, comma 4, c.p.p.).

Se si guarda tuttavia al tempo massimo utile per la definizione di un giudizio – che è ciò che davvero conta considerare, in proposito – non si può proprio dire che la nuova norma apporti significative differenze rispetto alle discipline vorticosamente succedutesi negli ultimi anni, compresa quella attualmente in vigore.

È vero che, formalmente, verrebbe eliminata anche la norma (attualmente prevista dall’art. 161-bis c.p., in esatta replica di quanto prevedeva l’art. 159, comma 2, c.p. introdotto con la c.d. “riforma Bonafede”) che impone la cessazione del corso della prescrizione con la pronuncia della sentenza di prime cure. Ma agli effetti pratici, il robusto freno alla prescrizione destinato ad essere innescato dalla sentenza di primo grado, indubbiamente rimane: due anni per la celebrazione del giudizio di appello (soprattutto oggi che tale fase è divenuta prevalentemente cartolare) sono infatti un tempo enorme, che salvo casi davvero eccezionali difficilmente potrà essere superato; ed ancora più improbabile è che duri più di un anno l’eventuale fase del giudizio di legittimità.

Anche la novella in preparazione risulta così una mera norma “di compromesso”[2], inteso qui tale attributo nel senso deteriore per cui la soluzione trovata, lungi dall’esprimere la miglior mediazione possibile tra due istanze divergenti, si limita a versarle, lasciandole in conflitto tra loro, nella stessa norma.

È infatti evidente che prevedere periodi di sospensione del corso della prescrizione quantunque il processo prosegua, consente sì di ottenere il risultato che ad una prescrizione si giunga assai più raramente, a costo però di disconoscere, forzatamente, che il tempo passi lo stesso sulle ossa di chi attende Giustizia.

È anche quella di prossima approvazione, in definitiva, una norma che nega il passaggio del tempo, quando invece la prescrizione ha la funzione esattamente opposta di regolare le conseguenze di tale passaggio.

Ed invero, è proprio una delle scelte fondamentali che si impongono ad ogni ordinamento quella di stabilire quali effetti riconoscere al trascorrere del tempo, in ragione della primaria esigenza di assicurare certezza alle posizioni giuridiche: dacché queste non possono restare indefinite, né devono rimanere tendenzialmente immutabili.

Non è dubbio allora che un ordinamento entri in contraddizione con sé stesso se, per un verso, fissi una regola sugli effetti del passaggio del tempo (nell’ambito che stiamo considerando, com’è noto, si tratta dell’estinzione del reato una volta maturati i termini stabiliti dagli artt. 157 e 161 c.p.), e poi tuttavia ne crei periodicamente di nuove tese a spostare sempre più in avanti il possibile verificarsi dell’effetto previsto da quella regola.

In termini più distesi, una volta stabilito il tempo massimo entro cui il giudizio su un fatto di reato deve concludersi pena la sua estinzione, risulta incoerente prevedere ipotesi di sospensione del computo di quel termine che non siano strettamente contenute in pochi giorni o in qualche mese, ma che consistano addirittura in anni[3]. Ma ancora più illogico è, con ogni evidenza, prevedere un arresto del computo del tempo mentre il giudizio, in quello stesso tempo, prosegua regolarmente.

Perseverare in antinomie giuridiche di tal fatta, invero, è sempre dannoso perché proprio queste, a tacer d’altro, contribuiscono in modo determinante ad incancrenire un disequilibrio tra i poteri dello Stato che, seppure è sempre in agguato in ogni sistema, non dovrebbe mai lasciarsi stabilizzare.

In generale, infatti, è noto che se le norme sono ambigue o confliggono troppo spesso tra loro, il potere di indirizzare le condotte di ognuno di noi cessa di discendere, prevalentemente, dalla Legge, per essere consegnato in via di supplenza, e nella stessa misura, alla bocca di un giudice.

Ancora più evidente appare tale aspetto patologico nello specifico campo che qui stiamo considerando, dacché è ovvio che tanto più il sistema preveda che possa prolungarsi il giudizio penale su una persona – specie in un ordinamento che, come il nostro, sia affetto da panpenalismo – tanto più incisivo nella vita di ogni cittadino, in quell’ordinamento, risulterà essere appunto, rispetto agli altri poteri, solo quello giudiziario.

Questi, quindi, i motivi delle mie riserve sul progetto di modifica di prossima approvazione che, al pari dei suoi più immediati precedenti, mi pare risulti ugualmente e immancabilmente caratterizzato da quello che definisco appunto un atteggiamento negazionista del passaggio del tempo, tanto illusorio quanto contro natura.

 

Ed invero, ben poco di effettivamente diverso, dicevo, vi è nel disegno di legge attuale rispetto al recente passato.

Ciò che viene previsto con la riforma in corso di approvazione è infatti che la sospensione scatti con la proposizione dell’atto di impugnazione avverso la pronuncia della prima sentenza di condanna, sicché, come anticipato, fatti salvi i casi eccezionali prima detti, la prescrizione rimarrà comunque congelata (poco) dopo la pronuncia di colpevolezza in prime cure, fino alla definitività di quest’ultima. Dunque, nella buona sostanza, esattamente ciò che avevano già stabilito, prima, la c.d. “riforma Bonafede”, e poi la c.d. “riforma Cartabia”.

Identico a quanto previsto da quest’ultima nei casi ordinari (art. 344-bis, commi 1 e 2, c.p.p.) è pure l’allungamento del tempo complessivo utile a definire un giudizio penale, che si avrebbe con la novella ora in esame al Parlamento (appunto di due anni, per l’appello, e di un anno, per il giudizio di cassazione).

E identica rispetto alle discipline precedenti è ancora la previsione secondo cui il tempo rimasto sospeso debba essere recuperato, ossia contato effettivamente, ove l’imputato venga assolto in secondo grado. A ribadire, quindi, che solo gli autentici innocenti, come tali conclamati con sentenza, hanno diritto a che tutto il tempo in cui è durato il giudizio nei loro confronti si conti, ai fini della prescrizione. Non anche i colpevoli.

Si noti in particolare il corto circuito logico in cui finisce per annodarsi una simile previsione. Essa denota infatti che ci si renda perfettamente conto che il processo sia già una pena per l’imputato, e dunque si prevede che ove risulti che quegli invero non la meritasse, perché innocente, debba ottenere quanto meno l’immediato ristoro di non subire ulteriori allungamenti della sua sofferenza, che dovrà subito essere fermata, dichiarandosi che il reato è prescritto. La profonda incoerenza di detta disciplina emerge appunto dal fatto che detto esito non è evidentemente un “beneficio” per l’imputato, dacché a nessuno può convenire (dopo essere rimasto sotto processo per almeno sette anni e mezzo) essere prosciolto per prescrizione piuttosto che essere mandato assolto nel merito. Una norma di tal fatta, quindi, rivela che in realtà il celato presupposto di fondo è che essere sottoposti a processo penale sia un costo che chiunque, persona per bene o no, deve accettare di dover sopportare. Ma allora l’esercizio della giurisdizione è, in modo nettamente difforme dalla Costituzione, l’esercizio di un controllo che deve incombere su ogni cittadino, e non più l’affermazione della Giustizia nei soli casi in cui sia necessario sanzionare chi abbia commesso un reato.

In questa – consapevole o meno – concezione invasiva e totalizzante del senso della giurisdizione si colloca quindi perfettamente il naturale accessorio di una disciplina della prescrizione che tenda in prevalenza ad allungare a dismisura i tempi di utile celebrazione di un giudizio, a scapito di chi vi sia sottoposto.

Lungi infatti dalle capacità anche della riforma in esame, al pari delle pregresse, quella di accelerare i processi, in modo che ad una prescrizione non si arrivi in concreto, se non raramente (ma soprattutto che la sofferenza di chi sia soggetto ad un processo duri di meno). Ed invero, anche secondo il disegno ora in discussione almeno due anni nel caso di impugnazione della prima sentenza di condanna si prevede che possano trascorrere senza produrre alcuna conseguenza (oppure producendone una del tutto inutile, se non ulteriormente dannosa, perché deteriore rispetto alla assoluzione nel merito dell’imputato).

Del resto, potendosi aprire una miriade di procedimenti in forza del patologico eccesso di fattispecie penali esistente in Italia (che ogni nuovo Governo non fa che aumentare ulteriormente), l’inevitabile numero elevato di prescrizioni in prevedibile arrivo non si potrebbe mai combattere in tempi brevi, perciò si preferisce ricorrere alla fictio che esse non possano essere dichiarate.

 

Come già segnalato da acuto osservatore in occasione della c.d. riforma Bonafede[4], l’effetto che producono operazioni di questo tipo è indubbiamente “perverso”: se infatti il termine di prescrizione sia interamente maturato entro il giudizio di primo grado, la prescrizione opererà; se invece quel termine non si sia ancora compiuto entro la prima pronuncia – anche se per poco – la prescrizione slitterà discriminatoriamente in avanti, sebbene il processo in questo caso durerà certamente un tempo maggiore rispetto al primo, in cui la prescrizione è invece maturata.

In effetti, può pure aggiungersi che la nuova proposta di riforma risulta per un particolare aspetto persino peggiore di quella che, nei proclami o negli intenti, vorrebbe disattivare. Oltre infatti a non recuperare affatto nella buona sostanza, come visto, il termine finale della prescrizione, il nuovo intervento si pone invero, e chiaramente, quale (ulteriore) disincentivo alle impugnazioni, l’avversione per le quali risulta essere purtroppo un altro chiodo fisso di ogni visione incautamente semplicistica, o poco evoluta, della giustizia penale[5].

Ed invero, certamente tragica – ossia, in ogni caso di soggezione – non può che definirsi la scelta che in tal modo viene lasciata al condannato in prime cure: se vuole impugnare la sentenza, dovrà accettare la conseguenza che così facendo il tempo di prescrizione – solo del reato a lui addebitato – si allunghi di almeno due anni. Se non vuole cedere a tale ingiustizia, rinunciando ad impugnare, la sentenza a suo carico diverrà ovviamente definitiva.

In uno spirito indiscutibilmente illiberale, perciò, quel che in sostanza la nuova disciplina finirebbe per introdurre – ma si dovrebbe dire “reintrodurre”, dacché la stessa conseguenza era già stata prevista nel 2017, come si sa, con la c.d. riforma Orlando, proveniente dallo schieramento politico esattamente opposto a quello attualmente al governo – è un prolungamento della prescrizione quale effetto propriamente punitivo della scelta del condannato in prime cure di reagire alla condanna ricevuta.

Il che tuttavia confligge con il dato per cui la facoltà di impugnare sia a tutt’oggi prevista come un diritto dall’ordinamento, riconosciuto ad ogni condannato in primo grado (art. 593, comma 1, c.p.p.)[6].

Un’altra antinomia, quindi.

Ed invero, se l’esercizio di un diritto può di certo subordinarsi al rispetto di alcune condizioni (c.d. di ammissibilità), il riconoscimento del diritto in sé non può mai essere (o non dovrebbe mai essere) contraddetto da una successiva previsione in virtù della quale, ove si scelga in concreto di esercitare quel diritto, debba però rinunciarsene ad un altro, a sua volta riconosciuto dalla legge. Più in generale, anche il riconoscere un diritto, o una facoltà, e poi soltanto scoraggiarne (non ancora sanzionarne) l’esercizio, rende l’ordinamento contraddittorio e crea confusione e incertezza nel cittadino.

 Ma non vorrei che mi si equivochi. Ciò a cui l’attuale proposta di modifica costringerebbe ogni condannato a rinunciare, ove impugnasse la condanna patita, non è di certo l’aspettativa alla prescrizione, che un diritto – come risaputo – non è[7]; è piuttosto la rinuncia ad una garanzia direttamente posta dalla stessa Costituzione, ossia quella che il processo che lo riguardi sia “giusto”.

Mi rendo perfettamente conto che non sia immediato coglierlo, essendo ormai prevalso da tempo il costume – tutt’altro che laico – di guardare alla questione della prescrizione in modo fortemente emozionale. Mi ostino, tuttavia, a credere che sia comunque necessario continuare a battersi per rovesciare il messaggio finora veicolato, e ingannevole, secondo cui la prescrizione vada osteggiata in tutti i modi in quanto sarebbe un privilegio ingiusto che la Fortuna riservi ai colpevoli di un reato.

La prescrizione non ha affatto, neppure occasionalmente, tale funzione, e non credo possa essere mai tardi, quindi, per cercare di recuperare, e ricordarne, il suo significato autentico[8]. A costo di apparire scolastici.

Ed invero, tra i tanti possibili modi di disciplinare l’effetto sulle situazioni giuridiche che produce il passare del tempo – un fatto inesorabile – quello di prevedere un termine di prescrizione nel settore penale risale in particolare al postulato di stampo umanistico per cui, appunto, la punizione risulta tanto più ingiusta quanto più si allontani nel tempo dal fatto da punire.

Si tratta a ben vedere di un rilievo squisitamente antropologico, non ideologico: è stato, sì, (ri)portato alla luce dalla dottrina liberale[9], ma non è affatto incompatibile con una visione autoritaria dell’ordinamento penale.

In chiave di prevenzione generale, infatti, la promessa (o la minaccia) della pena funziona solo fino a quando il cittadino possa davvero credere che quella promessa (o minaccia) verrà mantenuta[10]. Vale a dire, fino a quando la punizione gli appaia certa. E la punizione gli apparirà certa solo se possa constatare che essa interviene, nella più parte dei casi, in tempi contenuti rispetto al fatto commesso. Ogni frazione di tempo in più che si perde, rende invero la sensazione umana dell’effettività della punizione sempre più “evanescente” (per usare un aggettivo tanto caro all’attuale Ministro della Giustizia). Il tempo che scorre aumenta inevitabilmente tanto la speranza di impunità, per il reo, quanto la sensazione di impunità diffusa, in tutti gli altri, tra il pubblico. Ecco perché una sanzione che intervenga a distanza di troppo tempo dal fatto viene fatalmente avvertita come un’ingiustizia, e ciò anche in un ordinamento che voglia essere (o apparire) rigoroso, e persino autoritario. Anche la sensazione, tra il pubblico, di diffusa impunità, è infatti generata dalla eccessiva durata dei processi, ossia matura ben prima che si arrivi ad una declaratoria di intervenuta prescrizione per qualcuno.

Parlando della c.d. riforma Bonafede, diceva quindi bene l’attuale Ministro Nordio – pur sbagliando solennemente metafora – che “non si può lasciare una persona sulla graticola per un periodo troppo lungo. È una barbarie[11].

Il concetto è fondamentalmente esatto, ma va meglio precisato se si parla appunto di prescrizione.

Questa, in effetti, non ha in senso proprio la funzione di non far durare un processo troppo a lungo[12]. Ha piuttosto quella, come appena visto, di conferire certezza alle situazioni giuridiche, in conseguenza dell’inesorabile passaggio del tempo sulle stesse. Risponde pertanto, propriamente, a giustizia. E quindi anche, come già accennato, ad assicurare il necessario equilibrio tra i poteri dello Stato. Un ordinamento in cui il peso della giurisdizione sui singoli sia troppo lungo, e persino indefinito, è infatti un ordinamento in cui il potere più grave, più incisivo, finisce per trovarsi di fatto in mano alla Magistratura (soprattutto inquirente), a scapito degli altri due poteri fondamentali.

Ecco perché la previsione di una prescrizione – al pari di altri possibili modi di tenere conto della distanza di tempo che passi tra fatto e giudizio – contribuisce innegabilmente a che il processo risulti “giusto”, in ossequio alla garanzia assicurata dall’art. 111 Cost.[13].

 

Del resto, e lasciando ovviamente da parte ogni riflessione che coinvolga inafferrabili approdi di tipo etico, che un processo sia “giusto” significa essenzialmente, e in senso laico, che esso sia regolato in modo razionale. Ed invero, mai potrebbe ritenersi “giusto” un processo regolato da norme oggettivamente capricciose, confuse, o contraddittorie.

Regolare in modo ragionevole gli effetti del trascorrere del tempo quanto agli accertamenti di giustizia, quindi, può senz’altro dirsi sia un anch’esso un passaggio indefettibile per assicurare che un processo sia “giusto”.

Ebbene, non è certamente razionale prevedere che il tempo del giudizio resti sospeso (sia pur ai soli fini della prescrizione del reato) mentre il processo medesimo prosegua regolarmente. È invero sicuramente rationi non consentaneus “sospendere” il computo di un tempo che in effetti non solo trascorre lo stesso, secondo natura, ma trascorre perfino utilmente ai fini del processo, in quanto quest’ultimo prosegue senz’altro, non si arresta affatto. Tutte le (altre) cause di “sospensione” della prescrizione previste dall’ordinamento si riferiscono infatti a momenti in cui il processo invece si ferma, non può andare avanti, e dunque risulta rispondere ad una logica non “contare” tali momenti.

Né, si badi, la logica impone l’esclusivo e solo utilizzo dell’istituto della prescrizione, per tenere conto di questo passaggio del tempo. In Germania, ad esempio, la prescrizione può verificarsi solo entro il giudizio di primo grado, ed avendo termini molto lunghi, di fatto non si verifica mai. Ma il diritto tedesco prevede che ove il giudizio duri in modo eccedente certe misure, per ogni frazione in più in cui esso sia proseguito il condannato ha diritto ad una proporzionale riduzione di pena (e si può arrivare persino al suo proscioglimento). Può piacere o no, ma questo è indiscutibilmente un modo “razionale” di porre una regola che si prefigga lo scopo di tenere conto del passaggio del tempo.

Limitarsi invece a stabilire che il tempo non passi, quando invece passa, non è razionale in nessuna maniera.



[1] Non essendo fissati criteri guida di sorta in ordine alla qualificazione del processo come “particolarmente complesso”, la relativa decisione dei giudici del gravame, per quanto da motivare, risulta invero sostanzialmente insindacabile. Inoltre, essa è ricorribile per cassazione (anche se proveniente dalla Corte di Cassazione stessa) entro soli 5 giorni dalla sua emissione. In sostanza, un’autentica presa in giro.

[2] Ed invero, com’è noto, il disegno di legge in esame è stato preferito a quello inizialmente proposto, a firma dell’On. Pittalis, che prevedeva un secco ritorno alla riforma del 2005 (c.d. legge ex Cirielli).

[3] Non sarebbe incoerente, invece, aumentare a monte quel tempo massimo (come del resto è stato fatto da noi, e più volte, per singoli reati o per singole tipologie di reato).

[4] G. Losappio, Il congedo della prescrizione dal processo penale. Tempus fu(g)it, in Diritto penale contemporaneo, 7-8/2019, 14

[5] Tale concezione, com’è noto, si basa sulla semplicistica e superficiale considerazione che se il processo debba seguire tre gradi durerà di più che se si esaurisse in un grado solo. Da qui ad esempio la professata convinzione (mai però dimostrata numericamente) che la principale causa dei ritardi della giustizia penale risieda nel malcostume tutto italiano di proporre “appelli puramente dilatori”, per scoraggiare i quali ci si è spinti più volte perfino a proporre di eliminare il divieto di reformatio in peius. Tale considerazione avrebbe un qualche pregio, ritengo, solo se trovasse radice in un sistema penale che prevedesse pene in linea di massima contenute, di veloce espiazione. Ciò che da noi, con ogni evidenza, invece non è, ogni fatto penalmente rilevante essendo piuttosto sanzionato in genere con pene assai severe e spesso anche eccessive. Essendo quindi il processo penale, alla base, un accadimento che può davvero cambiare la vita di un uomo, appare del tutto conseguenziale o inevitabile che questi vi dedichi, difensivamente, ogni suo sforzo, quanto meno cercando di spostare sempre più in avanti il momento finale dell’arrivo della sentenza definitiva, eventualmente a sé sfavorevole.

[6] È noto che la facoltà di proporre appello (nel merito) non sia direttamente assicurata dalla nostra carta costituzionale, e che non lo sia univocamente nemmeno da parte della Carta Europea. Tuttavia, è invece certo che quest’ultima garantisce – a livello equipollente alla Costituzione – il diritto di ogni cittadino a che la condanna da lui ricevuta sia comunque riesaminata, se non da un altro giudice di merito, almeno da un giudice di legittimità (art. 2 del Protocollo 7 CEDU). La sospensione del termine di prescrizione, nella proposta di modifica ora in esame al Parlamento, come visto, si riferisce anche al giudizio di Cassazione, e quindi può dirsi con ogni fondamento che tale previsione si ponga in contraddizione, come minimo, con il diritto di ogni condannato a chiedere comunque il riesame dinanzi ad altro giudice della condanna ricevuta.  

[7] La prescrizione penale non è infatti, come si sa, un diritto dell’imputato, almeno prima che essa si compia effettivamente. Tant’è che la rinuncia alla prescrizione non ha effetto – per unanime giurisprudenza – se rassegnata prima che il relativo termine sia maturato.

[8] Se mai fosse questo anche uno dei suoi soltanto possibili effetti, bisognerebbe allora innanzitutto chiedersi come mai la prescrizione sia stata prevista nel codice penale ancora in vigore proprio da Arturo Rocco: anzi, sarebbe certamente divertente, se Rocco fosse ancora tra noi, ascoltare la risposta che quell’assai caratteriale giurista rivolgerebbe a un rilievo del genere fattogli oggi da un Travaglio, un Davigo, uno Scarpinato, e così via enumerando.

[9] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, ed. Garzanti del 1987, pag. 45: “Quanto più la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile. Dico più giusta, perché risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti dell’incertezza.

[10] C. Beccaria, op. cit., 57: “Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse (…). La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l’idea dei maggiori (…). L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di più per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano più delitti, per fuggir la pena di uno solo”.

[11] V. Stefano Zurlo, La riforma Bonafede? Un mostro incostituzionale, intervista all’ex PM Carlo Nordio, pubblicata su ilGiornale.it del 16 gennaio 2020. In effetti, se si parla di “persone” queste non si può cucinarle – sulla graticola o su altro – neppure per poco tempo, come ben sa chi per tutta la vita abbia svolto il ruolo di pubblico ministero (e non quello di cuoco di una comunità di cannibali). A meno che non si ritenga, in fondo, che vi siano “barbarie” accettabili e “barbarie” inaccettabili. È pur vero, però, che la scelta di metafore inappropriate è spesso rivelatrice di ciò che davvero si pensi, stando almeno ai risultati degli studi di Freud sui lapsus.

[12] Non serve invero a gran ché, ed è comunque sbagliato, dire che anche la prescrizione, tra altri strumenti, serva in ogni caso a garantire la ragionevole durata del processo. E ciò perché non va mai confusa la funzione principale di un istituto giuridico, con i suoi possibili effetti secondari. In punto di diritto, infatti, la prescrizione innanzitutto non opera automaticamente, ma deve essere dichiarata da un giudice, il che può avvenire anche molto tempo dopo che essa sia effettivamente maturata, e non può che essere così. E in secondo luogo, perché il principio per cui la durata di ogni processo deve essere ragionevole, come si sa, non pone un argine soltanto alla misura “in eccesso” di tale durata, ma anche a quella “in difetto”: neanche una pronuncia che intervenisse troppo a ridosso dal fatto potrebbe infatti ritenersi giusta, se l’imputato non abbia avuto il tempo necessario per approntare una meditata difesa o il Pubblico Ministero quello di costruire in modo sufficiente l’accusa.

[13] Non contraddice tale logica, ma anzi la conferma, il fatto che vi siano alcuni reati imprescrittibili: proprio perché in questi casi si tratta di fatti gravissimi, in ordine ai quali s’impone appunto il dovere, nonostante il passaggio del tempo, di non perdere mai la memoria.

(*) Luigi Tramontano:  avvocato del Foro di Palermo dal 1998, iscritto all’Albo dei Cassazionisti dal 2010 e socio di Camera Penale di Trapani, ha collaborato, per diversi anni, con la rivista “Il Foro Italiano”, sezione penale, sotto la direzione del Prof. Giovanni Fiandaca, pubblicando diverse note a sentenze e
una decina di articoli.
Dal 1993 al 1998 ha svolto le funzioni di Vice Pretore Onorario presso la Pretura di Palermo. Dal 1998 al 2007, oltre ad esercitare la professione di avvocato, ha insegnato diritto penale – per singoli temi – presso la Scuola di Perfezionamento delle discipline giuridiche dell’Università di Palermo, diretta dal Prof. Galasso.
Ha svolto le funzioni di relatore in diversi convegni, tra i quali, da ultimo quello organizzato dall’associazione Logos e Ius, e tenutosi a Palermo presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, il 23 ottobre 2019, dal titolo “La prescrizione non è una cura”, e quello tenutosi presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo il 29 marzo 2019, dal titolo “Tutela dei migranti e libertà fondamentali. Lo Stato di diritto e la vicenda Diciotti”.