La Corte di Cassazione - amichevolmente: il
Palazzaccio - è, nell’immaginario collettivo, simbolo di Giustizia, la
sublimazione - fattasi edificio - della dea Dike.
Da questa immaginifica rappresentazione non
si discosta - almeno per me - l’Avvocatura. Il difensore vede nella Suprema
Corte la speranza di una giusta decisione, il ribaltamento di una sentenza che
ritiene contra ius, inficiata da vizi di legittimità variamente
disseminati nel percorso argomentativo dei giudici di merito. Chi si induce a
fare un ricorso – atto dall’elevato tecnicismo e che presuppone cognizioni
giuridiche acquisite grazie alla comprovata esperienza e al superamento di un
apposito percorso formativo (è noto infatti che, per poter essere iscritti nell’Albo
speciale dei Cassazionisti, la mera anzianità, intesa quale risalenza nel tempo
della iscrizione quale avvocato, non è più sufficiente) – è mosso dalla volontà
di sovvertire la decisione di merito e – assumendo che il ricorso non si faccia
tanto per fare: la qual cosa non è da escludere completamente, considerato che
l’interposizione del ricorso consente comunque di ritardare il formarsi del
giudicato e l’esecuzione della pena – compie un’attenta disamina della sentenza,
valutando la sussistenza o meno di taluno dei vizi tassativi, elencati nell’art.
606 c.p.p. e concretizzanti un numerus clausus (a parte la fattispecie
dell’abnormità processuale), che soli consentono di impugnare dinanzi alla
Suprema Corte.
Sennonché, a questa idealità fa da
contraltare la realtà. Un segnale di anomalia del sistema è invero rappresentato
dalla percentuale dei ricorsi dichiarati inammissibili: secondo l’Annuario Statistico
2021 del 18 gennaio 2022, a cura dell’Ufficio di Statistica presso la Corte di
Cassazione, ben il 70,8%, pari a 33.083 ricorsi. È un dato costante,
nell’ordine di grandezza, e in progressiva crescita negli ultimi anni, nonostante
la riforma Orlando (art. 1, comma 63, l. 23 giugno 2017, n. 103) abbia
eliminato la facoltà dell’imputato di fare ricorso personalmente (l’unico
legittimato è dunque il difensore, tecnico del diritto). Oltre la metà dei
ricorsi dichiarati inammissibili - il 59,4% - proviene dalla Sezione Settima.
La restante percentuale dei ricorsi è divisa – più o meno equamente – tra gli
altri possibili esiti: il 10,2% è andato incontro al rigetto; il 10,4% ha avuto
quale epilogo l’annullamento con rinvio; il 7,2% l’annullamento senza rinvio.
Interessante è anche il dato relativo alla
tipologia dei ricorrenti: il solo imputato – ora per il tramite esclusivo del difensore
– copre il 96,6% dei casi; il pubblico ministero il 3,8%. L’inammissibilità – dall’angolo
prospettico degli impugnanti – è invece marcatamente sbilanciata: il 73,4%
riguarda infatti i ricorsi proposti dalla parte privata a fronte del 33,8 %
riferito alla pubblica accusa.
Le percentuali consentono di sfatare anche
un falso mito: che l’imputato punti alla prescrizione del reato. L’incidenza
della prescrizione nel giudizio di legittimità è infatti davvero scarna: solo l’1,6%
dei procedimenti è stato definito in Cassazione con la declaratoria di
prescrizione del reato, un esito che, con l’entrata in vigore della riforma Cartabia
(l. 27 settembre 2021, n. 134) e l’introduzione del discusso istituto della
improcedibilità, non sarà più possibile.
Volendo sintetizzare, il risultato è
certamente lontano dalle aspettative del ricorrente: solo il 17,6% dei ricorsi viene
accolto.
Certo, il diritto non può essere ridotto ad
una formula matematica: ma i numeri sono importanti, scolpiscono la nostra
vita, riflettono dati intellegibili e consentono di muoversi in un quadro dalle
coordinate chiare.
Se il dato riflesso è quello riferito, bisogna
dunque domandarsi se la declaratoria d’inammissibilità sia una conseguenza
necessitata e correlata ineludibilmente all’attuale normativa o se, in qualche
misura, non sia la stessa Corte di Cassazione a interpretare in modo eccessivamente
rigoroso l’attuale assetto, così restringendo ancor di più il ventaglio dei
casi di ricorso per Cassazione ammissibili. Forse, il paradigma andrebbe
rivisto: non è un caso che, di recente, sull’eccessivo formalismo della Cassazione
sia intervenuta la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, con una sentenza
del 28 ottobre 2021 (n. 55064/11, Succi contro Italia), ha condannato l’Italia
per l’interpretazione eccessivamente formalistica dei criteri di redazione dei
ricorsi in Cassazione in violazione del diritto di accesso al giudice, previsto
dall’art. 6 della Convenzione Europea. I diritti garantiti dalla Convenzione, tra
cui quello propedeutico di accesso a un tribunale (art. 6, appunto) devono
essere concreti ed effettivi e non meramente teorici: le norme che limitano
l’accesso a un tribunale e le procedure per le impugnazioni devono essere
chiare, prevedibili e proporzionate, per evitare che la forma prevalga sulla
sostanza. In breve: i criteri previsti dal codice di procedura civile in ordine
alla redazione del ricorso in cassazione sono stati considerati stridenti rispetto
al tenore dell’art. 6 § 1 della Convenzione.
In caso di doppia conforme di condanna – sentenze
di primo e di secondo grado che abbiano recepito l’ipotesi accusatoria – il
ricorso per cassazione è quasi sempre destinato ad essere dichiarato
inammissibile: lo spazio del vizio di motivazione, già ridotto di suo, riceve
un ulteriore ridimensionamento. Il vizio di travisamento della prova può essere
dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso in parola, solo quando entrambi
i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze
probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da
imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle
motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio
acquisito nel contraddittorio delle parti (Cass., Sez. IV, sent. n. 35963
del 3 dicembre 2020). Considerato che, secondo i giudici di legittimità, si ha doppia
conforme quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si
salda con quella di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze possono
essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale,
in queste ipotesi il difensore si trova a dover redigere un ricorso che di
fatto deve travolgere non solo la sentenza di appello ma anche quella di prime
cure, con uno sforzo giuridico invero non richiesto dalla lettera della legge
ma che appare l’esclusivo portato dell’indirizzo ermeneutico della Corte
Suprema. Doppia conforme: ergo, un doppio ostacolo per il ricorrente.
Non meno insidioso il percorso ad ostacoli per
il difensore che rediga il ricorso ai sensi dell’art. 606 c.p.p. lett. e)
tout court. Ad onta del chiaro tenore letterale – già di suo non semplice
– sono andati aggiungendosi profili nuovi e inusitati, tali da configurarsi
quali ulteriori fattori di complicazione: si è così affermato che «il
ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per
travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre
l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione
nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od
adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di
decisività, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento;
b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge
e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare
la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato,
nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si
fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo
decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo
profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del
provvedimento impugnato» (tra le altre, Cass., Sez. VI, sentenza n. 10795
del 16 febbraio 2021). Oneri addossati sul ricorrente – alcuni dei quali
davvero difficili da superare – che riducono sensibilmente le maglie dell’ammissibilità:
il pertugio diventa simile alla classica cruna dell’ago.
A risultati non dissimili conduce il
principio di autosufficienza del ricorso, che trasforma il ricorrente in una sorta
di notaio: occorre “certificare” tutto, pena l’inammissibilità dell’atto. Con
indirizzo pressoché costante vengono infatti considerati inammissibili, per
violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei ricorsi che
deducano il vizio di manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione
e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la loro
integrale trascrizione o allegazione (tra le molte, Cass., Sez. II, sentenza n.
20677 dell’11 aprile 2017). Sennonché, stando all’art. 606 c.p.p., la lett. e)
richiede solo l’indicazione degli atti, non certo l’integrale
trascrizione o allegazione degli stessi, oneri questi ultimi che – non richiesti
dalla legge – rischiano solamente di determinare un sovradimensionamento degli
atti difensivi, senza alcuna effettiva utilità (peraltro, è il caso di
evidenziare che il Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il
Consiglio Nazionale Forense sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in
materia penale, del 17 dicembre 2015, declina il principio di autosufficienza
intendendolo come necessità della mera indicazione degli atti).
Pure la prova di resistenza equivale ad un impaccio
creato in via interpretativa: nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione
si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di
impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza
dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova
di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente
diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le
residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico
convincimento (ex plurimis, Cass., Sez. II, sentenza n. 7986 del 18
novembre 2016). La prova di cui si lamenti l’inutilizzabilità deve dunque
essere decisiva: eventuali violazioni di legge attinenti alla legalità della
prova sono degradate a meri accidenti, irrilevanti per il diritto, ove non si
colorino di tale carattere di decisività. L’indirizzo monocorde non convince: la
lett. c) dell’art. 606 c.p.p. non richiede alcuna decisività della prova
illegittimamente acquisita. Soprattutto, come efficacemente è stato detto, «la
decisività del vizio denunciato attiene al risultato della impugnazione e non
alla sua ammissibilità. In altri termini, se il vizio sussiste e tuttavia non
potrebbe, in caso di annullamento con rinvio, condurre ad un ribaltamento della pronuncia, l’impugnazione
deve essere rigettata, ma non dichiarata inammissibile» (così D. Livreri, La Corte ribadisce l’onere
della prova di resistenza ai fini dell’ammissibilità. E se sbagliasse?, in forogiurisprudenzacptp.blogspot.com,
15 giugno 2022).
Se il sogno illuministico che si perpetua
nella Cassazione e ne è alla base è quello di un giudice di legittimità che fa
prevalere la legge sulla interpretazione del giudice di merito (la Cassazione
quale Giudice dei Giudici), il sogno, almeno in parte, non si è realizzato: da custode
del diritto, il rischio di una deriva verso altri modelli è latente. È il
rischio di una Cassazione che «per fronteggiare la colata lavica dei ricorsi
cerca barriere selettive più efficaci, come l’interesse, la specificità e
decisività dei motivi» (F.M.
Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione,
Giuffrè, 2013).
La Cassazione che vorrei potrebbe dunque
fare un passo indietro: se formalismo deve essere, allora si rispettino le
forme anche là dove esse sono funzionali a tutelare il ricorrente. Un’aderenza maggiore
al principio di legalità processuale consentirebbe di mettere al bando quel
florilegio di limiti al ricorso – disegnati a pena d’inammissibilità –
ulteriori e ultronei rispetto al dettato normativo. Senza considerare che l’inammissibilità
è una forma di invalidità e, dunque, le cause che la determinano devono essere
tipizzate, stante il principio di tassatività che governa la materia (G. Conso, Il concetto e le specie
d’invalidità. Introduzione alla teoria dei vizi degli atti processuali penali,
Giuffrè, Milano, 1955).
Un ultimo aspetto. Anche il concetto di
manifesta infondatezza dei motivi è pericoloso: dai contorni slabbrati e vaghi,
si presta ad interpretazioni ondivaghe, rimesse all’apprezzamento insindacabile
del giudice, in mancanza di una tassativa descrizione legislativa: celebre la
metafora del «territorio senza legge» (così F.M. Iacoviello, La Cassazione
penale, cit., p. 809). Eppure, dalla manifesta infondatezza discendono
l’inammissibilità del ricorso e l’inapplicabilità dell’art. 129 c.p.p. La
lacuna normativa – rectius: l’assenza di una definizione puntuale – non è
riempita dalla giurisprudenza. Come osservato, «anziché cercare di chiarire i
concetti, la Cassazione sfrutta la loro indeterminatezza», rinunciando, in tal
modo, a «distinguere infondatezza e manifesta infondatezza» e dando l’abbrivio
ad una «illogicità del diritto vivente» (F.M.
Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 809). Come discernere
la infondatezza dalla manifesta infondatezza? Come individuare la misura atta a
tracciare il discrimine che segna il passaggio dall’atto valido, semmai
destinato ad essere rigettato, a quello inammissibile?
La Cassazione che vorrei dovrebbe, almeno
in parte, essere rivista: in questo caso, la modifica dovrebbe passare
necessariamente da un intervento del Legislatore. Una interpolazione necessaria
che o elimini dalle cause d’inammissibilità la manifesta infondatezza dei
motivi (la tricotomia fondatezza/infondatezza/manifesta infondatezza diventerebbe
materia esclusiva di una decisione di accoglimento del ricorso o di rigetto)
ovvero dia una definizione, in modo quanto più preciso, del concetto di cui si
discute. Meglio la prima soluzione, ma, in assenza, una perimetrazione dell’istituto,
rispondente ai requisiti di tassatività e determinatezza della fattispecie,
sarebbe un notevole passo in avanti. Si eviterebbero contrasti
giurisprudenziali e soluzioni diverse per casi simili e il sistema ne
guadagnerebbe in coerenza: e, secondo un magistero che non deve mai essere
dimenticato, il «primo pregio di un sistema è la coerenza» (F. Cordero, Linee di un processo
accusatorio, in Aa.Vv., Criteri
direttivi per una riforma del processo penale, Giuffrè, Milano, 1965, p. 81).
(*) Guido Todaro: Avvocato
del Foro di Bologna, Cassazionista, è Dottore di Ricerca in Diritto e
Processo Penale presso l’Università di Bologna, nonché Professore a
contratto di Procedura Penale presso la Scuola di Specializzazione per
le Professioni Legali afferente alla medesima Università. È componente del Comitato di Gestione della Scuola Territoriale della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”, nonché membro della Redazione della Rivista Cassazione penale.
È Autore di oltre 50 pubblicazioni in riviste scientifiche, nonché coautore del libro “La difesa nel procedimento cautelare personale”, Giuffrè, 2012, e con-curatore del Volume “Custodia cautelare e sovraffollamento carcerario”, Studi Urbinati, v. 65, n. 1, 2014.