Il disegno di legge licenziato dalla Commissione Giustizia della Camera in tema di prescrizione prevede che il decorso di tale causa estintiva, ove vi sia stata condanna in primo grado, rimanga sospeso per due anni se l’imputato propone appello e per un ulteriore anno se propone anche ricorso per Cassazione.
Si tratta (ancora una volta) di una riforma
nettamente sbagliata nella sua ratio, per quanto probabilmente imposta
dalla necessità di recuperare almeno qualcosa dei poveri resti a cui da qualche
anno è stata ridotta la materia.
Va così senz’altro apprezzata, quanto meno, la
prospettata abrogazione delle due più evidenti storture di sistema introdotte
in questo campo, da ultimo, dalla c.d. “riforma Cartabia”: vale a dire, la
misteriosissima (in diritto) “causa di improcedibilità dell’azione penale”
– rinunciabile da parte dell’imputato (sic!) – prevista a sanzione del
superamento dei termini perentori fissati per la definizione delle sole
fasi di appello e di cassazione (art. 344-bis, commi 1 e 2, c.p.p.), ed
il contestuale, quanto beffardo, potere sterilizzatore di tale sanzione
assegnato ai giudici del gravame, di dichiarare il procedimento – in modo, di
fatto, insindacabile[1] – “particolarmente
complesso”, superando così la perentorietà di quegli stessi termini (art.
344-bis, comma 4, c.p.p.).
Se si guarda tuttavia al tempo massimo utile
per la definizione di un giudizio – che è ciò che davvero conta considerare, in
proposito – non si può proprio dire che la nuova norma apporti significative
differenze rispetto alle discipline vorticosamente succedutesi negli ultimi
anni, compresa quella attualmente in vigore.
È vero che, formalmente, verrebbe eliminata anche la
norma (attualmente prevista dall’art. 161-bis c.p., in esatta replica di
quanto prevedeva l’art. 159, comma 2, c.p. introdotto con la c.d. “riforma
Bonafede”) che impone la cessazione del corso della prescrizione con la
pronuncia della sentenza di prime cure. Ma agli effetti pratici, il robusto freno
alla prescrizione destinato ad essere innescato dalla sentenza di primo grado,
indubbiamente rimane: due anni per la celebrazione del giudizio di appello (soprattutto
oggi che tale fase è divenuta prevalentemente cartolare) sono infatti un tempo
enorme, che salvo casi davvero eccezionali difficilmente potrà essere superato;
ed ancora più improbabile è che duri più di un anno l’eventuale fase del
giudizio di legittimità.
Anche la novella in preparazione risulta così una
mera norma “di compromesso”[2],
inteso qui tale attributo nel senso deteriore per cui la soluzione trovata,
lungi dall’esprimere la miglior mediazione possibile tra due istanze
divergenti, si limita a versarle, lasciandole in conflitto tra loro, nella
stessa norma.
È infatti evidente che prevedere periodi di
sospensione del corso della prescrizione quantunque il processo prosegua,
consente sì di ottenere il risultato che ad una prescrizione si giunga assai
più raramente, a costo però di disconoscere, forzatamente, che il tempo passi
lo stesso sulle ossa di chi attende Giustizia.
È anche quella di prossima approvazione, in
definitiva, una norma che nega il passaggio del tempo, quando invece la
prescrizione ha la funzione esattamente opposta di regolare le conseguenze di
tale passaggio.
Ed invero, è proprio una delle scelte fondamentali
che si impongono ad ogni ordinamento quella di stabilire quali effetti
riconoscere al trascorrere del tempo, in ragione della primaria esigenza di
assicurare certezza alle posizioni giuridiche: dacché queste non possono
restare indefinite, né devono rimanere tendenzialmente immutabili.
Non è dubbio allora che un ordinamento entri in
contraddizione con sé stesso se, per un verso, fissi una regola sugli effetti
del passaggio del tempo (nell’ambito che stiamo considerando, com’è noto, si
tratta dell’estinzione del reato una volta maturati i termini stabiliti dagli
artt. 157 e 161 c.p.), e poi tuttavia ne crei periodicamente di nuove tese a
spostare sempre più in avanti il possibile verificarsi dell’effetto previsto da
quella regola.
In termini più distesi, una volta stabilito il tempo
massimo entro cui il giudizio su un fatto di reato deve concludersi pena la
sua estinzione, risulta incoerente prevedere ipotesi di sospensione del
computo di quel termine che non siano strettamente contenute in pochi giorni o
in qualche mese, ma che consistano addirittura in anni[3]. Ma
ancora più illogico è, con ogni evidenza, prevedere un arresto del computo del
tempo mentre il giudizio, in quello stesso tempo, prosegua regolarmente.
Perseverare in antinomie giuridiche di tal fatta,
invero, è sempre dannoso perché proprio queste, a tacer d’altro, contribuiscono
in modo determinante ad incancrenire un disequilibrio tra i poteri dello Stato
che, seppure è sempre in agguato in ogni sistema, non dovrebbe mai lasciarsi
stabilizzare.
In generale, infatti, è noto che se le norme sono
ambigue o confliggono troppo spesso tra loro, il potere di indirizzare le
condotte di ognuno di noi cessa di discendere, prevalentemente, dalla Legge,
per essere consegnato in via di supplenza, e nella stessa misura, alla bocca di
un giudice.
Ancora più evidente appare tale aspetto patologico
nello specifico campo che qui stiamo considerando, dacché è ovvio che tanto più
il sistema preveda che possa prolungarsi il giudizio penale su una persona –
specie in un ordinamento che, come il nostro, sia affetto da panpenalismo
– tanto più incisivo nella vita di ogni cittadino, in quell’ordinamento,
risulterà essere appunto, rispetto agli altri poteri, solo quello giudiziario.
Questi, quindi, i motivi delle mie riserve sul
progetto di modifica di prossima approvazione che, al pari dei suoi più
immediati precedenti, mi pare risulti ugualmente e immancabilmente
caratterizzato da quello che definisco appunto un atteggiamento negazionista
del passaggio del tempo, tanto illusorio quanto contro natura.
Ed invero, ben poco di effettivamente diverso,
dicevo, vi è nel disegno di legge attuale rispetto al recente passato.
Ciò che viene previsto con la riforma in corso di
approvazione è infatti che la sospensione scatti con la proposizione
dell’atto di impugnazione avverso la pronuncia della prima sentenza di
condanna, sicché, come anticipato, fatti salvi i casi eccezionali prima detti,
la prescrizione rimarrà comunque congelata (poco) dopo la pronuncia di
colpevolezza in prime cure, fino alla definitività di quest’ultima. Dunque,
nella buona sostanza, esattamente ciò che avevano già stabilito, prima, la c.d.
“riforma Bonafede”, e poi la c.d. “riforma Cartabia”.
Identico a quanto previsto da quest’ultima nei casi
ordinari (art. 344-bis, commi 1 e 2, c.p.p.) è pure l’allungamento del
tempo complessivo utile a definire un giudizio penale, che si avrebbe con la
novella ora in esame al Parlamento (appunto di due anni, per l’appello, e di un
anno, per il giudizio di cassazione).
E identica rispetto alle discipline precedenti è
ancora la previsione secondo cui il tempo rimasto sospeso debba essere
recuperato, ossia contato effettivamente, ove l’imputato venga assolto in
secondo grado. A ribadire, quindi, che solo gli autentici innocenti, come tali
conclamati con sentenza, hanno diritto a che tutto il tempo in cui è
durato il giudizio nei loro confronti si conti, ai fini della prescrizione. Non
anche i colpevoli.
Si noti in particolare il corto circuito logico in
cui finisce per annodarsi una simile previsione. Essa denota infatti che ci si
renda perfettamente conto che il processo sia già una pena per l’imputato, e
dunque si prevede che ove risulti che quegli invero non la meritasse, perché
innocente, debba ottenere quanto meno l’immediato ristoro di non subire
ulteriori allungamenti della sua sofferenza, che dovrà subito essere fermata,
dichiarandosi che il reato è prescritto. La profonda incoerenza di detta disciplina
emerge appunto dal fatto che detto esito non è evidentemente un “beneficio” per
l’imputato, dacché a nessuno può convenire (dopo essere rimasto sotto processo
per almeno sette anni e mezzo) essere prosciolto per prescrizione piuttosto che
essere mandato assolto nel merito. Una norma di tal fatta, quindi, rivela che
in realtà il celato presupposto di fondo è che essere sottoposti a processo
penale sia un costo che chiunque, persona per bene o no, deve accettare
di dover sopportare. Ma allora l’esercizio della giurisdizione è, in modo
nettamente difforme dalla Costituzione, l’esercizio di un controllo che
deve incombere su ogni cittadino, e non più l’affermazione della Giustizia nei
soli casi in cui sia necessario sanzionare chi abbia commesso un reato.
In questa – consapevole o meno – concezione invasiva
e totalizzante del senso della giurisdizione si colloca quindi perfettamente il
naturale accessorio di una disciplina della prescrizione che tenda in
prevalenza ad allungare a dismisura i tempi di utile celebrazione di un
giudizio, a scapito di chi vi sia sottoposto.
Lungi infatti dalle capacità anche della riforma in
esame, al pari delle pregresse, quella di accelerare i processi, in modo
che ad una prescrizione non si arrivi in concreto, se non raramente (ma
soprattutto che la sofferenza di chi sia soggetto ad un processo duri di meno).
Ed invero, anche secondo il disegno ora in discussione almeno due anni nel caso
di impugnazione della prima sentenza di condanna si prevede che possano
trascorrere senza produrre alcuna conseguenza (oppure producendone una del
tutto inutile, se non ulteriormente dannosa, perché deteriore rispetto alla
assoluzione nel merito dell’imputato).
Del resto, potendosi aprire una miriade di
procedimenti in forza del patologico eccesso di fattispecie penali esistente in
Italia (che ogni nuovo Governo non fa che aumentare ulteriormente),
l’inevitabile numero elevato di prescrizioni in prevedibile arrivo non si
potrebbe mai combattere in tempi brevi, perciò si preferisce ricorrere alla fictio
che esse non possano essere dichiarate.
Come già segnalato da acuto osservatore in occasione
della c.d. riforma Bonafede[4], l’effetto che
producono operazioni di questo tipo è indubbiamente “perverso”: se infatti il termine
di prescrizione sia interamente maturato entro il giudizio di primo grado, la
prescrizione opererà; se invece quel termine non si sia ancora compiuto entro
la prima pronuncia – anche se per poco – la prescrizione slitterà discriminatoriamente
in avanti, sebbene il processo in questo caso durerà certamente un tempo
maggiore rispetto al primo, in cui la prescrizione è invece maturata.
In effetti, può pure aggiungersi che la nuova
proposta di riforma risulta per un particolare aspetto persino peggiore di
quella che, nei proclami o negli intenti, vorrebbe disattivare. Oltre infatti a
non recuperare affatto nella buona sostanza, come visto, il termine finale della
prescrizione, il nuovo intervento si pone invero, e chiaramente, quale
(ulteriore) disincentivo alle impugnazioni, l’avversione per le quali risulta
essere purtroppo un altro chiodo fisso di ogni visione incautamente
semplicistica, o poco evoluta, della giustizia penale[5].
Ed invero, certamente tragica – ossia, in ogni caso
di soggezione – non può che definirsi la scelta che in tal modo viene lasciata
al condannato in prime cure: se vuole impugnare la sentenza, dovrà accettare la
conseguenza che così facendo il tempo di prescrizione – solo del reato a lui
addebitato – si allunghi di almeno due anni. Se non vuole cedere a tale
ingiustizia, rinunciando ad impugnare, la sentenza a suo carico diverrà
ovviamente definitiva.
In uno spirito indiscutibilmente illiberale, perciò,
quel che in sostanza la nuova disciplina finirebbe per introdurre – ma si
dovrebbe dire “reintrodurre”, dacché la stessa conseguenza era già stata
prevista nel 2017, come si sa, con la c.d. riforma Orlando, proveniente dallo
schieramento politico esattamente opposto a quello attualmente al governo – è
un prolungamento della prescrizione quale effetto propriamente punitivo della
scelta del condannato in prime cure di reagire alla condanna ricevuta.
Il che tuttavia confligge con il dato per cui la
facoltà di impugnare sia a tutt’oggi prevista come un diritto dall’ordinamento,
riconosciuto ad ogni condannato in primo grado (art. 593, comma 1, c.p.p.)[6].
Un’altra antinomia, quindi.
Ed invero, se l’esercizio di un diritto può
di certo subordinarsi al rispetto di alcune condizioni (c.d. di ammissibilità),
il riconoscimento del diritto in sé non può mai essere (o non dovrebbe
mai essere) contraddetto da una successiva previsione in virtù della quale, ove
si scelga in concreto di esercitare quel diritto, debba però rinunciarsene ad
un altro, a sua volta riconosciuto dalla legge. Più in generale, anche il
riconoscere un diritto, o una facoltà, e poi soltanto scoraggiarne (non ancora
sanzionarne) l’esercizio, rende l’ordinamento contraddittorio e crea confusione
e incertezza nel cittadino.
Mi rendo perfettamente conto che non sia immediato
coglierlo, essendo ormai prevalso da tempo il costume – tutt’altro che laico –
di guardare alla questione della prescrizione in modo fortemente emozionale. Mi
ostino, tuttavia, a credere che sia comunque necessario continuare a battersi
per rovesciare il messaggio finora veicolato, e ingannevole, secondo cui la
prescrizione vada osteggiata in tutti i modi in quanto sarebbe un privilegio
ingiusto che la Fortuna riservi ai colpevoli di un reato.
La prescrizione non ha affatto, neppure
occasionalmente, tale funzione, e non credo possa essere mai tardi, quindi, per
cercare di recuperare, e ricordarne, il suo significato autentico[8]. A
costo di apparire scolastici.
Ed invero, tra i tanti possibili modi di
disciplinare l’effetto sulle situazioni giuridiche che produce il passare del
tempo – un fatto inesorabile – quello di prevedere un termine di prescrizione
nel settore penale risale in particolare al postulato di stampo umanistico per
cui, appunto, la punizione risulta tanto più ingiusta quanto più si
allontani nel tempo dal fatto da punire.
Si tratta a ben vedere di un rilievo squisitamente
antropologico, non ideologico: è stato, sì, (ri)portato alla luce dalla
dottrina liberale[9], ma non è affatto
incompatibile con una visione autoritaria dell’ordinamento penale.
In chiave di prevenzione generale, infatti, la
promessa (o la minaccia) della pena funziona solo fino a quando il cittadino
possa davvero credere che quella promessa (o minaccia) verrà mantenuta[10].
Vale a dire, fino a quando la punizione gli appaia certa. E la
punizione gli apparirà certa solo se possa constatare che essa interviene,
nella più parte dei casi, in tempi contenuti rispetto al fatto commesso. Ogni
frazione di tempo in più che si perde, rende invero la sensazione umana
dell’effettività della punizione sempre più “evanescente” (per usare un
aggettivo tanto caro all’attuale Ministro della Giustizia). Il tempo che scorre
aumenta inevitabilmente tanto la speranza di impunità, per il reo, quanto la
sensazione di impunità diffusa, in tutti gli altri, tra il pubblico. Ecco
perché una sanzione che intervenga a distanza di troppo tempo dal fatto viene
fatalmente avvertita come un’ingiustizia, e ciò anche in un ordinamento
che voglia essere (o apparire) rigoroso, e persino autoritario. Anche la
sensazione, tra il pubblico, di diffusa impunità, è infatti generata dalla
eccessiva durata dei processi, ossia matura ben prima che si arrivi ad una
declaratoria di intervenuta prescrizione per qualcuno.
Parlando della c.d. riforma Bonafede, diceva quindi
bene l’attuale Ministro Nordio – pur sbagliando solennemente metafora – che “non
si può lasciare una persona sulla graticola per un periodo troppo lungo. È una
barbarie”[11].
Il concetto è fondamentalmente esatto, ma va meglio
precisato se si parla appunto di prescrizione.
Questa, in effetti, non ha in senso proprio la
funzione di non far durare un processo troppo a lungo[12]. Ha
piuttosto quella, come appena visto, di conferire certezza alle
situazioni giuridiche, in conseguenza dell’inesorabile passaggio del tempo
sulle stesse. Risponde pertanto, propriamente, a giustizia. E quindi
anche, come già accennato, ad assicurare il necessario equilibrio tra i poteri
dello Stato. Un ordinamento in cui il peso della giurisdizione sui singoli sia
troppo lungo, e persino indefinito, è infatti un ordinamento in cui il potere
più grave, più incisivo, finisce per trovarsi di fatto in mano alla
Magistratura (soprattutto inquirente), a scapito degli altri due poteri
fondamentali.
Ecco perché la previsione di una prescrizione – al
pari di altri possibili modi di tenere conto della distanza di tempo che passi
tra fatto e giudizio – contribuisce innegabilmente a che il processo risulti
“giusto”, in ossequio alla garanzia assicurata dall’art. 111 Cost.[13].
Del resto, e lasciando ovviamente da parte ogni
riflessione che coinvolga inafferrabili approdi di tipo etico, che un processo
sia “giusto” significa essenzialmente, e in senso laico, che esso sia regolato
in modo razionale. Ed invero, mai potrebbe ritenersi “giusto” un
processo regolato da norme oggettivamente capricciose, confuse, o
contraddittorie.
Regolare in modo ragionevole gli effetti del
trascorrere del tempo quanto agli accertamenti di giustizia, quindi, può
senz’altro dirsi sia un anch’esso un passaggio indefettibile per assicurare che
un processo sia “giusto”.
Ebbene, non è certamente razionale prevedere che il tempo
del giudizio resti sospeso (sia pur ai soli fini della prescrizione del
reato) mentre il processo medesimo prosegua regolarmente. È invero sicuramente rationi
non consentaneus “sospendere” il computo di un tempo che in effetti non
solo trascorre lo stesso, secondo natura, ma trascorre perfino utilmente ai
fini del processo, in quanto quest’ultimo prosegue senz’altro, non si arresta
affatto. Tutte le (altre) cause di “sospensione” della prescrizione previste
dall’ordinamento si riferiscono infatti a momenti in cui il processo invece si
ferma, non può andare avanti, e dunque risulta rispondere ad una logica non
“contare” tali momenti.
Né, si badi, la logica impone l’esclusivo e solo utilizzo dell’istituto
della prescrizione, per tenere conto di questo passaggio del tempo. In
Germania, ad esempio, la prescrizione può verificarsi solo entro il giudizio di
primo grado, ed avendo termini molto lunghi, di fatto non si verifica mai. Ma
il diritto tedesco prevede che ove il giudizio duri in modo eccedente certe
misure, per ogni frazione in più in cui esso sia proseguito il condannato ha
diritto ad una proporzionale riduzione di pena (e si può arrivare persino al
suo proscioglimento). Può piacere o no, ma questo è indiscutibilmente un modo
“razionale” di porre una regola che si prefigga lo scopo di tenere conto del
passaggio del tempo.
Limitarsi invece a stabilire che il tempo non passi, quando invece passa,
non è razionale in nessuna maniera.
[1] Non
essendo fissati criteri guida di sorta in ordine alla qualificazione del
processo come “particolarmente complesso”, la relativa decisione dei giudici
del gravame, per quanto da motivare, risulta invero sostanzialmente
insindacabile. Inoltre, essa è ricorribile per cassazione (anche se proveniente
dalla Corte di Cassazione stessa) entro soli 5 giorni dalla sua emissione. In
sostanza, un’autentica presa in giro.
[2] Ed
invero, com’è noto, il disegno di legge in esame è stato preferito a quello
inizialmente proposto, a firma dell’On. Pittalis, che prevedeva un secco
ritorno alla riforma del 2005 (c.d. legge ex Cirielli).
[3] Non
sarebbe incoerente, invece, aumentare a monte quel tempo massimo (come del
resto è stato fatto da noi, e più volte, per singoli reati o per singole
tipologie di reato).
[4] G. Losappio, Il congedo della
prescrizione dal processo penale. Tempus fu(g)it, in Diritto penale
contemporaneo, 7-8/2019, 14
[5] Tale
concezione, com’è noto, si basa sulla semplicistica e superficiale
considerazione che se il processo debba seguire tre gradi durerà di più che se
si esaurisse in un grado solo. Da qui ad esempio la professata convinzione (mai
però dimostrata numericamente) che la principale causa dei ritardi della
giustizia penale risieda nel malcostume tutto italiano di proporre “appelli
puramente dilatori”, per scoraggiare i quali ci si è spinti più volte perfino a
proporre di eliminare il divieto di reformatio in peius. Tale
considerazione avrebbe un qualche pregio, ritengo, solo se trovasse radice in
un sistema penale che prevedesse pene in linea di massima contenute, di veloce
espiazione. Ciò che da noi, con ogni evidenza, invece non è, ogni fatto
penalmente rilevante essendo piuttosto sanzionato in genere con pene assai
severe e spesso anche eccessive. Essendo quindi il processo penale, alla base,
un accadimento che può davvero cambiare la vita di un uomo, appare del tutto
conseguenziale o inevitabile che questi vi dedichi, difensivamente, ogni suo
sforzo, quanto meno cercando di spostare sempre più in avanti il momento finale
dell’arrivo della sentenza definitiva, eventualmente a sé sfavorevole.
[6] È
noto che la facoltà di proporre appello (nel merito) non sia direttamente
assicurata dalla nostra carta costituzionale, e che non lo sia univocamente
nemmeno da parte della Carta Europea. Tuttavia, è invece certo che quest’ultima
garantisce – a livello equipollente alla Costituzione – il diritto di ogni
cittadino a che la condanna da lui ricevuta sia comunque riesaminata, se non da
un altro giudice di merito, almeno da un giudice di legittimità (art. 2 del
Protocollo 7 CEDU). La sospensione del termine di prescrizione, nella proposta
di modifica ora in esame al Parlamento, come visto, si riferisce anche al
giudizio di Cassazione, e quindi può dirsi con ogni fondamento che tale
previsione si ponga in contraddizione, come minimo, con il diritto di ogni condannato
a chiedere comunque il riesame dinanzi ad altro giudice della condanna
ricevuta.
[7] La
prescrizione penale non è infatti, come si sa, un diritto dell’imputato, almeno
prima che essa si compia effettivamente. Tant’è che la rinuncia alla
prescrizione non ha effetto – per unanime giurisprudenza – se rassegnata prima
che il relativo termine sia maturato.
[8] Se
mai fosse questo anche uno dei suoi soltanto possibili effetti, bisognerebbe
allora innanzitutto chiedersi come mai la prescrizione sia stata prevista nel
codice penale ancora in vigore proprio da Arturo Rocco: anzi, sarebbe
certamente divertente, se Rocco fosse ancora tra noi, ascoltare la risposta che
quell’assai caratteriale giurista rivolgerebbe a un rilievo del genere fattogli
oggi da un Travaglio, un Davigo, uno Scarpinato, e così via enumerando.
[9] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene,
ed. Garzanti del 1987, pag. 45: “Quanto più la pena sarà più pronta e più
vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile. Dico
più giusta, perché risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti
dell’incertezza”.
[10] C. Beccaria, op. cit., 57: “Uno
dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità
di esse (…). La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una
maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla
speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi,
spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci
tien luogo di tutto, ne allontana sempre l’idea dei maggiori (…). L’atrocità
stessa della pena fa che si ardisca tanto di più per ischivarla, quanto è
grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano più delitti, per
fuggir la pena di uno solo”.
[11] V.
Stefano Zurlo, La riforma Bonafede? Un mostro incostituzionale,
intervista all’ex PM Carlo Nordio, pubblicata su ilGiornale.it del 16
gennaio 2020. In effetti, se si parla di “persone” queste non si può
cucinarle – sulla graticola o su altro – neppure per poco tempo, come ben sa
chi per tutta la vita abbia svolto il ruolo di pubblico ministero (e non quello
di cuoco di una comunità di cannibali). A meno che non si ritenga, in fondo, che
vi siano “barbarie” accettabili e “barbarie” inaccettabili. È pur vero, però,
che la scelta di metafore inappropriate è spesso rivelatrice di ciò che davvero
si pensi, stando almeno ai risultati degli studi di Freud sui lapsus.
[12] Non
serve invero a gran ché, ed è comunque sbagliato, dire che anche la
prescrizione, tra altri strumenti, serva in ogni caso a garantire la ragionevole
durata del processo. E ciò perché non va mai confusa la funzione principale
di un istituto giuridico, con i suoi possibili effetti secondari. In punto di
diritto, infatti, la prescrizione innanzitutto non opera automaticamente, ma
deve essere dichiarata da un giudice, il che può avvenire anche molto tempo
dopo che essa sia effettivamente maturata, e non può che essere così. E in
secondo luogo, perché il principio per cui la durata di ogni processo deve
essere ragionevole, come si sa, non pone un argine soltanto alla misura
“in eccesso” di tale durata, ma anche a quella “in difetto”: neanche una
pronuncia che intervenisse troppo a ridosso dal fatto potrebbe infatti
ritenersi giusta, se l’imputato non abbia avuto il tempo necessario per
approntare una meditata difesa o il Pubblico Ministero quello di costruire in
modo sufficiente l’accusa.
[13] Non
contraddice tale logica, ma anzi la conferma, il fatto che vi siano alcuni
reati imprescrittibili: proprio perché in questi casi si tratta di fatti
gravissimi, in ordine ai quali s’impone appunto il dovere, nonostante il
passaggio del tempo, di non perdere mai la memoria.
una decina di articoli.
Dal 1993 al 1998 ha svolto le funzioni di Vice Pretore Onorario presso la Pretura di Palermo. Dal 1998 al 2007, oltre ad esercitare la professione di avvocato, ha insegnato diritto penale – per singoli temi – presso la Scuola di Perfezionamento delle discipline giuridiche dell’Università di Palermo, diretta dal Prof. Galasso.
Ha svolto le funzioni di relatore in diversi convegni, tra i quali, da ultimo quello organizzato dall’associazione Logos e Ius, e tenutosi a Palermo presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, il 23 ottobre 2019, dal titolo “La prescrizione non è una cura”, e quello tenutosi presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo il 29 marzo 2019, dal titolo “Tutela dei migranti e libertà fondamentali. Lo Stato di diritto e la vicenda Diciotti”.