26 luglio 2022

La Cassazione che vorrei- di Guido Todaro

  

  


 

 La Corte di Cassazione - amichevolmente: il Palazzaccio - è, nell’immaginario collettivo, simbolo di Giustizia, la sublimazione - fattasi edificio - della dea Dike.

   Da questa immaginifica rappresentazione non si discosta - almeno per me - l’Avvocatura. Il difensore vede nella Suprema Corte la speranza di una giusta decisione, il ribaltamento di una sentenza che ritiene contra ius, inficiata da vizi di legittimità variamente disseminati nel percorso argomentativo dei giudici di merito. Chi si induce a fare un ricorso – atto dall’elevato tecnicismo e che presuppone cognizioni giuridiche acquisite grazie alla comprovata esperienza e al superamento di un apposito percorso formativo (è noto infatti che, per poter essere iscritti nell’Albo speciale dei Cassazionisti, la mera anzianità, intesa quale risalenza nel tempo della iscrizione quale avvocato, non è più sufficiente) – è mosso dalla volontà di sovvertire la decisione di merito e – assumendo che il ricorso non si faccia tanto per fare: la qual cosa non è da escludere completamente, considerato che l’interposizione del ricorso consente comunque di ritardare il formarsi del giudicato e l’esecuzione della pena – compie un’attenta disamina della sentenza, valutando la sussistenza o meno di taluno dei vizi tassativi, elencati nell’art. 606 c.p.p. e concretizzanti un numerus clausus (a parte la fattispecie dell’abnormità processuale), che soli consentono di impugnare dinanzi alla Suprema Corte.

   Sennonché, a questa idealità fa da contraltare la realtà. Un segnale di anomalia del sistema è invero rappresentato dalla percentuale dei ricorsi dichiarati inammissibili: secondo l’Annuario Statistico 2021 del 18 gennaio 2022, a cura dell’Ufficio di Statistica presso la Corte di Cassazione, ben il 70,8%, pari a 33.083 ricorsi. È un dato costante, nell’ordine di grandezza, e in progressiva crescita negli ultimi anni, nonostante la riforma Orlando (art. 1, comma 63, l. 23 giugno 2017, n. 103) abbia eliminato la facoltà dell’imputato di fare ricorso personalmente (l’unico legittimato è dunque il difensore, tecnico del diritto). Oltre la metà dei ricorsi dichiarati inammissibili - il 59,4% - proviene dalla Sezione Settima. La restante percentuale dei ricorsi è divisa – più o meno equamente – tra gli altri possibili esiti: il 10,2% è andato incontro al rigetto; il 10,4% ha avuto quale epilogo l’annullamento con rinvio; il 7,2% l’annullamento senza rinvio.

   Interessante è anche il dato relativo alla tipologia dei ricorrenti: il solo imputato – ora per il tramite esclusivo del difensore – copre il 96,6% dei casi; il pubblico ministero il 3,8%. L’inammissibilità – dall’angolo prospettico degli impugnanti – è invece marcatamente sbilanciata: il 73,4% riguarda infatti i ricorsi proposti dalla parte privata a fronte del 33,8 % riferito alla pubblica accusa.

    Le percentuali consentono di sfatare anche un falso mito: che l’imputato punti alla prescrizione del reato. L’incidenza della prescrizione nel giudizio di legittimità è infatti davvero scarna: solo l’1,6% dei procedimenti è stato definito in Cassazione con la declaratoria di prescrizione del reato, un esito che, con l’entrata in vigore della riforma Cartabia (l. 27 settembre 2021, n. 134) e l’introduzione del discusso istituto della improcedibilità, non sarà più possibile.

    Volendo sintetizzare, il risultato è certamente lontano dalle aspettative del ricorrente: solo il 17,6% dei ricorsi viene accolto.

   Certo, il diritto non può essere ridotto ad una formula matematica: ma i numeri sono importanti, scolpiscono la nostra vita, riflettono dati intellegibili e consentono di muoversi in un quadro dalle coordinate chiare.

    Se il dato riflesso è quello riferito, bisogna dunque domandarsi se la declaratoria d’inammissibilità sia una conseguenza necessitata e correlata ineludibilmente all’attuale normativa o se, in qualche misura, non sia la stessa Corte di Cassazione a interpretare in modo eccessivamente rigoroso l’attuale assetto, così restringendo ancor di più il ventaglio dei casi di ricorso per Cassazione ammissibili. Forse, il paradigma andrebbe rivisto: non è un caso che, di recente, sull’eccessivo formalismo della Cassazione sia intervenuta la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, con una sentenza del 28 ottobre 2021 (n. 55064/11, Succi contro Italia), ha condannato l’Italia per l’interpretazione eccessivamente formalistica dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione in violazione del diritto di accesso al giudice, previsto dall’art. 6 della Convenzione Europea. I diritti garantiti dalla Convenzione, tra cui quello propedeutico di accesso a un tribunale (art. 6, appunto) devono essere concreti ed effettivi e non meramente teorici: le norme che limitano l’accesso a un tribunale e le procedure per le impugnazioni devono essere chiare, prevedibili e proporzionate, per evitare che la forma prevalga sulla sostanza. In breve: i criteri previsti dal codice di procedura civile in ordine alla redazione del ricorso in cassazione sono stati considerati stridenti rispetto al tenore dell’art. 6 § 1 della Convenzione.

    Viene da chiedersi se, mutatis mutandis, la ratio della decisione della Corte di Strasburgo non possa valere anche con riguardo al giudizio penale: in fondo, «l’accertamento dell’innocenza è una posta troppo importante, per essere sacrificata agli idoli della procedura» (F. Cordero, Il procedimento probatorio, in Id., Tre studi sulle prove penali, Giuffrè, Milano, 1963, p. 143 s.) e «il risultato conforme a giustizia può uscire anche da una felice disubbidienza del giudice» (F. Cordero, Prove illecite, in Id., Tre studi sulle prove penali, cit., p. 171).

    La Cassazione che vorrei potrebbe dunque rinunciare, con le opportune cautele, alle eccessive rigidità del sistema: bene inteso, non si tratta di un lasciapassare, ma di ammorbidire un po' gli spazi di intervento, conferendo al vaglio di ammissibilità del ricorso – pur nel solco dei motivi tracciati – margini di elasticità più ampi, ove si tratti di rispondere ad esigenze di giustizia sostanziale, non altrimenti tutelabili.

   Ma al di là dell’eccessivo formalismo, i problemi sono altri.   

   Guardando alla casistica giurisprudenziale, sembra che lo stesso giudice di legittimità abbia coniato nuove cause d’inammissibilità dei ricorsi, andando oltre la lettera della legge: se in base all’art. 606 comma 3 c.p.p., «il ricorso è inammissibile se è proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati ovvero, fuori dei casi previsti dagli artt. 569 e 609 comma 2, per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello», le decisioni della Suprema Corte – movendosi formalmente nel solco dei motivi consentiti – hanno enucleato limiti che la lettera della legge non pare dispiegare. Ne risulta un percorso ad ostacoli, ancor più impervio di quanto non sarebbe osservando pedissequamente il codice. Il problema è che si gioca sul filo, tutt’altro che sottile, della distinzione tra disposizione e norma: disposizione è il testo scritto; la norma è il precetto che da quella disposizione, attraverso l’esegesi, si ricava. Sono concetti noti, come nota – da Crisafulli in poi – è la consapevolezza che tra una disposizione e una norma non vi sia sempre un parallelismo perfetto. Su questa diversificazione si sono così innestate limitazioni che formalmente la Suprema Corte riconduce al law in the books, ma che in realtà rappresentano un vero e proprio law in action, per riprendere l’espressione di Roscoe Pound. Temi quali la doppia conforme, il rigore nella interpretazione del vizio di motivazione, il principio di autosufficienza del ricorso, la prova di resistenza e il concetto di decisività configurano elementi che non sembrano potersi ricondurre specificamente all’art. 606 c.p.p.: piuttosto, sono vincoli, ostacoli, declinazioni liberamente tratte dalla Cassazione, fiorite praeter legem e tali da disegnare nuovi e diversi volti dell’inammissibilità, oltre la fisiologica soglia di quello che la legge, intesa letteralmente, rivela.

    Facciamo qualche esempio.    

    In caso di doppia conforme di condanna – sentenze di primo e di secondo grado che abbiano recepito l’ipotesi accusatoria – il ricorso per cassazione è quasi sempre destinato ad essere dichiarato inammissibile: lo spazio del vizio di motivazione, già ridotto di suo, riceve un ulteriore ridimensionamento. Il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso in parola, solo quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Cass., Sez. IV, sent. n. 35963 del 3 dicembre 2020). Considerato che, secondo i giudici di legittimità, si ha doppia conforme quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale, in queste ipotesi il difensore si trova a dover redigere un ricorso che di fatto deve travolgere non solo la sentenza di appello ma anche quella di prime cure, con uno sforzo giuridico invero non richiesto dalla lettera della legge ma che appare l’esclusivo portato dell’indirizzo ermeneutico della Corte Suprema. Doppia conforme: ergo, un doppio ostacolo per il ricorrente.

     Non meno insidioso il percorso ad ostacoli per il difensore che rediga il ricorso ai sensi dell’art. 606 c.p.p. lett. e) tout court. Ad onta del chiaro tenore letterale – già di suo non semplice – sono andati aggiungendosi profili nuovi e inusitati, tali da configurarsi quali ulteriori fattori di complicazione: si è così affermato che «il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato» (tra le altre, Cass., Sez. VI, sentenza n. 10795 del 16 febbraio 2021). Oneri addossati sul ricorrente – alcuni dei quali davvero difficili da superare – che riducono sensibilmente le maglie dell’ammissibilità: il pertugio diventa simile alla classica cruna dell’ago.

   A risultati non dissimili conduce il principio di autosufficienza del ricorso, che trasforma il ricorrente in una sorta di notaio: occorre “certificare” tutto, pena l’inammissibilità dell’atto. Con indirizzo pressoché costante vengono infatti considerati inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei ricorsi che deducano il vizio di manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione (tra le molte, Cass., Sez. II, sentenza n. 20677 dell’11 aprile 2017). Sennonché, stando all’art. 606 c.p.p., la lett. e) richiede solo l’indicazione degli atti, non certo l’integrale trascrizione o allegazione degli stessi, oneri questi ultimi che – non richiesti dalla legge – rischiano solamente di determinare un sovradimensionamento degli atti difensivi, senza alcuna effettiva utilità (peraltro, è il caso di evidenziare che il Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale, del 17 dicembre 2015, declina il principio di autosufficienza intendendolo come necessità della mera indicazione degli atti).

    Pure la prova di resistenza equivale ad un impaccio creato in via interpretativa: nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (ex plurimis, Cass., Sez. II, sentenza n. 7986 del 18 novembre 2016). La prova di cui si lamenti l’inutilizzabilità deve dunque essere decisiva: eventuali violazioni di legge attinenti alla legalità della prova sono degradate a meri accidenti, irrilevanti per il diritto, ove non si colorino di tale carattere di decisività. L’indirizzo monocorde non convince: la lett. c) dell’art. 606 c.p.p. non richiede alcuna decisività della prova illegittimamente acquisita. Soprattutto, come efficacemente è stato detto, «la decisività del vizio denunciato attiene al risultato della impugnazione e non alla sua ammissibilità. In altri termini, se il vizio sussiste e tuttavia non potrebbe, in caso di annullamento con rinvio, condurre  ad un ribaltamento della pronuncia, l’impugnazione deve essere rigettata, ma non dichiarata inammissibile» (così D. Livreri, La Corte ribadisce l’onere della prova di resistenza ai fini dell’ammissibilità. E se sbagliasse?, in forogiurisprudenzacptp.blogspot.com, 15 giugno 2022).

   Se il sogno illuministico che si perpetua nella Cassazione e ne è alla base è quello di un giudice di legittimità che fa prevalere la legge sulla interpretazione del giudice di merito (la Cassazione quale Giudice dei Giudici), il sogno, almeno in parte, non si è realizzato: da custode del diritto, il rischio di una deriva verso altri modelli è latente. È il rischio di una Cassazione che «per fronteggiare la colata lavica dei ricorsi cerca barriere selettive più efficaci, come l’interesse, la specificità e decisività dei motivi» (F.M. Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Giuffrè, 2013).

    La Cassazione che vorrei potrebbe dunque fare un passo indietro: se formalismo deve essere, allora si rispettino le forme anche là dove esse sono funzionali a tutelare il ricorrente. Un’aderenza maggiore al principio di legalità processuale consentirebbe di mettere al bando quel florilegio di limiti al ricorso – disegnati a pena d’inammissibilità – ulteriori e ultronei rispetto al dettato normativo. Senza considerare che l’inammissibilità è una forma di invalidità e, dunque, le cause che la determinano devono essere tipizzate, stante il principio di tassatività che governa la materia (G. Conso, Il concetto e le specie d’invalidità. Introduzione alla teoria dei vizi degli atti processuali penali, Giuffrè, Milano, 1955).

   Un ultimo aspetto. Anche il concetto di manifesta infondatezza dei motivi è pericoloso: dai contorni slabbrati e vaghi, si presta ad interpretazioni ondivaghe, rimesse all’apprezzamento insindacabile del giudice, in mancanza di una tassativa descrizione legislativa: celebre la metafora del «territorio senza legge» (così F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 809). Eppure, dalla manifesta infondatezza discendono l’inammissibilità del ricorso e l’inapplicabilità dell’art. 129 c.p.p. La lacuna normativa – rectius: l’assenza di una definizione puntuale – non è riempita dalla giurisprudenza. Come osservato, «anziché cercare di chiarire i concetti, la Cassazione sfrutta la loro indeterminatezza», rinunciando, in tal modo, a «distinguere infondatezza e manifesta infondatezza» e dando l’abbrivio ad una «illogicità del diritto vivente» (F.M. Iacoviello, La Cassazione penale, cit., p. 809). Come discernere la infondatezza dalla manifesta infondatezza? Come individuare la misura atta a tracciare il discrimine che segna il passaggio dall’atto valido, semmai destinato ad essere rigettato, a quello inammissibile?

    La Cassazione che vorrei dovrebbe, almeno in parte, essere rivista: in questo caso, la modifica dovrebbe passare necessariamente da un intervento del Legislatore. Una interpolazione necessaria che o elimini dalle cause d’inammissibilità la manifesta infondatezza dei motivi (la tricotomia fondatezza/infondatezza/manifesta infondatezza diventerebbe materia esclusiva di una decisione di accoglimento del ricorso o di rigetto) ovvero dia una definizione, in modo quanto più preciso, del concetto di cui si discute. Meglio la prima soluzione, ma, in assenza, una perimetrazione dell’istituto, rispondente ai requisiti di tassatività e determinatezza della fattispecie, sarebbe un notevole passo in avanti. Si eviterebbero contrasti giurisprudenziali e soluzioni diverse per casi simili e il sistema ne guadagnerebbe in coerenza: e, secondo un magistero che non deve mai essere dimenticato, il «primo pregio di un sistema è la coerenza» (F. Cordero, Linee di un processo accusatorio, in Aa.Vv., Criteri direttivi per una riforma del processo penale, Giuffrè, Milano, 1965, p. 81).  

  

(*) Guido Todaro: Avvocato del Foro di Bologna, Cassazionista, è Dottore di Ricerca in Diritto e Processo Penale presso l’Università di Bologna, nonché Professore a contratto di Procedura Penale presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali afferente alla medesima Università. È componente del Comitato di Gestione della Scuola Territoriale della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”, nonché membro della Redazione della Rivista Cassazione penale.  

È Autore di oltre 50 pubblicazioni in riviste scientifiche, nonché coautore del libro “La difesa nel procedimento cautelare personale”, Giuffrè, 2012, e con-curatore del Volume “Custodia cautelare e sovraffollamento carcerario”, Studi Urbinati, v. 65, n. 1, 2014.

 

  

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