31 gennaio 2022

L'ossequio al capo-mafia durante la processione è reato




La Corte di Cassazione, sezione terza Sezione penale, con la sentenza n.  2242/2022 (al link), pronunziandosi in tema di delitti contro il sentimento religioso, ha affermato che integra il reato di “turbatio sacrorum”, di cui all’art. 405 cod. pen., la condotta di colui che interferisca con l’ordinato svolgimento di una processione religiosa alla presenza di un ministro del culto ordinando, in qualità di “capo vara”, ai portatori del fercolo soste ingiustificate del corteo dinanzi all’abitazione della famiglia di un capo-mafia.

29 gennaio 2022

❌Interruzione dei servizi informatici del Portale del Processo Penale Telematico❌

 


PATCH DAY GENNAIO 2022 - Interruzione dei servizi informatici del settore civile, del Portale dei Servizi Telematici e del Portale del Processo Penale Telematico. Modifiche correttive, migliorative ed evolutive

27/01/22

 Per attività di manutenzione evolutiva programmata si procederà all'interruzione dei sistemi civili al servizio di tutti gli Uffici giudiziari dei distretti di Corte di Appello dell’intero territorio nazionale, nonché del Portale dei Servizi Telematici, incluso il Portale del Processo Penale Telematico, con le seguenti modalità temporali:

  • dalle ore 19:00 di venerdì 28 gennaio sino alle ore 08:00 di lunedì 31 gennaio c.a., salvo conclusione anticipata delle operazioni.

Durante l’esecuzione delle attività di manutenzione, rimarranno attivi i servizi di posta elettronica certificata e saranno, quindi, disponibili le funzionalità relative al deposito telematico del settore civile da parte degli avvocati, dei professionisti e degli altri soggetti abilitati esterni anche se i messaggi relativi agli esiti dei controlli automatici potrebbero pervenire solo al riavvio definitivo di tutti i sistemi.
Non sarà invece possibile consultare in linea i fascicoli degli uffici dei distretti coinvolti dal fermo dei sistemi.

Per tutti gli utenti “interni” (magistrati e cancellieri) non saranno disponibili i registri di cancelleria e quindi, per i cancellieri, non sarà possibile procedere all’aggiornamento dei fascicoli, all’invio dei biglietti di cancelleria e all’accettazione dei depositi telematici; non sarà altresì possibile aggiornare i dati dei fascicoli della Consolle del Magistrato e della Consolle del PM.

Si rammenta che l’attività di manutenzione del Portale dei Servizi Telematici renderà indisponibili tutti i servizi informatici ivi esposti e, in particolare:

  • l’aggiornamento (anche da fuori ufficio) della consolle del magistrato;
  • il deposito telematico di atti e provvedimenti da parte dei magistrati;
  • tutte le funzionalità del portale dei servizi telematici;
  • tutte le funzioni di consultazione da parte dei soggetti abilitati esterni;
  • i pagamenti telematici compreso il pagamento del contributo di pubblicazione di un’inserzione sul Portale delle Vendite;
  • l'accesso al Portale Deposito atti Penali per il deposito con modalità telematica di atti penali;
  • l’accesso al Portale di consultazione dei SIUS distrettuali per Avvocati;
  • l'accesso agli avvisi degli atti penali depositati in cancelleria.

28 gennaio 2022

La Riforma del Processo Penale: la pubblicazione della CP Trapani disponibile anche online



Dopo la presentazione dell'impaginato "su carta" dei contributi pubblicati su questo blog  (linkin merito a LA RIFORMA DEL PROCESSO PENALE, edizione cartacea riservata ai soci della Camera Penale di Trapani e agli Autori, rilasciamo, disponibile gratuitamente, la versione online del testo.
È possibile scaricare il testo della pubblicazione al link.
Cogliamo l'occasione per ringraziare Quanti hanno dato il loro prezioso apporto a questa iniziativa con le loro idee e parole. 
Un sentito ringraziamento alla sapiente ed elegante presentazione grafica ed impaginazione, merito della professionalità di Pia Marchingiglio.

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Tra gli obiettivi di “Foro e Giurisprudenza” vi è quello di far circolare le idee e i diversi saperi di chi, a vario titolo, si misura con il diritto penale, tanto sostanziale quanto processuale.

È evidente allora che nel corso dell’anno appena trascorso il disegno di legge intitolato “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello” e la successiva legge 134/2021, intitolata “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, hanno costituito uno dei principali temi di confronto.

Tuttavia i contributi sono stati raccolti con due diverse modalità: originariamente il disegno di legge, ispirato dall’allora ministro della giustizia, on. Alfonso Bonafede, è stato frazionato in più temi, per ciascuno dei quali sono state sottoposte delle domande a un giudice, a un pubblico ministero, a un avvocato e a un docente, salvo l’ultima sezione per la quale è stato raccolto soltanto il contributo di una dirigente della procura generale; successivamente, lì dove ha iniziato a delinearsi il testo ispirato dalla commissione Lattanzi e dall'attuale ministro, professoressa Marta Cartabia, si è proceduto a “pubblicare” i contributi di ciascuno, come il genio li ispirava.

La presente raccolta vuole essere un grato omaggio a quanti si sono lasciati coinvolgere, spendendo il loro tempo e le loro attenzioni per confrontarsi su “Foro e Giurisprudenza”.

Trapani, 21 gennaio 2022


Il Responsabile di F&GCPTP - avv. Daniele Livreri 




Il Presidente di CPTP - avv. Marco Siragusa

27 gennaio 2022

Dalla Corte Costituzionale: REMS: URGENTE UNA LEGGE PER SUPERARE LE CRITICITÀ


L’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche presenta numerosi profili di frizione con i principi costituzionali, che il legislatore deve eliminare al più presto.

Lo ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n.22/202 al link depositata oggi (redattore Francesco Viganò), con la quale sono state dichiarate inammissibili le questioni sollevate dal Gip del Tribunale di Tivoli a proposito della disciplina sulle REMS.

Dall’istruttoria disposta dalla Corte (comunicato del 24 giugno 2021) è emerso, in particolare, che sono tra 670 e 750 le persone attualmente in lista d’attesa per l’assegnazione ad una REMS; che i tempi medi di attesa sono di circa dieci mesi, ma anche molto più lunghi in alcune Regioni; e che molte di queste persone – ritenute socialmente pericolose dal giudice – hanno commesso gravi reati, anche violenti.

Nella sentenza depositata oggi si ricorda che le REMS sono state concepite dal legislatore, nel 2012, come strutture residenziali caratterizzate da una logica radicalmente diversa dai vecchi ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), caratterizzati da una logica esclusivamente custodiale. Le REMS, pensate invece in funzione di un percorso di progressiva riabilitazione sociale, sono strutture di piccole dimensioni che devono favorire il mantenimento o la ricostruzione dei rapporti con il mondo esterno, alle quali il malato mentale può essere assegnato soltanto quando non sia possibile controllarne la pericolosità con strumenti alternativi, per esempio con l’affidamento ai servizi territoriali per la salute mentale.

L’assegnazione alle REMS resta però nell’ordinamento italiano una misura di sicurezza, disposta dal giudice penale non solo a scopo terapeutico ma anche per contenere la pericolosità sociale di una persona che ha commesso un reato. Ciò comporta – ha osservato la Corte – la necessità di rispettare i principi costituzionali sulle misure di sicurezza e sui trattamenti sanitari obbligatori, tra cui la riserva di legge: ossia l’esigenza che sia una legge dello Stato a disciplinare la misura, con riguardo non solo ai “casi” in cui può essere applicata ma anche ai “modi” con cui deve essere eseguita. Al contrario, oggi la regolamentazione delle REMS è solo in minima parte affidata alla legge; in gran parte è rimessa ad atti normativi secondari e ad accordi tra Stato e autonomie territoriali, che rendono fortemente disomogenee queste realtà da Regione a Regione.

La Corte ha poi sottolineato che a causa dei suoi gravi problemi di funzionamento il sistema non tutela in modo efficace né i diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche potrebbe nuovamente realizzare, né il diritto alla salute del malato, il quale non riceve i trattamenti necessari per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società.

La Corte ha inoltre osservato che la totale estromissione del ministro della Giustizia da ogni competenza in materia di REMS  e dunque in materia di esecuzione di misure di sicurezza disposte dal giudice penale  non è compatibile con l’articolo 110 della Costituzione, che assegna al Guardasigilli la responsabilità dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.

La Corte ha tuttavia ritenuto di non poter dichiarare illegittima la normativa in questione, perché da una simile pronuncia deriverebbe “l’integrale caducazione del sistema delle REMS, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG”, con la conseguenza di “un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”.

Di qui il monito al legislatore affinché proceda, senza indugio, a una complessiva riforma di sistema, che assicuri assieme:

– un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza;

– la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività;

– forme di idoneo coinvolgimento del ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale degli autori di reato, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario.

Quando il divieto del doppio giudizio "apre" al dialogo muto tra le Corti


Con la sentenza n. 1363/2022 (al link) la Quinta Sezione della Corte di Cassazione ha affermato che non contrasta con la preclusione del giudicato connessa al principio del “ne bis in idem” - non ricorrendo l’identità del fatto - la condanna per il delitto di omicidio preterintenzionale nei confronti di un soggetto già condannato per lesioni personali con sentenza divenuta irrevocabile in relazione alla stessa condotta, in quanto il fatto concreto di cui all’art. 584 cod. pen. è caratterizzato dall’evento-morte, che è, invece, assente nel delitto di cui all’art. 582 cod. pen., la cui tipicità è integrata dal diverso, e meno grave, evento delle lesioni personali, pur se il giudice del secondo procedimento, in ossequio al principio di detrazione, deve assicurare, mediante un meccanismo di compensazione, che “l’importo complessivo delle sanzioni” irrogate sia proporzionato alla gravità dei reati complessivamente considerati.

Com'è noto, chi è stato già giudicato non può essere sottoposto ad un secondo giudizio che abbia ad oggetto il medesimo fatto.

Il divieto, previsto dall’art. 649 c.p.p., ha portata più ampia di quella stabilita ad litteram dalla norma, in quanto si estende anche alle sentenze non definitive ed è riconducibile al principio generale che vieta la duplicazione dell’azione conto lo stesso imputato.

Il divieto, in altri termini, “consuma” la successiva azione e quindi il potere di ius dicere in ordine all’identica regiudicanda.

Ne segue che, sull’identità del fatto, la domanda andrà dichiarata “improcedibile” e il giudice dovrà pronunciarsi per il non luogo a procedere (ex artt. 529 o 425 c.p.p.) ovvero con decreto di archiviazione laddove l’azione penale non sia stata ancora esercitata.

Si tratta di un insegnamento risalente al diritto romano (bis de eadem re non sit actio) posto a garanzia dell’imputato e volto ad impedire le azioni superflue o di abuso del processo.

La regola è, quindi, fondamentale per evitare l’incertezza sia delle decisioni giudiziali sia dello stesso sistema giuridico.

Il divieto del ne bis in idem ha rango di diritto dell’uomo a garanzia delle libertà fondamentali.

Il protocollo n. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali dispone, all’art. 4, che “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è stato già assolto o condannato a seguito di sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”. Il principio è ribadito nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, c.d. Carta di Nizza, che, all’art. 50, lo prevede come “diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato”.

Il divieto del doppio giudizio è poi previsto nelle convenzioni pattizie di diritto internazionale.

La garanzia ha carattere processuale e si estrinseca, come detto, nell’effetto di impedire un secondo pronunciamento giurisdizionale sul medesimo fatto. 

Nella definizione della identità il fatto prescinde dalla diversa qualificazione giuridica che di esso si può dare. In tal senso si è pronunciata anche la giurisprudenza europea (Corte Edu, Sez. I, 25 giugno 2009, Maresti c. Croazia) in un caso in cui un cittadino era stato condannato da due autorità giudiziarie diverse per aver prima ingiuriato (he firstly insulted) e poi percosso un soggetto (and then pushed him with both hands and … started to hit him with his fists many times). La Corte ha rilevato la violazione dell’art. 4 del protocollo 7 della Cedu per l’identità del fatto (in respect of the same event and the same facts) ed ha ritenuto operante il divieto di ne bis in idem (this had violeted his right non to be tried and punished twice for the same offence).

Di avviso diverso il giudice nomofilattico nella sentenza che si annota.

26 gennaio 2022

Tanto tuonò, che non piovve. Quando l'ovvietà richiede una pronuncia della Cassazione vuol dire che il sistema delle garanzie è sotto attacco



Su questo blog abbiamo sempre tenuto una "linea" molto critica sulla normativa c.d. pandemica.

Lo abbiamo fatto a ragion veduta, e non perché non siamo consapevoli dell'emergenza sanitaria e della necessità di porvi freno, ma perché abbiamo colto segnali - più d'uno in realtà - orientati a smantellare il codice di procedura penale con la "scusa" della pandemia.

La trattazione scritta dei processi in appello e in cassazione costituisce la summa di un progetto che noi riteniamo ben presente e organizzato e che trova la sua applicazione nel recente disallineamento dell'emergenza sanitaria (31.3.2022) dall'eccezionalità del processo cartolare 31.12.2022 (link). 

Abbiamo conferma di quanto sin qui brevemente osservato da questa incredibile - letteralmente non credibile - sentenza della Sesta Sezione della Corte di Cassazione, la n. 1167/2022 (al link) che ha affermato:
<<In tema di disciplina emergenziale relativa alla pandemia da Covid-19, la Sesta Sezione penale ha affermato che, nel giudizio di appello, ove il difensore dell'imputato abbia inoltrato rituale e tempestiva richiesta di trattazione orale, trova integrale applicazione il rito ordinario, che implica l’obbligo per il giudicante, nel caso di legittimo impedimento dell’imputato, di rinviare il procedimento al fine di garantire il diritto di difesa, senza che all’uopo sia necessario che quest’ultimo abbia chiesto di partecipare all’udienza>>.

Nel caso di specie la Corte ha censurato la sentenza distrettuale che aveva ritenuto irrilevante il legittimo impedimento dell'imputato a partecipare al SUO giudizio di appello a trattazione orale perché egli non aveva formulato istanza di prendere parte al giudizio. 

La domanda rimane: c'era davvero bisogno di arrivare in Cassazione per sentire affermare una simile ovvietà ?
 

25 gennaio 2022

La Cassazione ribadisce: il nuovo istituto dell'improcedibilità ha natura processuale.

 

 

Con la sentenza n. 334/2022 (sentenza al link), la quinta sezione, dando continuità all'ordinanza della settima sezione n. 43883 del 26.11.2021 (di cui c'eravamo occupati avuto riguardo ad altro profilo,post al link), ha negato la natura sostanziale, invocata dal ricorrente, del nuovo istituto di cui all'art. 344 bis c.p.p.. 

Al riguardo, la Corte regolatrice ha rimarcato come <<la dichiarata finalità perseguita con l'introduzione dell'art. 344 bis c.p.p. della celere definizione dei processi di impugnazione>> nonchè  <<la collocazione dell'art. 344 bis c.p.p. nel codice di procedura penale, nell'ambito delle condizioni di procedibilità>> e le modalità operative del meccanismo estintivo che <<incide, non sull'esistenza del reato, ma sulla possibilità di proseguire l'azione penale in quanto estinta>>,costitusicono altrettanti indici della natura processuale dell'istituto. Diversamente <<la prescrizione, per la quale più volte è stata affermata la natura sostanziale,  ... comporta l'estinzione del reato sul piano più specificamente sostanziale>>. 

La natura processuale della norma comporta la conseguente operatività del principio "tempus regit actum" e la conseguente inapplicabilità retroattiva della disposizione in esame, cui mirava la difesa.

La Corte ha peraltro considerato che <<neppure può essere ritenuta irragionevole la scelta del legislatore di fissare la decorrenza dell'applicazione delle disposizioni di cui all'art. 344 bis c.p.p. ai soli procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto i reati commessi a far data dal 10 gennaio 2020 (fatti salvi i processi già pervenuti in Cassazione, per i quali trova applicazione il comma 4), con una limitata retroattività della norma, corrispondendo tale scelta ad una finalità compensativa e riequilibratice che trova il suo fondamento nella circostanza che per i reati commessi antecedentemente al 10gennaio 2020 non opera la normativa di cui alla L. n. 3/2019, relativa alla sospensione del termine prescrizionale dopo la sentenza di primo grado>>.

24 gennaio 2022

❌IMPORTANTE SENTENZA DELLA CONSULTA ❌ ILLEGITTIMA LA CENSURA SULLA CORRISPONDENZA DEL DETENUTO IN 41 BIS CON IL DIFENSORE - La sentenza n. 18/2022 della Corte Costituzionale




Viola il diritto di difesa sancito dalla Costituzione la norma, contenuta nell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che – secondo l’interpretazione della Corte di cassazione – impone il visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al “carcere duro” e il proprio difensore.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 18 depositata oggi 24 gennaio 2022 (redattore Francesco Viganò), accogliendo la questione di legittimità sollevata dalla stessa Cassazione (sentenza al link).
La sentenza osserva che il diritto di difesa comprende - secondo quanto emerge dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo - il diritto di comunicare in modo riservato con il proprio difensore e sottolinea che di questo diritto è titolare anche chi stia scontando una pena detentiva. E ciò anche per consentire al detenuto un’efficace tutela contro eventuali abusi delle autorità penitenziarie.
È vero che questo diritto non è assoluto e può essere circoscritto entro i limiti della ragionevolezza e della necessità - purché non sia compromessa l’effettività della difesa - qualora si debbano tutelare altri interessi costituzionalmente rilevanti. Ed è anche vero che i detenuti in regime di 41 bis sono ordinariamente sottoposti a incisive restrizioni dei propri diritti fondamentali, allo scopo di impedire ogni contatto con le organizzazioni criminali di appartenenza.
Tuttavia, la Corte ha ritenuto che il visto di censura sulla corrispondenza del detenuto con il proprio difensore non sia idoneo a raggiungere questo obiettivo e si risolva, pertanto, in una irragionevole compressione del suo diritto di difesa.
Da un lato, infatti, il detenuto può sempre avere – per effetto della sentenza della Corte del 2013, n. 143 – colloqui personali con il proprio difensore, senza alcun limite quantitativo e al riparo da ogni controllo sui contenuti dei colloqui stessi da parte delle autorità penitenziarie. Dall’altro, il visto di censura previsto dalla norma ora esaminata dalla Corte opera automaticamente, anche in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte dell’avvocato.
Ciò riflette, ha osservato la Corte, una “generale e insostenibile presunzione [...] di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”.
Peraltro, nella motivazione della sentenza viene sottolineato che le circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) in vigore dal 2017 avevano interpretato l’attuale normativa escludendo la legittimità di ogni controllo sulla corrispondenza tra detenuti in 41 bis e i propri difensori, anticipando così gli effetti di questa pronuncia di illegittimità costituzionale.

Ma siamo sicuri che le impugnazioni in Italia siano troppe ? - di Daniele Livreri



In un recente intervento su La Stampa, un noto magistrato ha rilanciato il dibattito sulla correlazione tra i tre gradi di giudizio del nostro sistema processuale, in assenza di filtri idonei a contenerne il numero, e l’eccessiva durata dei processi.  

Orbene, il tema dell’eventuale riduzione dell’area dell’impugnabilità o comunque di filtri che scongiurino il ricorso al gravame deve cogliersi in una lettura di sistema. 

In Italia alla fine del 2020 pendevano innanzi ai Giudici di primo grado (considerando Tribunale, Corte assise e ufficio Gip/Gup) 1.185.957 processi, cui, volendo, si potrebbe aggiungere alcune decine di migliaia di giudizi innanzi ai Tribunali per i minorenni.

Qualsivoglia analisi dovrebbe necessariamente muovere da questa base, anche perché andrebbe considerato che essa offre il numero dei pendenti, ma per avere una reale dimensione di ciò che preme sui Giudici di primo grado bisogna pur tenere conto degli 838.157  giudizi definiti in primo grado nel corso dell'anno citato.

In sostanza nel 2020 i nostri Giudici di primo grado hanno variamente trattato circa 2.000.000 di processi penali !

Orbene, a fronte di numeri siffatti è assolutamente plausibile che vengano commessi plurimi errori in fatto e in diritto, nonostante lo sforzo che ogni giorno i Giudici si sobbarcano.

Pur in presenza di questo scenario gli appelli iscritti nel 2020 sono stati 90.015 e i ricorsi in cassazione 38.508

Con una qualche semplificazione si può affermare che nel 2020 sono stati definiti 838.157 giudizi di primo grado e proposti 90.015 appelli. 

Sono troppi? Oppure date le condizioni numeriche e di lavoro si tratta di numeri del tutto fisiologici ?    

Nè a diverse conclusioni può muovere l'osservazione che al 31.12.2020 in appello pendevano 271.640 procedimenti, con un trend che pare crescente nel tempo, e 24.473 procedimenti di legittimità. Infatti non credo si possa tener conto di questi indici per richiamarli a sostegno dell'idea di limitare la facoltà di impugnazione: non si può chiedere il conto agli attori processuali delle difficoltà organizzative dello Stato.    

Chi auspica filtri deflattivi in tema di impugnazioni, invocando a sostegno i numeri di altri paesi, potrebbe poi notare che i nostri incoming case in primo grado per 100 abitanti nel 2018 (ultimo dato offerto dal CEPEJ) sono stati 2.15 contro 1.46 della Francia ed a fronte una media europea di 1.54. Soltanto per completezza si rileva che i pending case in primo grado nel 2018 erano 2.09 a fronte di una media europea di 0.43 per 100 abitanti e ciò nonostante i nostri giudici risolvano 2.11 casi a fronte di una media europea di 1.57.

Detto per inciso non mi pare che quando si siano trasferite competenze dalla Cassazione ai giudici di merito, come nel caso delle impugnazioni avverso i provvedimenti di archiviazione, qualcuno si sia stracciato le vesti.  

Sul tema dei filtri alle impugnazioni in funzione deflattiva non pare inopportuno rammentare che la Corte EDU nel caso Succi V. Italy ha osservato che le considerazioni del governo italiano riguardo al grande arretrato e al notevole afflusso di ricorsi proposti ogni anno innanzi alla Corte di Cassazione ha osservato che <<resta il fatto che le limitazioni all'accesso alle corti di cassazione non devono essere interpretate in modo troppo formale per limitare il diritto di accesso a un tribunale in modo tale o in misura tale da incidere sulla sostanza stessa di tale diritto>> (su Succi v. Italy vedi post al link).

In ogni caso, se questo è il concreto scenario di cui dobbiamo tener conto, le soluzioni volte a dissuadere le impugnazioni o a inibirle si accollano il rischio di sacche di ingiustizia.

Ci eravamo occupati degli ultimi numeri disponibili nel post al link

 

 

22 gennaio 2022

❌NOVITÀ❌ Un'altra incostituzionalità per l'art. 34 cpp: questa volta tocca al GIP che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di un'aggravante (C. Cost. n. 16/2022)


Appena  ieri ci eravamo occupati della pronuncia n. 7/2022 sull'art. 34 cod. proc. pen (link).

Oggi diamo notizia di un'ulteriore declaratoria di incostituzionalità  dell'art. 34 cod. proc. pen.,- la norma del codice di rito più censurata-, dal momento che la Consulta, con la sentenza n. 16/2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso.

Qui la sentenza n. 16/2022




21 gennaio 2022

❌ATTENZIONE NUOVA INCOSTITUZIONALITÀ DELL'ART. 34 c.p.p.❌ Ennesima pronuncia di incostituzionalità delll’art. 34 cod. proc. pen.

 


Come avevamo anticipato (link) era attesa la decisione (l’ennesima) della Corte costituzionale sulla norma più incostituzionale di tutto il codice di rito: l’articolo 34 cod. proc. pen. (l'ordinanza di remissione al link).

Con la sentenza n. 7/2022 (al link) la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che il giudice dell’esecuzione deve essere diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena, a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata con rinvio dalla Corte di cassazione.

Si osserva in sentenza:

<<La mancata previsione dell’incompatibilità del giudice dell’esecuzione, persona fisica, che abbia pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena proposta a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, poi annullata con rinvio dalla Corte di cassazione, confligge con entrambi i parametri evocati dal giudice rimettente (artt. 3, primo comma, e 111, secondo comma, Cost.).

6.– La regola generale di incompatibilità del giudice che abbia già compiuto atti nel procedimento è posta dall’art. 34 cod. proc. pen., che ne definisce termini e limiti, e che, in particolare, stabilisce al comma 1 che il giudice che ha pronunciato o ha concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento.

Questa regola poi è declinata più specificamente dall’art. 623 cod. proc. pen. che, con riferimento alla pronuncia di annullamento con rinvio a seguito del giudizio di cassazione, prevede – alle lettere b), c) e d) – i vari casi di annullamento della sentenza impugnata, indicando il giudice competente per il giudizio di rinvio.

Se è annullata una sentenza di un giudice collegiale (corte di assise di appello o corte di appello o corte di assise o tribunale in composizione collegiale) il giudizio è rinviato rispettivamente a un’altra sezione della stessa corte o dello stesso tribunale o, in mancanza, alla corte o al tribunale più vicini.

Se è annullata una sentenza di un giudice monocratico (tribunale in composizione monocratica o giudice per le indagini preliminari) il giudizio è rinviato al medesimo tribunale, ma il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata.

Ove invece sia annullata un’ordinanza, il medesimo art. 623, comma 1, cod. proc. pen., alla lettera a), detta una regola diversa. Prevede che la Corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice che l’ha pronunciata, il quale provvede uniformandosi alla sentenza di annullamento, senza che sia prescritto – come nella successiva lettera d) con riferimento alla sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari – che il giudice, se monocratico, debba essere diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza annullata.

Vi è, in particolare, che l’ordinanza è il tipico provvedimento decisorio del giudice nel procedimento di esecuzione (art. 666, comma 6, cod. proc. pen.); il quale ha caratteristiche e peculiarità ben distinte dal procedimento di cognizione. Il giudice dell’esecuzione esercita un’attività pur sempre giurisdizionale, ma entro confini limitati, quali sono in particolare quelli del giudicato formatosi in sede di cognizione.

È, in generale, nell’attività della cognizione che il giudice del rinvio, in caso di annullamento pronunciato dalla Corte di cassazione, è esposto alla forza della prevenzione insita nel condizionamento per aver egli adottato il provvedimento impugnato.

Ma ciò accade anche quando nel procedimento di esecuzione il giudice del rinvio, al pari del giudice dell’ordinanza annullata, è chiamato a una valutazione che travalica la stretta esecuzione del giudicato e attinge, in via eccezionale, il livello della cognizione; ossia quando al giudice dell’esecuzione è demandato un «frammento di cognizione inserito nella fase di esecuzione penale» (sentenza n. 183 del 2013).

7.– Si ha, infatti, che il giudice dell’esecuzione – in caso di annullamento dell’ordinanza pronunciata sulla commisurazione della pena, a seguito di istanza di rideterminazione della stessa proposta dal condannato in ragione della dichiarazione di illegittimità costituzionale che, riguardando la misura della pena edittale, rende recessivo, in questa parte, il giudicato penale – è chiamato a esprimersi nuovamente sulla medesima istanza.

In tale evenienza il giudice dell’esecuzione, nel giudizio di rinvio conseguente all’annullamento dell’ordinanza con cui egli stesso si è già pronunciato sulla rideterminazione della pena, è nuovamente investito della decisione circa la “misura” della responsabilità del condannato, dovendo a tal fine esercitare incisivi poteri di merito, volti alla rivalutazione sanzionatoria del fatto illecito, alla luce del nuovo e più favorevole minimo edittale.

Non si tratta di una operazione da condurre alla stregua di criteri oggettivi, di mero riproporzionamento automatico della pena già quantificata in sede di cognizione, nell’ambito della diversa cornice edittale, in quanto – come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 3 marzo-30 aprile 2020, n. 13453) – il giudice deve effettuare una nuova valutazione alla stregua dei parametri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., per assicurare la finalità rieducativa della pena ai sensi dell’art. 27 Cost.

Ed è proprio nella prospettiva della finalità rieducativa della sanzione penale, che il giudice dell’esecuzione procede alla necessaria riduzione della pena, perché la modifica sopravvenuta del minimo edittale rende non adeguata al fatto concreto una sanzione calcolata quando la previsione edittale per quel reato – nel caso di specie, per il reato di cui all’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 – era, nel minimo, sensibilmente più elevata (otto anni di reclusione invece di sei).

Quando sopravviene la dichiarazione della illegittimità costituzionale di una norma che incide sul trattamento sanzionatorio – di cui la sentenza n. 40 del 2019 costituisce una tipica fattispecie – il giudice dell’esecuzione, dovendo far ricorso ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., “ritorna” sulla valutazione del fatto illecito, già compiuta in sede di cognizione, occupandosi nuovamente della gravità del reato.

Al pari del giudice della cognizione, dunque, il giudice dell’esecuzione, in sede di giudizio di rinvio in relazione al caso considerato, esercita un potere discrezionale di commisurazione della pena per adeguare la risposta punitiva al fatto concreto, che, per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena, ha assunto un diverso disvalore.

Del resto, questa Corte ha affermato che «“l’individualizzazione” della pena, in modo da tenere conto dell’effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi, si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali» così da rendere «quanto più possibile “personale” la responsabilità penale, nella prospettiva segnata dall’art. 27, primo comma; […] e quanto più possibile “finalizzata” nella prospettiva dell’art. 27, terzo comma, Cost.» (sentenza n. 50 del 1980).

8.– Si ha, allora, che l’apprezzamento demandato al giudice in sede di rinvio assume, con riferimento alla individuazione del “giusto” trattamento sanzionatorio, la natura di «giudizio» che, in quanto tale, integra il «secondo termine della relazione di incompatibilità [...], espressivo della sede “pregiudicata” dall’effetto di “condizionamento” scaturente dall’avvenuta adozione di una precedente decisione sulla medesima res iudicanda» (sentenza n. 183 del 2013).

A tal proposito, questa Corte ha affermato che «la locuzione “giudizio” è di per sé tale da comprendere qualsiasi tipo di giudizio, cioè ogni processo che in base ad un esame delle prove pervenga ad una decisione di merito» (ordinanza n. 151 del 2004).

Pertanto, è un «“giudizio” contenutisticamente inteso, […] ogni sequenza procedimentale – anche diversa dal giudizio dibattimentale – la quale, collocandosi in una fase diversa da quella in cui si è svolta l’attività “pregiudicante”, implichi una valutazione sul merito dell’accusa, e non determinazioni incidenti sul semplice svolgimento del processo, ancorché adottate sulla base di un apprezzamento delle risultanze processuali» (sentenza n. 224 del 2001).

La valutazione complessiva del fatto illecito, che compete al giudice dell’esecuzione nell’attività di commisurazione della pena, resa necessaria a seguito di una pronuncia di illegittimità costituzionale, presenta, pertanto, tutte le caratteristiche del “giudizio” per come delineate dalla giurisprudenza di questa Corte. Sicché, in sede di rinvio dopo l’annullamento da parte della Corte di cassazione, il giudice dell’esecuzione – per essere «terzo e imparziale» (art. 111, secondo comma, Cost.) – deve essere persona fisica diversa dal giudice che, in precedenza, si è già pronunciato con l’impugnata (e annullata) ordinanza sulla richiesta di nuova determinazione della pena.

In sostanza, ogni qual volta il giudice deve provvedere sulla richiesta di rideterminazione della pena a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, deve trovare applicazione una regola analoga a quella posta dall’art. 623, comma 1, lettera d), cod. proc. pen., secondo cui «se è annullata la sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale; tuttavia, il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata».

9.– Gli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., vanno pertanto dichiarati costituzionalmente illegittimi, nella parte in cui non prevedono che il giudice dell’esecuzione deve essere diverso – nel senso di persona fisica diversa – da quello che ha pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata con rinvio dalla Corte di cassazione.

20 gennaio 2022

Il regime della procedibilità del reato di stalking connesso con altro reato procedibile d’ufficio - di Umberto Coppola (*)

Con vero piacere ospitiamo l'intervento dell'avvocato Umberto Coppola dopo aver dato atto della decisione del Tribunale di Marsala (link).








Il comma 4 dell’art. 612 bis c.p. stabilisce che il reato di stalking è procedibile a querela di parte. “Tuttavia si procede d’ufficio (…) quando il fatto è connesso con altro reato per il quale deve procedersi d’ufficio”. Ci si chiede quale sia la procedibilità del reato di condotte persecutorie qualora venga pronunciata sentenza assolutoria per il reato connesso.

Secondo il Tribunale di Marsala (cfr sentenza n. 1517/21 – pubblicata su questo blog al link) la sentenza assolutoria per il reato connesso non incide sul regime della procedibilità sicché il reato di stalking rimane procedibile d’ufficio.

La soluzione interpretativa “lilibetana” è tuttavia isolata ed in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr Cassazione sez. V° 5.06.2020 n. 17253) a cui fa seguito anche una pronuncia del Tribunale di Trapani.
Chiamati a pronunciarsi sul ricorso del PM, i Supremi Giudici hanno osservato che l’assoluzione dal reato connesso “fa venir meno dalla realtà processuale la fattispecie-reato presupposto della procedibilità di ufficio dello stalking; il che inibisce in radice l'operatività del meccanismo previsto dal legislatore all'art. 612-bis c.p., u.c..” (cfr Cassazione sez. V 5.06.2020 n. 17253).

In particolare, secondo la Cassazione “l’interpretazione predicata dal ricorrente (Procuratore della Repubblica), facendo leva sulla ratio della disposizione in argomento, finirebbe tuttavia per forzare oltre misura la lettera dell'art. 612-bis c.p., comma 4, nella parte in cui prevede la procedibilità d'ufficio del delitto di atti persecutori quando il fatto è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere di ufficio". 
Secondo la Corte di Cassazione, l'ostacolo che impedisce di accogliere la lettura offerta dal Tribunale di Marsala consiste nel fatto che “essa attribuisce rilievo, nel senso della procedibilità di ufficio dello stalking, ad una fattispecie che non è stata accertata processualmente e che, pertanto, non può esplicare effetti giuridici in malam partem, men che meno quello riflesso sulla perseguibilità di altro reato” (cfr Cassazione sez. V 5.06.2020 n. 17253). 

Come sopra si diceva il Tribunale di Trapani, con la sentenza n. 528/2020 del 08.09.2020 (al link) ha seguito il percorso interpretativo segnato dai giudici di legittimità per cui “il reato di atti persecutori è procedibile d’ufficio allorché con esso sia connesso altro reato per il quale la procedibilità è d’ufficio"

Sul punto si osserva che l’istruttoria dibattimentale ha fatto venir meno la fattispecie di reato di cui al capo B) (danneggiamento seguito da incendio) e, quindi, della procedibilità d’ufficio dello stalking, il che inibisce in radice l’operatività del meccanismo previsto dal Legislatore all’art. 612 bis c.p. u.c..


(*) Umberto Coppola - 
Nato a Trapani il 03.08.1967, dopo avere ottenuto la maturità classica, il 10.03.1993 ha conseguito la Laurea in giurisprudenza presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trieste con tesi in Dritto Commerciale: “Il contratto di riporto, di banca, di borsa e figure anomale.” Superato l’esame di abilitazione, il 13.11.1997 si è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Trapani.
Dal 1996 al 2008 ha ricoperto l’incarico di Vice Procuratore Onorario presso la Procura della Repubblica di Trapani. Iscritto a Camera Penale di Trapani si è sempre occupato di “penale” partecipando a iniziative didattiche della C.P. Dal 2015 al 2019 è stato Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trapani.

19 gennaio 2022

Tabulati e nuova normativa. Anche per la quinta sezione tempus regit actum





Ci eravamo più volte occupati della novità (qui, e qui).

Diamo ora atto della prima pronuncia della Corte di Cassazione, sezione V, che ha affermato: ai fini della utilizzabilità dei dati esterni del traffico telefonico e telematico, la nuova disciplina introdotta dall’art. 1 del d.l. 30 settembre 2021, n. 132 - che ne limita la possibilità di acquisizione, ai fini di indagine penale, ai reati più gravi, o comunque commessi col mezzo del telefono, attraverso il filtro del provvedimento motivato del giudice - non è applicabile ai dati già acquisiti nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto, trattandosi di disciplina di natura processuale, come tale soggetta al principio “tempus regit actum”.
La sentenza al link.

18 gennaio 2022

Decreto milleproroghe: PCT Cassazione, trattazione scritta ed udienze da remoto prorogate al 31/12/2022




Dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 2021, è in vigore il decreto legge n. 228/2021 che, all’art. 16, prevede la proroga delle disposizioni in materia di giustizia civile, penale, amministrativa, contabile, tributaria e militare già fatte oggetto della legislazione emergenziale.
Sono prorogate al 31 dicembre 2022 “le disposizioni di cui all’articolo 221, commi 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 10 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, nonche’ le disposizioni di cui all’articolo 23, commi 2, 4, 6, 7, 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, 9, 9-bis e 10, e agli articoli 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e 24 del decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in materia di processo civile e penale“ (qui tutta la normativa).

La proroga degli artt. 23 e 24, d.l. 137/2020 prevede anche una disciplina transitoria secondo la quale “Le disposizioni di cui all’articolo 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, e all’articolo 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, non si applicano ai procedimenti per i quali l’udienza di trattazione e’ fissata tra il 1° gennaio 2022 e il 31 gennaio 2022”.

E’ infine prorogata al 31 dicembre 2022 la vigenza delle disposizioni contenute nell’art. 23-bis d.l. 137/2020, relative ai giudizi penali d’appello nel periodo di emergenza COVID-19.

Al di là della perdurante emergenza pandemica, ci pare politicamente di rilievo, in chiave critica, il disallineamento della normativa pandemica dallo "stato di emergenza sanitaria", ad oggi prorogato sino al 31 marzo 2022 (ce ne siamo occupati qui).

Tutta la normativa pandemica, sul nostro blog, al link

14 gennaio 2022

Principio di necessaria offensività e reati di mera condotta, con particolare riguardo alle fattispecie di pericolo astratto e presunto - di Mariangela Miceli (*)




Il principio di necessaria offensività è corollario del principio di sussidiarietà e di legalità. Tale principio non trova una espressa formulazione all’interno della Carta costituzionale ma può essere ricavato dalla lettura degli artt. 25 e 27 Cost.. 

Del resto il richiamo al principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione, basta a rilevare come nessuno possa essere punito per un fatto che non sia previsto dalla legge come reato, nonché, come il reato previsto dalla norma penale individui una soglia di rilevanza non solo a protezione del bene giuridico protetto ma anche nell’individuazione dell’azione idonea a lederlo. 

Il principio di offensività, quindi, trova anche una sua collocazione all’interno della teoria del bene giuridico protetto dalla norma penale che, può essere espresso nel brocardo nullun poena sine iniura, in altre parole, nessuno può essere punito per un fatto che non leda il bene giuridico protetto dalla norma penale stessa. 

Orbene, il nostro ordinamento penale, in merito al principio di offensività prevede anche due articoli che in merito proprio alla lesione del bene giuridico chiariscono il tema oggetto di odierna disamina. Il riferimento è agli artt. 49 e 56 del codice penale, i quali rimandano per quanto attiene al primo articolo al reato impossibile, mentre al secondo articolo, al reato tentato.

Per quanto riguarda il reato impossibile, la norma di cui all’art. 49, secondo comma, prevede espressamente che “ la punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”. 

Tale norma, quindi, chiarisce ancora di più la soglia di rilevanza non solo dell’offensività ma anche della punibilità. Dinnanzi, infatti, ad un’azione che anche nell’intenzione dell’autore del fatto – quale mero convincimento interno - sia incompatibile e quindi, impossibile, il reato non si consuma proprio per l’inidoneità dell’atto o fatto posto in essere.

Parte della dottrina minoritaria ha espresso perplessità in merito all’art. 49 cp., declinandolo come un inutile duplicato dell’art. 56 cp..

Invero, tale articolo non può essere visto come un mero duplicato, proprio perché già dalla relazione di accompagnamento al codice Rocco - che ha modificato il dettato normativo del codice Zanardelli – l’art. 49 cp. risulta essere più una “valvola di sicurezza” dell’ordinamento penale più che un mero duplicato.

Basti pensare , tra l’altro, che l’art. 56 cp all’interno del proprio dato letterale non parla di reato impossibile - come espressamente previsto dalla rubrica di cui all’art. 49 cp - ma di “atti idonei, diretti in modo non equivoco”.

Tale precisazione non è meramente formale e superflua, poiché oggetto della tutela della norma sul tentativo è proprio un’anticipazione della tutela intesa come messa in pericolo del bene giuridico protetto, e non l’impossibilità di un’azione che di fatto non metta a repentaglio il bene giuridico stesso.

Di talché appare evidente che la ratio sottesa alle due norme non sia riconducibile alla medesima matrice voluta dal legislatore.

L’art. 49 cp intende chiarire quando l’offesa sia inesistente e/o impossibile, mentre, l’art. 56 chiarisce proprio il contenuto dei reati di pericolo sia astratto che presunto, trattando in modo esplicito degli atti idonei, così da anticipare non solo la soglia di tutela ma anche dare attuazione al principio di offensività.

A mero titolo esemplificativo, basti pensare al falso grossolano, di cui all’art. 473 cp., qualora, infatti, il falso sia grossolano o anche c.d. “inutile” non potrà configurarsi la lesione del bene giuridico dalla norma sopracitata che tutela la “contraffazione, alterazione di marchi o segni distintivi ovvero di modelli e disegni”.

La spiegazione è presto detta, infatti, nel caso di falso grossolano, ovvero, qualora icto oculi senza necessarie capacità tecniche professionali, il consumatore finale si renda conto della grossolanità della contraffazione, non sarà configurabile la lesione del bene giuridico protetto dalla norma di cui all’art. 473 cp..

Proprio in ragione dei principi appena espressi, può essere rintracciata la ratio del principio di offensività anche in riferimento ai reati di mera condotta e dei reati di pericolo astratto e presunto. 

In merito a quest’ultimi, vi è da precisare che questi sono stati oggetto di ampio dibattito in dottrina, soprattutto in merito ad un anticipazione della tutela del bene giuridico e della relativa applicazione all’eventuale reo della sanzione penale.

Per quanto attiene ai reati di pericolo astratto e presunto è bene precisare che la dottrina pone una differenza tra pericolo astratto e concreto, arrivando a discutere di reati di “pericolo di pericolo”, basti pensare alla coltivazione delle piante di stupefacenti per la quale anche la Suprema Corte di Cassazione con al sentenza “Caruso” ha ribadito la distinzione tra mera detenzione, coltivazione “industriale” e domestica.

Orbene, proprio su questo ultimo punto, è possibile rinvenire la distinzione tra pericolo astratto e presunto, in altre parole, è possibilità rilevare la soglia di messa in pericolo del bene giuridico protetto dalla norma di cui all’art. 73 del DPR n.309/90. 

La norma appena richiamata, infatti, tutela non solo la salute pubblica ma anche l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica e il mercato.

La sentenza Caruso, quindi, ha tentato di porre un punto definitivo su ciò che si intende per coltivazione domestica e quando l’effetto drogante vada effettivamente a ledere il bene giuridico protetto dalla norma di cui all’art. 73. 

Tanto che è stato specificato che, anche nel caso di percentuale di THC sopra la soglia dello 0,6%, la coltivazione è tale da ledere il bene giuridico della salute o dell’ordine pubblico o del mercato, solo tale condotta rileva dal punto di vista penale e sanzionatorio.

La giurisprudenza si è spinta oltre, al fine di determinare proprio i limiti della soglia dell’offensività della condotta, ponendo l’accento proprio sulle caratteristiche e i mezzi per i quali la stessa risulti lesiva dei beni giuridici protetti.

Sempre in tema di stupefacenti, infatti, ha individuato alcuni elementi tra cui le particelle catastali, i metri quadri, il tipo di coltivazione finanche la fiorita e la maturazione della pianta.

Tali elementi non devono apparire superflui, poiché, proprio in ragione dell’anticipazione della soglia di punibilità dei reati di pericolo astratto e presunto, gli elementi a cui l’interprete deve guardare al fine di verificare l’effettiva lesione del bene giuridico non possono che essere tecnici e concreti, anche in relazione - nel caso di cui si discute - dei mezzi con i quali la coltivazione è stata effettuata.

Proprio a tal fine il giudice sarà chiamato non solo a verificare se si tratta di coltivazione “tecnica – agraria” o “domestica” ma anche, se la pianta/coltivazione, sia atta a produrre un effetto drogante. 

Tale elemento risulta essere fondamentale per superare la soglia di messa in pericolo del bene giuridico protetto dalla norma, e al fine di verificare l’effettiva offensività della condotta. 

In conclusione, il principio di offensività trova espressione quale corollario del principio di legalità ma anche della teoria del bene giuridico. Tale principio però, non può essere inteso come un “principio di precauzione”, nonostante questo venga richiamato nei c.d. reati ambientali dall’art. 174 del Trattato istitutivo della Comunità europea, poiché rischierebbe di anticipare eccessivamente la tutela della soglia della punibilità. 

Il principio di precauzione può trovare una propria autonomia, soltanto nella società c.d. del “rischio”, ovvero, qualora ci si trovi dinnanzi a situazione di incertezza scientifica.


(*) Mariangela Miceli: Avvocato del Foro di Trapani. Già dottoranda di ricerca in diritto commerciale e docente a contratto presso l'Università di Roma Unitelma Sapienza. Autrice di pubblicazioni scientifiche.  Contributor per il blog Econopoly24 del Sole24ore

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