
Abstract
La recente dichiarazione del Ministro degli Esteri Antonio Tajani – secondo cui “il diritto è importante ma fino a un certo punto”, riferita alla vicenda della Flotilla umanitaria fermata in acque internazionali – solleva interrogativi profondi sul ruolo del diritto, sul vincolo costituzionale degli atti politici e sulla tenuta del sistema giuridico in tempi di conflitto. Questo breve scritto intende analizzare, da un punto di vista giuridico-filosofico, la portata e la gravità di tale affermazione, risalendo ai fondamenti teorici del diritto internazionale, con riferimenti a pensatori come Hobbes e Grossi, e riflettendo sulle possibili conseguenze sistemiche di una tale delegittimazione pubblica del diritto da parte di un alto rappresentante delle Istituzioni italiane.
1. Il contesto: parole che pesano
Nell’ambito delle tensioni internazionali seguite al conflitto israelo-palestinese e all’invio di una flottiglia umanitaria civile diretta verso Gaza, il Ministro degli Esteri Antonio Tajani ha affermato che “il diritto è importante ma fino a un certo punto”, giustificando così - o comunque non condannando - l’intervento militare contro civili disarmati in acque internazionali. Una frase che, al netto di ogni intento politico o di comunicazione, rappresenta una delegittimazione grave e pericolosa del diritto. Tanto più perché proferita da un ministro della Repubblica, vincolato dal giuramento costituzionale di adempiere con disciplina e onore alle funzioni, nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento.
Il Presidente del Consiglio e i ministri giurano pronunciando la seguente formula rituale:
«Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione», secondo l’art. 1, comma 3, l. 23 agosto 1988, n. 400, in materia di "Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri”.
Quid iuris nel caso di specie?
2. Il diritto come baluardo, non come ostacolo
La tentazione di sospendere il diritto – o di relativizzarlo – nei momenti di crisi non è nuova nella storia.
Ma è proprio nei momenti eccezionali che il diritto deve farsi argine, non complice.
Come ricorda Pietro Barcellona, il diritto non è solo un insieme di regole, ma è anche un simbolo collettivo, una promessa di ordine, di civiltà, di equilibrio tra forze. Le guerre si dichiarano anche con le parole. E una frase come quella del Ministro Tajani, sebbene pronunciata nel linguaggio informale dell’intervista, costituisce una delegittimazione del diritto internazionale come fondamento della convivenza tra gli Stati.
3. Diritto internazionale: norme, non opinioni
Il diritto internazionale, spesso visto come “debole”, è in realtà il frutto di una lunga evoluzione, nata per evitare il caos assoluto tra Stati sovrani. La Carta delle Nazioni Unite, le Convenzioni di Ginevra, il principio di non-intervento e la libertà di navigazione in alto mare sono norme vincolanti, non meri orientamenti. Fermare una nave civile in acque internazionali equivale – in assenza di atti ostili – a una violazione della sovranità e del diritto del mare, ai sensi, tra le altre, della Convenzione di Montego Bay del 1982.
Affermare che le norme internazionali “sono importanti ma fino a un certo punto” apre la strada a un diritto selettivo, arbitrario, strumentale. In una parola: alla fine del diritto.
4. Hobbes, Grossi e la regressione alla forza
In una visione hobbesiana, il diritto nasce per evitare la guerra di tutti contro tutti. Se il diritto vale solo “fino a un certo punto”, allora si torna allo stato di natura, dove prevale la forza. Ed è proprio in questo passaggio che si colloca il pericolo più grande: la degiuridificazione del conflitto. In assenza di diritto, ogni azione può essere giustificata dalla necessità o dalla sicurezza. Ma se tutto può essere giustificato, nulla è più vietato.
Paolo Grossi ci ricorda che il diritto è sempre stato il “codice della convivenza”, capace di organizzare la pluralità dei soggetti in conflitto. Come si legge nella presentazione del suo saggio “L’invenzione del diritto”, forse il suo lascito più bello, “Il diritto non piove dall’alto sulle teste dei cittadini. Al contrario, è qualcosa che si trova nelle radici di una civiltà, nel profondo della sua storia, nell’identità di una coscienza collettiva. Deve essere identificato negli strati profondi della società, laddove allignano i valori fondamentali”.
L’abbandono del diritto, in nome della realpolitik, segna una regressione culturale. Significa che il potere non si lascia più disciplinare dalle regole, ma pretende di essere esso stesso la fonte unica del lecito.
5. Il ruolo del ministro: non è un’opinione personale e, se sì, lo si dica
Un ministro non parla mai solo per sé. Ogni dichiarazione pubblica, specie in ambito internazionale, riflette una posizione ufficiale dello Stato italiano. Ricordiamo che l’Italia ha ratificato numerose convenzioni internazionali, è parte dell’ONU, della NATO, dell’UE, della Corte Penale Internazionale. Il ministro ha giurato sulla Costituzione che, all’art. 10, afferma:
“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.”
Sostenere che quel diritto “vale fino a un certo punto” significa mettere in discussione lo stesso fondamento dell’ordinamento italiano. È un’affermazione che, per chi ha giurato di difendere la Costituzione, non può che risultare inammissibile. E, là dove rifletta solo una posizione personale o un pensiero, errato, del momento, lo si dica. Chiaramente.
6. La tentazione dell’eccezione permanente
Il pensiero giuridico ha sempre lottato contro la teoria dello “stato di eccezione permanente”, denunciata da autori come Carl Schmitt e Giorgio Agamben. Il pericolo è che la crisi diventi la scusa per sospendere permanentemente i diritti, i vincoli, le tutele.
Ma il diritto non è una decorazione delle democrazie in tempo di pace. Il diritto è la democrazia, anche – e soprattutto – in tempo di guerra.
La vera prova di civiltà è rispettare il diritto quando è difficile farlo, non quando è comodo.
7. Conclusione. A proposito di punti: un punto di non ritorno?
Il rischio di una deriva culturale in cui il diritto viene considerato un intralcio, non una guida, è sempre latente.
Bisogna essere vigili.
Se accettiamo che il diritto valga solo “fino a un certo punto”, allora abbiamo già aperto la porta al peggiore dei futuri: quello in cui le regole valgono solo per i deboli, e il potere si autolegittima.
In un momento in cui nel mondo si consumano massacri, assedi, bombardamenti su popolazioni civili – qualunque sia la loro nazionalità – il diritto non può essere sospeso, né relativizzato. Il diritto deve essere la stella polare.
La Global Sumud Flotilla si è mossa conformemente al diritto. E il diritto non è (mai) provocazione. È civiltà.
Perché senza diritto, non c’è civiltà. E senza civiltà, resta solo la forza.
(*) Guido Todaro: Avvocato del Foro di Bologna, Cassazionista, Specialista in Diritto Penale, è Dottore di Ricerca in Diritto e Processo Penale presso l’Università di Bologna, nonché Professore a contratto di Procedura Penale presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali afferente alla medesima Università.
È componente del Comitato di Gestione della Scuola Territoriale della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”, nonché membro della Redazione della Rivista Cassazione penale e Caporedattore della Rivista La Giustizia Penale.
È Autore di oltre 60 pubblicazioni in riviste scientifiche, nonché coautore del libro “La difesa nel procedimento cautelare personale”, Giuffrè, 2012, e con-curatore del Volume “Custodia cautelare e sovraffollamento carcerario”, Studi Urbinati, v. 65, n. 1, 2014.